C'è sempre un motivo per il quale oggi siamo quel che siamo.

Tutto parte dalla nascita. Chi ci plasma nel grembo e ci fa vivere lì, nel mondo delle tenebre, che piano piano diventa la nostra casa.

Se solo potessimo ricordarci come era bello il periodo dentro quell'accogliente buio. L'unico momento nella nostra vita in cui non eravamo da soli. Dove l'Amore che ci ha donato la vita, continuava a trasmettercela attraverso un tubicino nella pancia, a cui pensavamo saremmo rimasti legati a vita.

Li non esistevano ancora le guerre, gli scontri, l'infelicità. C'era solo quell'unione, un legame indissolubile e indistruttibile, che ci cullava tranquilli in un'oscurità che ci era amica, che ci faceva sentire in pace, privi di mancanze.

Ma ora che la vita la conosciamo, sappiamo che la felicità dura poco, un battito di ciglia e infatti con grande dolore, scopriamo la luce.

Ed eccola qui, la Solitudine, madre degli uomini.

Il momento in cui veniamo per sempre separati da ciò che che consideravamo l'Amore, che ci ha cresciuto e protetto con la sua stessa carne e che poi con violenza ci ha allontanato da se per sempre.

E così nasciamo. Già pieni di vuoto.
E non volendo incominciamo il nostro viaggio, una discesa nella vita, che scopriremo fin da subito piena di infinite violenze.

Inconsapevolmente ne siamo già aggrappati avidi e dai primi istanti lottiamo per non allontanarci più da quel chiarore, per non cadere nel buio eterno.
Così comincia la nostra dolorosa sopravvivenza.

Abbiamo il primo contatto con il mondo esterno, dove il freddo si impadronisce del nostro corpo. Il primo faticoso respiro, i rumori prima attutiti da Lei, ora così potenti. Queste luci che violentano due occhi che fanno fatica a rimanere aperti e infinite mani che non sono Amore che ci toccano, ci spostano di qua e di la e potrebbero farci di tutto.
Il nostro primo pianto di dolore.

La vita è così fragile.

Nessun uomo è mai stato pronto per nascere, ma tutti ci siamo passati.

Ma perché dobbiamo abbandonare quella simbiosi perfetta, dove siamo protetti e soddisfatti, per vivere una vita dominata dal desiderio di ritrovare quella condizione ideale?

È questo il momento decisivo, quello che determina tutto ciò che viene dopo: il nostro rapporto con la vita, con il dolore, con il piacere.

E per quanto questa luce ci abbia portato via tutto quello che consideravamo importante, in realtà ci ha donato la facoltà di scegliere, di conoscere, di cambiare. Ci ha dato un potere che prima non conoscevamo, un'identità.

Queste consapevolezze rappresentano una fiamma che arde e che ci spinge ad andare avanti nella continua lotta di ogni giorno. Così come abbiamo l'ardore di rimanere in vita, annaspando per il primo respiro, dove siamo da soli a cavarcela per noi stessi.

Ma come ben sappiamo, il dolore annienta questo fuoco e lo fa apparire insignificante.
E con il nostro permesso lasciamo che questo, venga via via spento.

Così sto lasciando andare la mia vita ora, ai comandi di una sofferenza che mi annega sempre più e minaccia di soffocarmi.

Come vorrei tornare in quel grembo materno a sentire la melodia dei battiti della mia mamma che diffondevano un po' della sua vita anche a me.

Ora sono sola e i miei battiti me li procuro da me, la mia sicurezza la procuro da me e se non fosse che sono così malata da ricercare quel dolore che mi ha allontanato da Lei, come fosse piacere, solo per sentirmi un po' viva, un po' più vicina a Lei, ora non sarei qui.

"...Adesso capisci perché preferirei morire piuttosto che vivere così?" domandai alzando il tono di voce, cercando di farmi sentire nel casino di questo postaccio al ragazzo che ho accanto.

"Che hai detto???"
A causa del forte rumore non sentii cosa disse e la miriade di luci colorate trasformavano il suo viso, rendendo impossibile leggergli le labbra.
Oppure non era solo colpa delle luci.

"Vabbè lascia stare, passami da bere."
Erano stati già troppi i liquidi che avevo mandato giù per anche solo incominciare a domandarmi il perché avessi intrapreso una sorta di conversazione con questo sconosciuto, ma almeno bevendo avrei potuto smettere.

"Cosa???" Cercò di dirmi sporgendosi verso di me.

Infastidita alzai gli occhi al cielo e prima di sparire nella folla, gli presi il bicchiere di mano e lo salutai con un occhiolino, che fu accompagnato da un suo: "Ma guarda te questa, tutte uguali siete!!"

Mi avvicinai alle casse della musica e dopo poco, con le sostanze che si erano fatte strada in tutto il corpo, mi sentii invincibile.

Avevo una sensazione di libertà che delle volte sovrastava tutte le altre. Questa è bastarda e ha la doppiafaccia, però tutto ancora andava bene.

Ma non solo, era come se il mio corpo era pervaso da mille impulsi elettrici che mi davano la scossa e mi muovevano come una forsennata a ritmo di musica.

Allo stesso tempo, cera il risvolto della medaglia. Che a stare all'interno di un posto sperduto che non mi ricordavo più come avessi raggiunto ,era deprimente e squallido.

Ma ero me stessa più che mai, o almeno così credevo.

Niente e nessuno avrebbe più potuto ferirmi e mi ero illusa di avere scelto liberamente di vivere la mia vita cosi, di sapere come stare bene e come stare male e di poter controllare quest'ultimo.
Pensavo di avere ancora tutto sotto controllo.

"Se ho imparato da neonata a respirare da sola, ora che sono un po' più grande saprò come vivere da sola."

Ballai, saltai, cantai fino allo sfinimento ma non mi ci sentivo, avevo la voglia di continuare all'infinito.

Tutto era più intenso, come avessi alzato la levetta sul massimo dei parametri che controllano i cinque sensi.

Ero sudata dalla testa ai piedi. Una ad una goccioline di sudore scendevano per cadere a terra, tra mozziconi di sigarette e bicchieri rovesciati.
Le sentivo fare conoscenza, mischiandosi, facendo l'amore con il sudore di altri corpi appiccicati al mio.

Non c'era più distinzione tra ciò che mi apparteneva e ciò che era altro da me, sembravamo un tutt'uno, una massa indistinta di carni che si univano a formare un mostro che prendeva vita col suo duplice scopo: divertirsi e ballare a più non posso.

La testa incominciava a girare e camminai a stento fino ad arrivare ai bagni.

Guardai nello specchio, ma non riuscii a ritrovarmi riflessa.

Ma chi è quella che mi sta fissando?

Tra le tante ragazze che vedevo non c'ero io. 
Un'altra dirimpetto a me però c'era e mi fissava strana.

Non era bella anzi, più la guardavo più appariva brutta. Aveva gli occhi assenti, lucidi, di un colore strano. Mi inquietava la sua figura però mi faceva ridere come barcollava da ferma e la mia risata contagiava anche lei.
Ubriaca ci iniziai a parlare e lei fece lo stesso con me.

Ora che sono lucida, non sono capace di ricordare cosa ci siamo dette, quanto tempo abbiamo passato chiuse là dentro e soprattutto, cosa abbiamo fatto una volta uscite, ma ciò che successe dopo mi fa pensare che non sia stato niente di buono.

L'ultima cosa che ricordo è un'improvvisa sensazione di leggerezza, come fossi stata priva di gravità e stessi tornando piano piano in quel liquido amniotico che attutiva tutto. Cosi come allora, il mondo esterno era ovattato e lontano.

Il buio era in me.

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