10. Neve che brucia

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Non è che io non volessi rispettare Attilius e mi rifiutassi di dormire, anzi, ma quel 'quasi' era così insopportabile che impiegai più del dovuto ad addormentarmi.

Prima una proboscide si era spiegata inalando un sacco d'aria e producendo uno strano stridio; ero saltato dallo spavento, Pexit si era guardato attorno cercando 'chi è questo insolente che continua a fare rumore?' come mi aveva sussurrato.
Poi un'altra proboscide si era spiegata in aria, infrangendo il mio torpore sul nascere.

Doveva essere il loro modo di russare, con la differenza che la proboscide ne amplificava il suono in rapporto a quanti nasi 'umani' entravano in una di queste. E posso giurare fosse terribile.

Ma la cosa più terribile era che dopo le prime due 'espressioni armoniche' ne avevano seguite altre, di cui una fin troppo vicina al mio orecchio per permettermi di addormentarmi con facilità: quella di Pexit. Credo di aver sperato che si svegliasse almeno cinque volte per porre fine a quella tortura, ma non accadde.

Pensai alle stelle e le contai, sistemai sulle dita delle mani tante pecorelle quante la mia pazienza mi portò a immaginarne.
Alla fine, in quella tenda dove non riuscivo a scorgere nemmeno uno strappo di cielo, iniziai a sentire il peso della notte. La paura, come quando attraversavo il bosco per raggiungere Lyvet, il cuore sovraccarico che ritornava al momento in cui Ernest aveva provato ad ucciderla.

C'era una notte fredda e nebbiosa là fuori, e averla affrontata una volta non mi impediva di averne ancora paura.
Pensai e ripensai a casa finché la mente non mi faceva male, e più cercavo di alleggerirla e più mi sembrava che stesse per scoppiare. Allontanare i pensieri era per me un'ardua impresa e quella sera ci riuscii solo perché le palpebre pesanti, sfinite, vinsero il sonno.

Che non fu conciliante quanto sperassi.
Ciò che trovai non fu il vuoto ristoratore di cui alla mattina non si ricorda nulla, ma una scena vivida e spaventosamente reale. Come se fossi davvero lì e non mi vedessero.

"Ce ne sono due"

"Ma l'altro non è il Mangiatempo!" stava dicendo Lyvet.

"Non ancora, ma è il suo futuro"

Lyvet abbassò il suo sguardo di solito ardente di fiducia, ora incupito dalla delusione.
"Non capisco. Ho sempre pensato che tutti nascono buoni, che non si è mai davvero cattivi."

"Infatti è così"

"E come si può arrivare a tanto? Come si può arrivare ad uccidere?"

Il suo interlocutore dall'abito rosso ed il corpo cosparso di vitiligine la guardò profondamente.
"Sono le scelte, mia cara, che spogliano o oscurano l'anima. Strato dopo strato di scelte sbagliate è sempre più difficile vedere la luce." Disse

Lyvet tacque un istante, poi disse "Spero ce l'abbia con sé"

"L'avrà, ma non gli servirà a molto"

Restai a guardarli ancora un istante finché Lyvet non si girò di scatto, corrugò la fronte e fui convinto che mi ebbe visto. Una scarica di preoccupazione mi attraversò lo stomaco di ansia, responsabilità, delusione... Per un momento mi parve di provare in prima persona le sue emozioni che con quello sguardo mi scaricò addosso.
Chiusi appena gli occhi e scomparve nel buio di una tenda infestata dal russare di creature aliene.

Mi alzai in silenzio e sorpassai a passo felpato tutti quei corpi parcheggiati a terra in cerca del cielo.
Era ancora notte.
Respirai profondamente cercando, all'inizio, di scacciare i brividi, poi di accoglierli nei battiti accelerati del mio cuore. Che cosa mi restava della mia vita? Adesso avevo solo quei brividi, non miei, che si ripercuotevano nel mio corpo da quello sguardo di Lyvet.

AI CONFINI DEL TEMPODove le storie prendono vita. Scoprilo ora