II Capitolo

27 1 0
                                    

C'era molta gente quel pomeriggio ma nessuno osava fiatare e si udiva appena qualche bisbiglio. In molti si erano presentati per recare omaggio e dare un ultimo saluto a signora Gavina, e sua figlia si spostava scricchiolando sulla ghiaia con i suoi tacchi neri a uno a uno fra i presenti per ringraziare tutti di esserci in quel giorno per lei così triste.

Sua madre le aveva pregato di farle compagnia ma Laura non aveva mai conosciuto quella donna e lei aveva paura di sentirsi un po' in fuori luogo, dandole fastidio la giacchetta nera che aveva dovuto indossare per l'occasione. Signora Assunta le vide a distanza e si accostò a passo svelto in compagnia di un'altra donna, più bassottina e anche lei dai capelli corti e bianchi, che salutarono entrambe con un abbraccio.

«Mancu mali ca c'è genti, lè [Meno male che c'è gente, eh]», sussurrò quella donna, con un accennato colpo di tosse.

Signora Assunta annuì e la madre di Laura la seguì poco dopo.

«Beh, dai, era molto conosciuta», aggiunse quest'ultima, «certo che doveva venire tanta gente».

«Eh, ma du scisi cumment'esti... [ma sai com'è...] Gavina a tempo ha litigato con molti», le ricordò l'altra.

Lei ascoltava senza proferire parola, finché quella donna non la investì con un'intensa e curiosa occhiata.

«Filla rua, lè? [Tua figlia, eh?]», domandò, continuando a fissarla, «Ugualisi [Uguali]», tentò un sorriso e con una mano le carezzò una guancia, mettendola in imbarazzo.

Sua madre annuì e lei si distanziò di mezzo passo, per non darlo troppo a vedere. «Piacere di conoscerla, sono Laura».

«Bellu nomini [Bel nome]», sorrise, «Io Efisia. Nome antico», bisbigliò, dando una veloce occhiata a sua madre, che sorrise a sua volta.

La gente iniziò a camminare con lentezza inoltrandosi verso il cimitero e loro quattro seguirono gli ultimi in coda. Lei allungò lo sguardo alle tombe che conosceva a memoria, ritrovandole così diverse e così uguali, talmente antiche da essere quasi un monumento, fra angeli e bambini. Si guardò attorno con curiosità, non vedeva l'ora che la internassero per tornare a casa, quando il suo sguardo fu catturato da ombre che si muovevano furtive fra bare lontane. Erano due, forse. Ed erano veloci, tanto. Lei le seguiva con gli occhi al punto da inciampare su una pietra e reggersi con le gambe all'ultimo, ritrovando quelle ombre. Si erano spostate: erano a qualche bara più vicina. Deglutì. Si voltò verso il resto della veglia ma nessuno oltre lei sembrava interessato a quello che stava succedendo, così si voltò per cercarle ancora ma erano scomparse. Cominciava a credere che era solo frutto della sua immaginazione. Un uomo le andò quasi sopra un piede e si voltò infastidita, bloccandosi, quando scoprì che le ombre non c'erano più perché chi ne era proprietario stava dietro di lei, a una decina di metri: erano due mamuthones, in piedi, con maschere nere e lunghe, arrabbiate. I campanacci sembravano ricoprire tutto il loro pelo nero. L'uomo le schiacciò il piede ancora e si costrinse a continuare il cammino, tenendosi più stretta a sua madre e signora Assunta.


«Vedi mamuthones ovunque?». Daniele rise così forte da darle quasi fastidio.

«Mi sembra di diventare matta», sbottò lei, «c'è ben poco da ridere».

Lui sfogliò con gli occhi le carte nella mano di lei come se avesse potuto leggere quello che nascondevano e poi si decise, gettando una carta blu al tavolo, o meglio sul muretto che faceva da tavolo. «Evidentemente ti mancava così tanto la Sardegna che adesso un suo simbolo ti perseguita», pescò una carta, mettendo la mano alla bocca.

Lei sbuffò. «Guarda che non sto giocando, ho visto davvero due mamuthones che mi fissavano, al cimitero». Si grattò la nuca e sbuffò ancora: le carte in mano non la aiutavano per niente.

Figlia della TerraUnde poveștirile trăiesc. Descoperă acum