Il risveglio

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Verde.
Ovunque intorno a lui, si replicava lo stesso identico fastidioso colore. Dalle pareti alle colonne, dal pavimento alle leggere luci che fluttuavano nell'aria, come lucciole; ovunque guardasse, quella tonalità che richiamava vita ed energia, lo invadeva con prepotenza, attecchendo nel suo animo come il rampicante più ostinato e duro a morire. Aveva sentito dire che il verde rappresentava la speranza, una sensazione particolare che, come un leggero vento, si prendeva cura di te, rendendoti meno pesante, cullandoti in dolci aspettative. Per molti umani la speranza era come il barlume di luce in fondo al tunnel buio, vuoto e oscuro; il sole all'orizzonte che sorgeva, circondato da tonalità chiare, tipiche dell'alba.
Mai niente di più ridicolo.

Si era stancato della moralità umana.
Era tutto così smielato, radioso e facile nell'ottica degli esseri umani, guidati unicamente dai loro sentimenti, da una visione soggettiva e infantile della vita. Il mondo non era così. Il mondo - senza filtri rosa applicati - era freddo, pungente e reale; e non c'era bisogno di essere tristi o arrabbiati: d'altronde quella era la sua vera natura, dunque, perché lamentarsi? La verità è che gli esseri umani erano capricciosi, testardi e ingenui, convinti di essere al centro dell'universo, e di meritare ogni bene. Lui era al di sopra di loro, perfino al di sopra della vita stessa, poiché ne aveva compreso la sua vera essenza, il suo vero sapore, già da molto tempo ormai.
La vita era una massa informe e insapore, un gusto difficile da apprezzare, per chi era abituato a edulcorarla con ogni mezzo possibile.

Digrignò i denti quando tentò di muoversi. Ancora sentiva i meccanismi radicati dentro la sua schiena, che si avvinghiavano alle sue vertebre, che scavavano nella sua finta carne, che succhiavano l'energia vitale che animava il burattino che era. Sospirò e strizzò gli occhi, e una volta riaperti, lo sentì. Un dolore sconosciuto, una sensazione aberrante che si faceva strada nel suo petto e appesantiva i suoi occhi. Quello era senz'altro senso di vuoto, la certezza di sapere che al suo interno, un cuore, non vi era mai stato. Si era abituato a quel sentire, a quella penetrante sensazione che pareva quasi prendersi gioco di lui.

«Ti sei svegliato».

Voltandosi, si trovò al cospetto del divino.
Sua Eccellenza Minore Kusanali era solo una bambina ad un'occhio esterno e distratto, con quelle fattezze era lo specchio dell'innocenza e della fanciullezza. I suoi occhi chiari e verdi brillavano di gioia e meraviglia, al loro interno sembravano sbocciare dei fiori, simbolo del suo dominio. Eppure Scaramouche aveva saggiato sulla sua pelle la sua affilata intelligenza, la sua fredda e imparziale capacità di giudizio e la sua forte connessione con il popolo di Sumeru. Gli venne quasi da ridacchiare sommessamente nell'osservare l'evidente contrasto che caratterizzava la piccola divinità, l'essere che aveva reciso ogni sua fune di salvezza, colei che lo aveva privato dell'unico scopo che si era prefissato, per dare un senso alla sua esistenza.

«Ah, ancora tu» disse, sedendosi su quel regale lettino dove era stato disteso, evidentemente lo aveva curato lì. Lasciò le gambe a penzoloni, guardando la divinità dritta negli occhi, senza il minimo senso di rispetto, inferiorità, sottomissione o qualsivoglia altro sentimento che qualsiasi altro essere umano avrebbe provato nei suoi confronti, «Questo è il tuo tempio suppongo. Perché mi hai portato qui?»

«Ho guarito le tue ferite ed estratto le giunture che il Dottore ti aveva impiantato per l'esperimento. Anche se appartieni ai Fatui, al momento sei sotto la custodia dell'Archon di Dendro» mormorò Nahida, la voce zuccherata come caramello, calma e docile, non eccessivamente infantile. Una rosa dalle mille punte indubbiamente, nascoste dalla corona appariscente.

«Misericordiosa e magnanima come ti descrive il tuo popolo, perfino nei confronti dei tuoi nemici... non sono affatto sorpreso».

«La violenza non è la scelta giusta, ancora meno la vendetta. Nonostante tutto il male che il Dottore, te e i Grandi Saggi avete portato, non intendo usare la forza per vendicarmi dei danni che avete arrecato a Sumeru, convinti che la creazione di un falso Dio potesse essere una buona idea».

Scaramouche non disse nulla. Un chiodo fisso gli affondava nel petto ad intervalli regolari, non riusciva ad ignorare quella fastidiosa sensazione. Non riusciva neanche a provare pena per sé stesso di fronte a quella sconfitta. Non era triste, né arrabbiato, né frustrato. Abituato a quell'amarezza, a quel mare incolore dall'acqua torbida, aveva imparato a lasciarsi trasportare, a lasciarsi portare alla deriva; dove non lo sapeva, non aveva più importanza. Se era quello ciò che la vita aveva in serbo per lui, lo avrebbe accettato senza batter ciglio. Curioso come - ancora una volta - si era trovato a stretto contatto con una divinità; tuttavia, al contrario della Shogun, sua Eccellenza Minore Kusanali sembrava intenzionata a tenerlo strettamente sott'occhio, e soprattutto sotto controllo.

«Allora? Cosa hai intenzione di farne con me?» chiese, il tono piatto, mellifluo.

«A essere sincera non mi piace collaborare con il nemico, ma la tua presenza qui è un'occasione rara» rispose Nahida, incrociando le piccole braccia; la sua coda bianca ondeggiò lievemente, «Vorrei richiedere la tua collaborazione».

«E perché dovrei aiutarti?» replicò il burattino, alzandosi in piedi; seppur nel corpo di un ragazzino, possedeva oltre 500 anni, «Forse non lo sai, ma non mi importa molto della mia vita. Mi spiego meglio: non ho interesse nell'aiutarti, ma nemmeno nel guardare le spalle ai Fatui; non sono schierato da nessuna delle due parti. Non credo tu abbia opzioni per convincermi, ma, ti prego, mostrami pure quello che sai fare...».

A quel tono altezzoso, chiaramente una provocazione, la piccola divinità mantenne la più totale calma e indifferenza. Osservò con attenzione gli occhi del suo interlocutore, blu e scuri come le profondità del mare, ma non una di quelle ricche di coralli, di pesci colorati e rocce dalle forme suggestive, bensì uno di quelli desolati, pieni solo di sabbia, silenziosi, e bui.

«Non ho intenzione di convincerti, so che probabilmente non riuscirei a farlo. La mia è una semplice proposta. Puoi accettarla o rifiutarla, la scelta è solo tua» mormorò pacata Nahida, sbattendo le ciglia, «Tuttavia, con le poche energie che ti sono rimaste, dubito che tu abbia altre scelte a disposizione».

C'era qualcosa in quegli occhi che lo intimoriva, anche se di poco; Scaramouche non riusciva a capire. Sembrava quasi fossero in grado di leggere la mente, e se c'era una cosa che proprio lo infastidiva, era quando le sue carte venivano scoperte, facendolo sentire vulnerabile. Chiuse le palpebre e sospirò, vistosamente scocciato. Nahida, per quanto poco tollerasse ammetterlo, aveva ragione: non aveva opzioni. In realtà non aveva uno straccio di piano e non lo avrebbe mai avuto, l'unica cosa degna del suo interesse era stata la Gnosi, oramai un sogno precluso e lontano. Ancora riusciva a sentirne la forte presenza, l'aura densa e copiosa che si ramificava dentro di lui, l'energia residua che gli provocava la pelle d'oca. Tutto quel potere... perso in un attimo.
Forse rimanere al fianco di quella minuscola divinità non sarebbe stato poi così male, in fondo era l'unico modo interessante di passare il tempo.

«Va bene, ti aiuterò».

Chi semina vento Raccoglie tempestaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora