In quel momento, a scambiarci uno sguardo, fummo io e Michael. Eravamo diversi fino alle radici dei nostri caratteri, e lo capimmo da quell'occhiata eloquente. Lui, competitivo e bramoso di ricchezza, sapeva che di quella conversazione non importava nulla a me, che avevo altre preoccupazioni per la testa.

«Mi ha detto, inoltre, di voler mettere alla prova sua figlia, futura erede dell'azienda» riprese la parola. «Quindi ho pensato di assegnare l'incarico a uno di voi». Potei immaginare gli occhi di mio fratello accendersi di speranza, mentre contemplava la possibilità di prendersi l'ennesimo elogio di papà. Eppure, quel brillio si spense quando l'uomo continuò: «Isaac, domani un jet privato ti porterà a Nizza. Da lì ci penseranno gli Aubert, a scortarti a Monaco».

E detonò il panico.

Udii ogni rumore che mi esplose intorno, ma i suoni mi giunsero ovattati, come se i timpani fossero stati imprigionati da una morsa d'ansia. Michael sussultò sulla sua sedia, protendendosi in avanti, e strinse i pugni adagiati sulle cosce. La calma non era la sua miglior virtù: tentò di mantenerla, ma sapevo che in lui ribolliva la rabbia e l'invidia. Io, invece, rimasi immobile.

«Non mi sembra la scelta migliore che potessi fare» commentò, indirizzato a mio padre. La voce era graffiata d'ira. «Sappiamo tutti e tre che Isaac non ha la stoffa per queste cose. Lavora per te solo perché sei nostro padre».

«Michael» tentai di fermarlo.

«No, Isaac, no!» esclamò, inalberato. Con un altro balzo sulla sedia resistente, si voltò verso di me. «È inutile che ti pieghi al suo volere per soddisfarlo! Non hai mai dimostrato interesse per tutto questo!» mi accusò e, spalancando le braccia, si riferì alla grandezza del colosso aziendale in cui eravamo coinvolti. «Mai» rimarcò, smettendo di urlare.

Avrei voluto dirgli che era vero, che non me ne era mai fregato niente di quel mondo. Al contempo, però, ero consapevole che mio padre non fosse il tipo da favori non ricambiati. A ogni compito ben eseguito, infatti, corrispondeva una somma di denaro. E a me, quelle sterline, servivano per faccende ben più importanti dei capricci futili di Michael.

Rimasi in silenzio con il capo chino, contemplando i tatuaggi che fuoriuscivano dalla giacca nera e mi ricoprivano i dorsi delle mani. Alcune risposte plausibili mi girovagavano per la testa, ma quando raggiunsero la punta della lingua fu troppo tardi, perché mio padre ricominciò a parlare.

«Calmati, Mike». Mike. Un soprannome affettuoso per il figlio prediletto, ma in cui non riponeva fiducia alcuna. «Non ho scelto Isaac per delle preferenze personali, ma per il carattere» ci spiegò e io, incuriosito, risollevai gli occhi su di lui. Fu allora che si accarezzò la barba pungente, per poi riportare le mani sul ripiano della scrivania. «È paziente e carismatico. Se vuole, con la sua indole da benefattore può convincere la principessina a firmare quei contratti in pochissimo tempo». Con una sola frase si beffeggiò di me e della ragazza monegasca, benché fosse una sconosciuta.

Deglutii un groppo che mi si formò in gola. Mio padre non aveva mai apprezzato le mie donazioni continue a enti benefici – in anonimo, per giunta – e soleva canzonarmi per quella scelta. Per lui, erano una manciata di soldi buttati via, una serie di mazzette di banconote gettate alle fiamme deboli dei bisognosi.

Per me, però, era l'unica maniera di sentirmi utile in quel mondo tanto meschino, sbilanciato ed egoista. Il divario tra ricchezza e povertà era troppo ampio per non essere notato da un occhio attento e conscio.

«'Fanculo» bofonchiò mio fratello, adirato. Con un buffetto, allontanò un foglio di carta che sostava dinanzi a lui.

Io non potei far altro che arrendermi. Scoccai un'occhiata alla boiserie intarsiata che copriva parte della parete, conferendo una maggior eleganza a quell'ufficio già di per sé lussuoso, per poi tornare a concentrarmi sulla figura autoritaria e sulla voce perentoria di mio padre.

Au-DelàWhere stories live. Discover now