L'empatia di Kurt Cobain

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Immersi il pennello nella tavolozza, lo passai in un verso e nell'altro, così da far aderire sulle setole dure la pittura compatta e un po' grumosa. Diedi una prima pennellata, di una rosa tenue e sottile, così fine che quasi sembrava venir assorbito dal tessuto senza accumulare spessore. Guardai i pigmenti mescolarsi, avrei voluto scinderli e vedere ogni sfumatura pura, nella sua interezza, ma quello non sarebbe stato il vero colore: esso non è semplicemente il riflesso della luce percepito dai nostri occhi, ma è il grasso oleoso della pittura, le impronte opache sui pennelli, le pennellate delicate che si alternano a quelle violente, che si intersecano, si sovrappongono, in un gioco di potere, sogni e desideri. Immaginai di iniettarmi quello stesso colore nelle vene, sarebbe stata come droga, mi avrebbe dilatato le pupille, fatto tremare e fremere, e chissà se il suo effetto lo avrebbe provocato la sua componente chimica o l'atto in sé. Mi chiesi se si sarebbe mescolato al sangue o aggregato in globuli di pittura, in tal caso quella materia che fino a quel momento mi aveva tenuto in vita mi avrebbe ucciso. Infondo tutto ciò che ci fa vivere ci uccide: il cibo, il cuore, l'aria. Ad ogni pennellata si diradava la foschia di pensieri che mi annebbiava la mente: sulla tela trasferivo e proiettavo ogni errore, incomprensione e sfumatura del mio essere. Desideravo rendere quella pittura ancora più "mia", possederla con ogni mezzo e in ogni sua forma, conoscerla in ogni sua dimensione e peculiarità, con ogni mio senso, anche con il gusto, avrei voluto mangiarla, cibarmene. Persino percepirla con un sesto senso, sfiorarne la silhouette sfuggente, come una ballerina dietro il sipario, intravederla in una dimensione della realtà a noi sconosciuta. Riaffondai il pennello nella tavolozza e pensai a Camille, mi chiesi che cosa ci avrebbe visto lei nel quadro che stavo dipingendo. Una delle caratteristiche che più definivano e contrassegnavano il suo carattere, una dote un po' esasperata ma imprescindibile, era il suo bisogno quasi ossessivo di scavare in ogni cosa e trovare un significato profondo ovunque. Denigrava tutto ciò che è superficiale e banale: "La superficialità è per gli immortali"- diceva, non si può vivere senza andare a fondo delle cose e trascurando la morte, come una consapevolezza che incombe, come un fastidioso ronzio di sottofondo. La sua ricerca ostinata e sfrenata era quasi patologica, fine solo a sé stessa e alla sensazione di completezza che ne conseguiva, la stessa sensazione che la rendeva una dipendenza: la percezione di un'immagine di totalità, dove ogni pezzo torna al suo posto e, colmando ogni vuoto, solletica e coccola il cuore, permette di respirare un'aria più pulita e pura, l'atmosfera di una consapevolezza e di una verità. Camille aveva una concezione strana del mondo, quasi distorta, vedeva l'universo solo attraverso quel cannocchiale di empatia, la usava come parametro per misurare l'importanza e la bellezza di ogni cosa, la cercava in ogni angolo, come droga. Era solita usarla anche come una sorta di arma, infatti aveva la capacità di penetrare chiunque con quel suo sguardo e di sentirne ogni emozione, i suoi occhi entravano a far parte dell'altro, senza parole la sua voce gli serpeggiava dentro e si poggiava sulle sue labbra e non saprei dire se a parlare sarebbe stata lei o la sua vittima, se c'era ancora distinzione tra lei e l'altro: Camille leggeva dentro tutto e tutti, non esistevano scudi né barriere.

Abbozzai ancora un paio di pennellate prima di riadagiare il pennello sulla tavolozza, decisi che lo avrei pulito più tardi. Mi strofinai le mani su un panno, grattando via il grosso della pittura, giusto per non sporcare nulla. Mi avvicinai al giradischi, alzai la puntina interrompendo la magia del Notturno di Chopin che stavo tentando di rappresentare e rimossi il disco con cura. Si dice che il vinile sia il miglior modo di ascoltare musica, si tratta del materiale che meglio si adatta all'incisione, il suo suono è il più morbido e delicato: la quinta essenza dell'ascolto, la musica perfetta per essere dipinta. Afferrai la giacca di pelle dall'attaccapanni, raccattai qualche foglio di carta e un paio di matite, li gettai in una borsa insieme alle chiavi e chiusi velocemente la porta dell'appartamento. Avevo promesso a mio fratello Achille che sarei andata ad aspettarlo fuori dall'università dove lavorava, voleva vedermi a tutti costi per sapere l'idea su cui si sarebbero basati i miei nuovi progetti. Una volta uscita dal palazzo imboccai la via principale, approfittai del breve tragitto per ammirare la terra rinascere con il sbocciare della primavera, per molto tempo, infatti, ero rimasta imprigionata nelle mura di casa mia, specchi delle prigioni nella mia testa, schiava del mio umore. Quei raggi che ora ammiravo, prima mi passavano attraverso senza illuminarmi, senza che me ne accorgessi. Ora, invece, tutto brillava, stava andando tutto per il meglio e io sembravo credere che fosse sempre stato così, ma un ronzio angosciante, un solletico all'orecchio, un richiamo soffocato nel petto mi rammentava di non affezionarmi a quelle sensazioni perché non sarebbero durate per sempre. Gli alberi erano colmi di gemme e spruzzati di rosa, tanti ragazzi si divertivano in bici, mentre io mi perdevo nei raggi delle loro ruote, desideravo sparire nel loro movimento sfocato, diventare quello spazio insignificante riempito solo dall'illusione di un movimento. Arrivai all'angolo dell'università e decisi di aspettare Achille in un prato lì vicino. Mi gettai tra l'erba alta e le margherite. La luce ne faceva risaltare la corolla dorata, i petali morbidi e lo stelo fine. Ondeggiavano al vento come in una danza silenziosa, ne colsi una e nuovamente mi persi tra i suoi stami, incasellati, tutti uguali tra di loro e desiderai essere uno di quei puntini gialli, immobili, minuscoli, ininfluenti, senza responsabilità né pesi. Strappai un'altra margherita e la intrecciai con la prima e ripetei altre volte il movimento, nel mentre guardavo il cielo e pensavo a come sarebbe stata la margherita perfetta, l'idea di margherita, era Platone a scrivere di queste cose, me lo aveva spiegato Achille, anche se non ricordavo più di tanto. Ad ogni modo, anche noi, come le margherite, siamo la copia imperfetta di qualcosa di perfetto, ma chissà se soffriamo per l'essere imperfetti o per l'essere copie. Quel paesaggio mi ispirava non solo scene da rappresentare, ma anche riflessioni profonde, quelle che Camille avrebbe amato alla follia. Se avessi avuto più familiarità con la musica e le parole avrei scritto una canzone su quei fiori, Camille amava scrivere, specialmente canzoni, ma ancora di più amava riuscire a capire i poeti e i cantanti. Una delle figure che più la affascinava era Kurt Cobain, diceva di riuscire a capirlo, non ne avrebbe mai avuto la certezza ma se lo sentiva e in cuor suo sapeva di non sbagliarsi, capiva la sua infelicità, condivideva i suoi ideali e la sua empatia, ma specialmente quel suo fuoco stanco, quella fiamma flebile che pochi colgono. Quei giunchi di domande e pensieri, nella sua testa, nel suo lago di solitudine. Quella sofferenza intrinseca, ristagnante, Kurt Cobain era quello per lei : l'essenza del dolore. Sosteneva che nella sua voce macchiata, rauca, disperata, stanca, terribilmente stanca e nel suo sguardo perso si leggesse tutto, il suo smarrimento, la fatica di trovare il suo posto nel mondo, la delusione del non essere compresi e dell'essere usati come strumenti per un fine che non è il proprio. Il suo genio era proprio lì, nei suoi testi e nei suoi occhi, soprattutto nei suoi occhi, blu come la notte di Van Gogh, persi in un'orizzonte così lontano che a noi non può essere che sconosciuto: persi nella poesia che aveva dentro. 

Il potere di Camille di scovare tutte quelle cose mi spaventava, era un potenziale inquantificabile ma nella nostra società a chi ha una mente come la sua non è mai stato permesso di usarla ed esprimerla a pieno, e questo ha sempre portato a un alone, una nuvola di tristezza, un dolore che ci infetta curandoci da ogni altra emozione, imponendosi come l'unica cosa che ci è rimasta da sentire, da provare, da essere. Un velo di malinconia che nasconde un incendio di sofferenza e nessuno è mai sopravvissuto alle fiamme di un'empatia così pura come quella di Camille e di Kurt Cobain.















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⏰ Huling update: Jun 07, 2023 ⏰

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