La storia inesistente

43 6 2
                                    

Bizzarro come ci siam ritrovati qui, senza capo né coda, in questa situazione a dir poco scomoda. Una situazione moribonda, assolutamente deplorevole, imbarazzante quando orgogliosa di sé. L'ho scoperto sapete, le conversazioni possono essere estremamente orgogliose, se le si tratta come di dovere, come si dovrebbe trattare una conversazione. Sono come gli esseri umani, le si tratti bene o male, con riguardo o con rabbia, sbattendo la loro testa contro il muro, avranno dignità, nascosta e inculcata sottilmente con un piccolo ago. Concetto a dir poco stravagante, pur definibile normale, da sempre nella storia degli uomini.
Ma lasciam da parte le conversazioni e il loro orgoglio, e passiamo invece, cambiamo scena, scriviamo una pagina ancora per il nostro protagonista. Sedeva, composto su una piccola sedia vicino ad un piccolo tavolo in un piccolo salotto, in una piccola casa di un piccolo paese di un piccolo mondo. Mi vorrete scusare, non ho resistito. Immagino, nella mia quotidianità, le sedie presenti nelle trattorie o in contesti rurali, spesso, quasi mai stabili e ricoperte di sottili fili di paglia intrecciati, come fibre muscolari. Capita che, quando si siede per troppo tempo le gambe iniziano a dolere, formicolano leggermente, punzecchiano la nostra attenzione di conversatore, si muovono, cercando sollievo, ma l'unica soluzione vera e propria è alzarsi, far due passi e ritornare d'un pezzo. Io le ricordo così, nei miei giovani ricordi. Sedeva quindi su questa sedia, vicino ad un tavolo di legno, probabilmente castagno, graffiato, pieno di segni, che ballava da una delle gambe a sinistra. Non faceva molto caso a questi dettagli, in effetti leggermente superflui. Era concentrato sulla sua discussione, ticchettava nervosamente con il dito della mano destra sulla superficie piatta, e l'unghia in particolar modo lunga produceva un suono lucido, pulito. La mano sinistra invece teneva, egoisticamente, un piccolo bicchierino intarsiato, e a bagliori si illuminava come di divina luce un liquore color oro, puro e prezioso, amaro incredibilmente al sapore. Apprezzava i sapori di quel genere, e mai se n'era privato. Il bicchierino rischiava di cadere, a forza di saltare animatamente sul ginocchio osseo del nostro protagonista, che nel frattempo alzava e abbassava il piede a ritmo di qualche canto che una volta ricordava, mentre ora era solo un mocassino danzante, ballerino, senza più balli e danze da interpretare, perché concentrato su altro. Salendo sul suo profilo, erano intravisibili i pantaloni estremamente eleganti, anche se consumati come se avesse corso nel fango per giorni infiniti. Così il completo, il panciotto, la camicia sgualcita e le scarpe incrostate di polvere e neve fresca. Il suo viso era invece corrucciato, gli occhi erano attenti a fissare il vuoto davanti a lui, nella stanzetta in cui viveva a tempo indeterminato. Le rughe sporche del viso cambiavano espressione alla velocità della luce, come se stesse avendo piccoli spasmi, quando stava solo ragionando. Pensava. Sembrava stesse attentamente esaminando un quadro proprio davanti al suo sguardo languido, liquido, tenero, serio e preciso. Davvero notevole, ritraeva il Viandante sul mare di nebbia, ovviamente una copia, una riproduzione che aveva deciso di realizzare quando terribilmente amante di una donna a cui mai dichiarò il suo amore. A lei, il romanticismo sconfinferava in modo importante, e banalmente quello era il quadro di cui più animatamente preferiva parlare. Nemmeno troppo bizzarro, ma molte delle donne che il nostro protagonista incontrò nella sua vita non sapevano nemmeno cosa fosse il romanticismo. Un po' si rammaricava di aver speso così tanto tempo per personaggi di quel deludente tipo.
Il quadro però era sempre lì, e mentre lo guardava, pronunciava parole confuse, bisbigliava, affermava qualcosa che non sapeva, quindi si contraddiceva e poi si dava ragione una volta ancora. Farfugliava in maniera ossessiva, senza agitarsi, senza perdere il controllo, zitto zitto, quieto quieto. Poi si svegliava, le immagini tornavano a comparirgli in mente in maniera lucida, e sorrideva come un piccolo e povero ebete, guardando il Viandante sul mare di nebbia. Si rabbuiava improvvisamente di nuovo, e riprendeva a farfugliare. Tutto era nato da un solo, piccolo sguardo a quel quadro: si era seduto, comodo, su una sedia da trattoria, aveva preso un liquore, e mai come in quel momento avrebbe voluto piangere. Molte persone negano questo, lo considerano eccessivo, ma le motivazioni del pianto possono essere anche completamente superflue. Lo credo fermamente, signori. Piangere per un quadro fatto ad un amante che nemmeno è stato l'amore della nostra vita è assolutamente normale. Crea ricordi, ci ha creato soddisfazione oppure no, ci ha resi uomini migliori oppure no, abbiamo ricevuto complimenti, porta dentro di sé un significato emotivo ragguardevole, pesante, di quei pesi al cuore per i quali vorresti morire di colpo solo per non sentirli più. Questo, tutto questo portava il Viandante sul mare di nebbia, lo portava e lo custodiva con cupidigia e con amore, fermando quell'attimo di vita, rendendola morente, morta una volta per tutte. Chiudendo dentro di sé un amore vivo, che gridava aiuto, piangeva disperatamente, arrancando e strisciando senza orgoglio e dignità sulle rocce, sulle cime verdognole degli alberi e sulle nuvole grigiastre. Tutto ciò, con il passare del tempo, si era dissolto come nebbia nel cuore del nostro protagonista, dissipatosi fino alle più profonde radici, ed egli iniziava a non pensarci, pur guardando di sfuggita il quadro con frequenza, essendo nel salotto
Ma non aveva pianto. Per quanto. Solo quella volta aveva preso la decisione di riguardare la tela con attenzione, fissarla, analizzarla, amarla di nuovo, forse. E da lì, ogni restio briciolo di terreno fertile, di creazione, di amore, con timidezza si era fatto avanti, insinuandosi maligno e meraviglioso nei meandri pulsanti e pesanti del cuore suo. Si era seduto lì, piantando e delineando la sua piccola proprietà, in un angolino, raggomitolato. Lo dipingerò, signori, come un piccolo uomo, un ometto per nulla cortese, scuro scuro, vuoti gli occhi e triste la boccuccia. Un omino con le gambe lunghe lunghe e le unghie più graffianti delle pare scortesi d'un genitore. Quindi questo omino, pianificava la creazione di un impero, ma rimaneva nel suo angolino, cercando di alzarsi, aggrappandosi al cuore con le sue unghiacce. Lo graffiava, lo mutilava lentamente, facendo sgorgar sangue puro e giovane. E il nostro protagonista avrebbe voluto strapparsi con la man nuda il cuore dal petto, e morire senza rimorso né dolore. Così però, signori miei, non fece. L'unico svago concessogli, era il pianto. Le lacrime. La sofferenza. Il dolore. L'ansia. Il panico. La rassegnazione. L'angoscia. Purtroppo però, pur volendolo, non aveva pianto. Avrebbe potuto. Ma qualcosa a lui incognito, bloccava il respiro, senza lasciargli via d'uscita. Tutto ciò mentre nello sguardo rielaborava, tesseva assiduamente la pittura, nel tentativo di assimilarla in maniera completa.
«Quadro» mormorò incerto. Erano passati giorni interi, signori, durante i quali il nostro protagonista non aveva alzato le labbra nemmeno per mezza parolina, forse solamente per l'acquisto di qualche bene per la casa, o di un pezzo di pane dal fornaio. La voce rauca riprendeva faticosamente il suo seggiol d'onore, insieme ai non pochi dolori alla gola del nostro protagonista. La secchezza pungeva come aghi, ma non interessava, non badava egli a queste superficialità. «Quadro quadro» ripeté ossessivamente, come nella convinzione di un alcunché di cui temeva aspetti più oscuri che ancor non conosceva. Triste, l'inconsapevolezza, nevvero? Peggior ancor però, non trovate l'ignoranza? Ignoranza in questo campo, s'intende, pur essendo orrenda anche l'ignoranza vera e propria. Il nostro protagonista non aveva idea di cosa lo stesse spingendo a ripetere la parola quadro. Lo ripeteva e la storia qui si conclude, non lo sapeva affatto. Bizzarro, non trovate? Chi di noi non ha mai ripetuto parole senza un senso preciso, smettendo solo dopo la perdita di significato del termine? Se vi è qualcosa di delizioso e piacevole quanto confusionale e tremendo al mondo, è proprio la parola composta di lettere, non più di contesti o di definizioni. Lettere. E lui quello faceva, ritornava sempre sulla stessa parolina, senza saper perché, ondeggiando il capo come mar prima di una tempesta. Ricordate la leggera corrente, le ondicciole di forza immensa prima di un enorme vento e di un violento scroscio d'acqua? E destra, sinistra, avanti, indietro, e intorno, intorno, intorno...
Leggermente, le tempie gli dolevano. Pulsavano, come se stesse pensando a chissà quali filosofie! E invece, era in contemplazione del quadro.
Un altro elemento del dolore, era il freddo. Il bicchierino ormai aveva esaurito il suo calore, e con due mani ghiacciate sulle spalle scheletriche del nostro protagonista scendeva triste il gelo. Si alzò quindi meccanicamente, afferrò la bottiglia impolverata, mormorando tra i denti qualcosa, ed ebbe una volta ancora un sorso di soddisfazione. Si sedette nella medesima posizione di pochi secondi prima, la medesima signori davvero. Tap tap con il piede ossuto, farfugliando. Arrivò un attimo di estremo silenzio. Quiete.
Ci fu però un momento improvviso e spinse via il tavolo, alzandosi di soprassalto. Sentì un acuto dolore alle ginocchia, a tali movimenti non era ormai più abituato. Non che gli importasse, in fondo. Aprì le braccia, come ad abbracciare la nebbia del viandante, stringerla a sé, e rovesciò parte dell'alcolico che portava per le mani.
«Ah mio dolce quadro, te dolce e me misero!» gridò, volgendo gli occhi stanchi alla pittura «me misero che d'amor so così poco, me inferiore che me ne interesso e sempre così poco, so! Ahimè la triste vita di un povero quadro, triste, triste! Anzi, che mi vien da dire, la triste vita di un uomo! Io sono triste! E io sempre così rimarrò...io sono triste. Ma da dove proviene la mia tristezza, mi vien da domandare, perché son triste?» era quasi giunto al pianto, gli occhi piegavano il viso disperatamente, al pari di una bambola con fili a braccia e gambe. Inghiottiva la saliva, respirava pesantemente.
«Perché l'amore è brutta storia!» riprese «ma ecco perché son triste! È colpa dell'amore! Ah se potessi farne a meno, se potessi non provarne! Dolore, oh quanto dolore mi risparmierei, non amando! Quante lacrime non verserei! Ma che amore è, effettivamente, pensandoci, senza dolore, senza lacrime? Decisamente un bell'amore! Piace anche a te, uomo, un amore senza lacrime? A me piacerebbe, accidenti! Ma esiste quest'amore? Oh che ansia, che confusione! Esiste sì, esiste eccome, oh se esiste! È un amore sano, il mio amore...l'amore che vorrei!»
«ma signori, signori non giudicate, è così sbagliato voler qualcosa di sano? Altro che panico nelle viscere! Altro che pensieri nefasti, che presagi maligni! Altro che principi burrascosi, menzogne! Oh amore mio, quadro mio, viandante mio, un amore fatto di nuvole leggere al capo, un rispetto perenne e reciproco, altro che gioventù! Amore giovanile, che storie, che storie! Ma un amore maturo, amor vissuto pur nuovo! I fiori, noi porteremo i fiori viandante mio, rose bianche, le baceremo i piedi dall'onore e le mani per affetto e i capelli per contentezza! Le labbra senza passione, la coglierem come si usa con far dolce, lentamente, senza tagli netti di forbici! Gentiluomini, i veri! Adulare, adulare la propria donna ma...ma! Ma io non voglio esser l'unico per Dio, io voglio essere amato, pur io voglio essere amato! Esiste quindi un amore così reciproco, così puro, religioso e spirituale?»
La domanda lo coglieva impreparato, rimase a fissar le proprie mani qualche secondo, con occhi infiammati, accesi da torce d'amore, e spiegazzati in avanti, signori, le labbra serrate, increspate, vispe nel loro silenzio. Spalancò gli occhi, e pianse. Vide il mondo in illusione per un attimino, tutto perse di foco, tutto divenne ombra mentre le lacrime di dolci pensieri e orgoglioso amore rigavano gli zigomi puntellati dalla banalità della vita sua. Sospirò violentemente di sollievo, aprendo gli arti ancor più dell'attimo precedente, fece entrare ogni saggezza nel suo cuore, si fece conficcare la potente freccia della realtà nel petto, sanguinando a più non posso! Ve lo assicuro, signori, sangue potente e veloce, viscido, sgorgava in abbondanza dagli occhi suoi, e dai peli e dal cuore, e dalle gambe e dai piedi! Il nostro protagonista, realizzò.
«OH ma certo che esiste, certo che esiste! Me fortunato in questo momento! Dio, caro e saggio Dio, amante degli uomini e del mondo più di tutto, grazie! Grazie! Certo che esiste, certo! E magari non ne sarò convinto nelle prossime ore, addirittura tra un giorno, non ne sarò mai convinto...ma ora lo so! Ora so che esiste quella lieve speranza, nel mondo nostro! So che c'è speranza! E l'amore è quella speranza! L'amore per ogni cosa, per ogni pianta e ogni animale, viandante mio, ogni briciolo infimo della terra va amato, va adorato, idolatrato! E così, così bisogna far con la propria signora, lei bisogna adorare e da lei bisogna farsi adorare, senza alcun cambio di personalità, senza alcun cambio di alcunché! Alcunché! Io, io devo amare e farmi amare nel profondo, devo sentire le mie viscere riposare, esser seppellite nel cimitero della quiete, ricoperte di rose bianche. Silenzio, silenzio! Debbo sentir silenzio! Perché amore questo è, amore vero è la tranquillità, Signor mio, la pace eterna! La quiete dell'anima, così in pena per i dolori della vita! E di dolor si soffre, non affermo di non soffrire per amore! Attenzione! Ah, io cerco solo di capire pienamente la donna mia, capire chi sia, amare il suo essere e la sua migliore e peggior forma, nobilmente cercherò di onorarla. Ma insieme ci onoreremo, perché anche lei ciò farà, e insieme vivremo nella sofferenza dell'amore, insieme vivremo con estrema bontà d'animo e cattiveria e solitudine. Entrambi costruiremo insieme, insieme! Perché che può un operaio solo, in poco tempo? Cosa possono invece due lesti lavoratori? Possono molto di più, pur con lo stesso tempo del singolo, creare in armonia! E così, così non dico che la solitudine è brutta storia, si può ben essere compagni di sé stessi! Bisogna apprezzare la compagnia di sé, prima! E la donna che cerco ciò deve fare! Non sostituire me stesso! Bensì essere me stesso, mentre io sarò lei, ed io sarò pur io e lei sarà pur lei ma insieme saremo quel che molti non saranno mai! Io mi leverò quell'orrendo macigno dalla testa, qui non manca proprio niente! Io manco, manco proprio io! Manca anche la donna mia! Sembra un manuale del medioevo, par proprio! Questo amore così antiquato, così antico! Ma signori, signori non giudicate, giudichereste? Un amore antico, chiuso? Ma io, io per lei laverei pur il più sudicio pavimento con la più spennata scopa sol per felicità di lei! Io correrei monti e valli e colline per volontà di lei, e a lei lascerei indipendenza, come lei la lascerebbe a me! E ci sarebbe rispetto! Or ora i mariti alzan addirittura le braccia sulle proprie donne, per scontentezza! E vili son coloro, uomini che non sono uomini! Io alla mia donna nemmeno un'unghia torcerei! Mah il mondo di oggi, oh, Signor mio, dove siamo stati?»
Ondeggiava illuminato nella stanza, pareva perso nell'immensità del nulla, le lacrime nascevano e morivano davanti ai suoi occhi con impressionante velocità, ma nessuna di loro interrompeva di un secondo il tono di voce convinto del nostro protagonista. Era estremamente convinto, ansimava, sudato e appiccicoso, sentiva la testa girare ma non crollava, non sarebbe crollato! In piedi barcollante si reggeva, viveva ancora per raccontare la sua ad un povero viandante voltato di spalle, perché mai nessuno l'aveva ascoltato. Ma or ora ascoltava se stesso, parlava tra sé e sé spinto da irrefrenabile passion di vivere.
«Credo, che d'amor si debba vivere! Ogni amore, ognuno! Donne, uomini, piante o animali o mondo intero! Ah, a me che importa? Io voglio l'amore! L'amore, per il mio Beato Signore! E perché io non ho amore, perché io sono un uomo triste? Perché io sono qui, parlo con te, viandante mio, ahimè, rispondi, perché sono così solo?» la rabbia lentamente si faceva strada nel cuore del nostro protagonista, l'ometto creava il suo impero e riusciva ad alzarsi, con fatica. Le tempie s'ingrossarono incredibilmente, e prese a gridare, con estrema violenza e deludente ira. Piangeva, strillava, si dibatteva con braccia aperte alla nebbia e di colpo gettò il bicchiere sul tavolo, che colpiva con il ginocchio. Barcollò, quasi cadde, ma con una mano si resse al legno e si sentì debole.
«Perché son così solo?» mormorò, senza voce «perché io una donna non l'ho? Ahimè la mia triste vita, la mia debolezza, io debole e la vita incapace di tenermi in piedi! Incapace lei, e pure io! Ah che odio, che odio! Di uomini così al mondo ne dovrebbero esister meno! Uomini meno miseri di me, meno deboli, ma io ho il diritto di vivere come gli altri! Io ho il diritto di uscire di casa, e così farò! Mah, adesso qui devo rimaner, serrato come un cane! Mi sentiranno, gli uomini!». Prese le sue ultime forze, le raccolse velocemente e scappò dalla porta di casa poco lontana con passo veloce e barcollante, scese le scale ridendo e piangendo e si buttò sulle strade della sua Parigi. Voltava compulsivamente gli occhioni, di qua e di là signori, e ad ogni donna dal lungo vestito porgeva un sorriso, un vistoso sorriso. Si inchinava - ormai le sue ultime forze eran impiegate nel vano tentativo di fuggir da la di lui tristezza - e a loro donava un lungo sguardo e un lungo amore di un attimo, un secondo fino al passaggio delle gonne infiocchettate e colme di fredda neutralità. Loro però, inorridite, scappavano via seguite dalle loro dame ed amiche e lui solo rimaneva, come sempre era stato.
Successe, nel tentativo di salutarne una di normal viso e normal sguardo, ch'egli si perse negli occhi suoi, ed inciampò distrattamente sul marciapiede, ruzzolando con miseria fin dentro la Senna, crollando nelle acque gelide. Frettoloso, non trovate? Successe che con questo frettoloso finale, il nostro uomo si perse negli occhi scuri e torbidi della donna che sempre aveva amato ma mai per la vita, la donna della nebbia e colei per cui non sarebbe mai morto senza nobiltà. In verità ella era la signora del quadro, quella per cui non vale la pena versar lacrime né val la pena sposare, ma per lei avrebbe corso mari e monti e valli e colline, avrebbe pianto fiumi e l'avrebbe riempita di onori e rose bianche. E per lei, per colei che non doveva morire, morì con incredibile nobiltà e vi fu invece imbarazzo negli occhi della donna, mentre tentava di chiamare un gendarme. Ella, non lo aveva affatto riconosciuto.
Per egli, non spenderemo parole, signori, basta dire quel che già detto, ma a lui porgete i vostri saluti quando amate, a lui porgete rose bianche. E a lui sorridete, per aver sol qualcuno che gli dona una scintilla della propria felicità, fortuna ch'egli non ebbe mai.

You've reached the end of published parts.

⏰ Last updated: Aug 07, 2022 ⏰

Add this story to your Library to get notified about new parts!

La storia inesistenteWhere stories live. Discover now