Era martedì e il suo appuntamento fisso al bar del college non poteva mica saltare e riusciva a percepire dentro di sè la solita ansia che l'attanagliava quando doveva vederla. Si godette il gelo che le scendeva sotto pelle e ignorò la sua macchina parcheggiata non avendo alcuna voglia di guidarla e volendo godersi per una volta l'asfalto bianco. Ad ogni passo che la conduceva sempre più vicina a quel maledetto bar, sentiva le orecchie fischiare e quasi le ginocchia cedere. Odiava il modo in cui l'avesse fatta diventare, sentiva la sua debolezza raffiorare e se c'era una cosa che Riley Stone odiava era proprio quella sensazione.

Quando arrivò davanti al bar, non entrò subito, ma rimase per qualche secondo fuori, sotto i fiocchi di neve, ad osservarla pulire il bancone e scherzare con una sua collega. Adorava il suo sorriso e la fossetta che si formava sulla sua guancia sinistra quando questo compariva.

"Alle volte la vittima tende ad inseguire il carnefice poichè quest'ultimo è stato capace di entrare al suo interno"

Le parole di Izzie, la sua psicologa, rimbombarono tra le pareti della zona ferita del suo cervello e provocarono per l'ennesima volta un macigno nel suo petto. Una smorfia di risentimento incorniciò il viso pallido di Riley. Quel martedì, a differenza degli altri, non avrebbe resisitito tanto a lungo davanti alla vista di lei che rideva. Proprio come aveva detto a sua madre: prevedeva una giornata di merda. La sua stanchezza non le permise di stare al passo con le lezioni, di fatti ne saltò un paio temendo che la testa le scoppiasse da un momento all'altro. E quando arrivò la pausa pranzo, desiderava solo che Julia e le sue domande sulla giornata di ieri sparissero improvvisamente.

"Amore, ti vedo stanca. Va tutto bene?" le chiese la sua ragazza.

Riley si sforzò di sorriderle, ma si ritrovò semplicemente ad annuire.

Aveva davanti a sè la stessa persona che quella notte era stata protagonista dei suoi sogni e temeva di fare la figura dell'idiota che la fissava troppo quando al suo fianco aveva Julia. Era lei che doveva guardare, era lei che doveva bramare, era lei che doveva desiderare. Non altre. Lei.

Riley si ritrovò a combattere con i sensi di colpa per quasi tutto il giorno, ma tentò di soffocarli con la musica. Quest'ultima, la maggior parte delle volte, si rivelava essere il miglior metodo di distrazione, ma non fu così. A quel punto provò a guardare un film, ma nemmeno quello servì ad un granché.

Era stanca di dover combattere contro qualcosa che nemmeno lei sapeva definire. Odiava non capire, odiava essere all'oscuro dei suoi sentimenti, odiava mentire a se stessa. Forse proprio quest'ultimo punto andava chiarito. Per quanto fosse possibile, lei lo stava facendo: stava mentendo a se stessa.

Sbuffò sonoramente e colpì il materasso del suo letto. Erano quei rari pomeriggi in cui non aveva alcun turno da svolgere. Avrebbe potuto chiamare qualcuno per stare in compagnia, ma Riley amava passare del tempo da sola. Andò verso lo scaffale in cui vi erano tutti i suoi libri e ne prese uno. Tra le mani si ritrovò "piccole donne" e sorrise ricordando quei momenti in cui leggeva delle scene con la madre. Avrebbe voluta chiamarla, ma era a lavoro.

Non appena aprì il libro e pescò una pagina qualsiasi, subito le parole la trascinarono nel mondo delle sorelle March. L'Alaska era lontana, il gelo scomparve, ma soprattutto non vi era nessuna ragazza di nome Avice. Non vi era alcun sorriso, non vi era un corpo da urlo, non vi era alcuna tentazione, non vi erano i sensi di colpa. Non c'era nulla della sua vita. Riley per un attimo si osservò esternamente. Si vide tenere tra le mani il libro, gli occhi che slittavano da una parola all'altra, i denti mordicchiare il labbro inferiore e un sorrisetto che spuntava di tanto in tanto.

Poco dopo il campanello destò tutto quanto e si ritrovò spinta nella realtà. Odiava quando capitava, ma col tempo si era abituata a ciò. Pensò che ogni lettore dovesse affrontare questo e si sentì meno sola. Quando aprì l'uscio, si ritrovò davanti quei ricci vaporosi che tanto avrebbe voluto dimenticare, quelle labbra che bramava screpolate dal freddo ed un naso piccolo e all'insù arrossato per la medesima causa.

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