Prologo

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Zoe

«Sai cosa? Lascia perdere, okay?»

«No, non lascio stare! Avevi detto che non era colpa nostra» continuò a insistere Sally, gesticolando mentre Budderball, il Golden Retriever di sei mesi, le girava intorno.

Sollevai le sopracciglia, facendole notare che quello che avevo detto fosse vero. «Infatti non è colpa nostra, ma tua.»

Sally spalancò la bocca, incredula. «Stai davvero dando la colpa a me per aver fatto scappare i vicini? Seriamente, Zoe?»

«Chi è che sente la musica costantemente a volume alto?»

«Magari è perché i gatti scappavano sempre a casa loro e si sono stancati di avere intorno palle di pelo!»

Una terza voce provò a inserirsi nella nostra conversazione. «Ragazze, in realtà...»

«Non ora, Bob!» sputammo fuori entrambe.

«Ce ne stiamo andando per un'offerta di lavoro, non è colpa di nessuno» riprese lui, mangiando le patatine che gli avevamo offerto quando lui e sua moglie erano venuti a salutarci.

Sally e io ci girammo contemporaneamente, aggrottando la fronte. «E quando pensavate di dircelo?»

Susan, la moglie, rispose dal divano dicendo: «Ci stiamo provando più o meno da quando abbiamo bussato un quarto d'ora fa.» Rise sotto i baffi. «Io mi stavo divertendo ad ascoltarvi, però.»

Sally fece la solita smorfia da "Te l'avevo detto che non era colpa mia" e si voltò verso la cucina, aprendo la bottiglietta d'acqua frizzante. Budderball la seguì scodinzolando, mentre Didi, la mia gatta, lo guardava con fare annoiato leccandosi le zampette dal divano accanto a Susan.

Ricordavo perfettamente quanto io e Sally avessimo discusso con il proprietario del negozio per riuscire a ottenere quel divano. Ci disse che non poteva vendercelo in quanto troppo giovani e non aveva la certezza che pagassimo tutto nel tempo prestabilito. Per dimostrargli che io e Sally facevamo sul serio, gli saldammo tutto con addirittura un po' di anticipo.

«Quindi tra quanto andate via?» chiese Sally, incrociando le braccia al petto, mentre poggiava il fianco sull'isola in cucina.

«Domani.» Susan si alzò dal divano tenendosi il pancione. «Comunque resteremo a New York, solo che per il lavoro e l'arrivo dell'angioletto» si toccò la pancia con fare protettivo, «è meglio se ci troviamo una casa più grande e vicino all'ufficio.»

Sally annuì e, capendo la situazione, andò ad abbracciare Susan stringendola forte. «Ci mancherete.»

Quando entrambi furono fuori, io e Sally iniziammo a riordinare la spesa che avevamo fatto due minuti prima che la neo coppia ci bussasse alla porta. Nel riporre la pasta sugli scaffali, mi tornò in mente quanto brutta e scomoda fosse la cucina prima che la ristrutturassimo. All'inizio tutti i mobili erano di un legno davvero orribile, con delle tonalità di giallo, poi avevamo preso le cose nuove con i nostri primi stipendi e tutto era diventato meraviglioso.

Non c'era più legno, ma mensole e bancone di un colore metallico sulle tonalità del grigio, bianco e nero; al centro della cucina c'era un'isola dove si trovavano due sgabelli di metallo con un cuscinetto arancione. La cucina e il salotto non erano divisi da pareti, perché era tutto un open space – forse era una delle cose più belle – e sapevo che Sally ne avesse sempre desiderato uno. Anche il salotto era sui toni del bianco con un divano a isola e una vetrata spettacolare che dava direttamente sulla strada.

Non vivevamo in un quartiere di ricchi, però ci trovavamo vicino alla nostra università, la New York University, un vantaggio enorme visto che passavamo la maggior parte delle nostre giornate lì. Inoltre, nella stessa piazza di Washington Square, dove si trovava il nostro ateneo, all'angolo con la Quarta Strada Ovest ogni giorno mi aspettava il diner nel quale lavoravo per timbrare il cartellino. Non era invece conveniente per Sally, che lavorava in una libreria più distante dall'università e che, nonostante fossimo a Manhattan, era in un quartiere abbastanza scollegato, tanto che nei primi tempi usava i taxi per raggiungerlo più rapidamente.

Ora erano tre anni che vivevamo a New York, e da qualche tempo eravamo riuscite a comprare una macchina così che lei potesse arrivare al lavoro in un solo quarto d'ora e io la potessi sfruttare saltuariamente per fare delle consegne a domicilio. L'auto era di seconda mano e aveva delle macchie di dubbia provenienza, ma faceva il suo dovere.

«Domani a che orari hai al lavoro?»

«Diciassette-venti» risposi sdraiandomi sull'isola del divano. «Ricordati che Didi e i cuccioli devono andare dal veterinario.»

Sarei voluta andare io a portare la mia gatta con i suoi piccoli dal dottore, ma lavoravo e proprio non potevo. Didi aveva quattro anni e mezzo e doveva fare una visita di controllo dopo il parto, considerando che era passato un mese, mentre i cuccioli avevano bisogno di essere visitati per un controllo di routine. Il padre dei piccoli gattini era sconosciuto. Tre mesi fa, più o meno, Didi era scomparsa per due giorni; io stavo per morire di infarto e mi ero arrabbiata tantissimo con Sally che lasciava sempre la finestra aperta per Budderball, ma poi quando Didi ritornò, si era scoperto che scappava da un buco vicino alla porta. Dopo aver elemosinato il perdono della mia coinquilina, lo avevamo fatto chiudere, tuttavia la faccenda non si concluse lì visto che, poche settimane dopo, avevamo scoperto che era incinta.

Mannaggia a quel gattaccio.

Sally annuì dal divano e alzò il pollice per farmi capire che mi aveva ascoltato. «Sto morendo di sonno, che ore sono?» Guardò l'orologio sul muro e sospirò. «Dici che è presto per andare a dormire?»

Lo adocchiai anche io e scoppiai a ridere. Erano appena le quattro, ma a ottobre ormai le ore di sole si erano accorciate notevolmente e questo faceva venire sonnolenza.

«Vado a farmi una doccia» annunciai.

Sally iniziò a sdraiarsi piano piano sui cuscini, mentre Budderball le si poggiava sui piedi. «Vai pure, io ti aspetto qui con gli occhi chiusi.»

Ridendo in silenzio, mi alzai dal divano e filai in bagno, sperando vivamente di riuscire a dormire stanotte, perché quella precedente non era andata troppo bene con i cuccioli di Didi che non smettevano di miagolare.

Entrando in bagno sorrisi: amavo il colore rosa pastello che avevamo scelto per le mattonelle e il marmo per il pavimento, mentre i mobili erano bianchi. Mi piaceva vedere colori diversi in ogni stanza: rendeva la casa più allegra. Forse molti avrebbero odiato questi accostamenti, ma io e Sally li amavamo. Per esempio, la mia stanza era sui toni del lilla e del viola, mentre quella di Sally sul grigio chiaro e scuro.

Nel momento stesso in cui misi piede in doccia, il campanello suonò varie volte e proprio quando stavo per sbuffare e uscire, sentii un tonfo e poi la voce di Sally dire: «Tutto okay! Non mi sono fatta niente, vado io!»

Capii che era caduta e scoppiai a ridere scuotendo la testa, mentre un odore delizioso di pizza mi invase le narici.

Cercando in tutti i modi di sbrigarmi per andare a mangiare la pizza prima che Sally la finisse, pensai a quanto strana fosse la vita. Sin dalle superiori, andare a vivere a New York era un sogno nel cassetto di entrambe, un sogno che non credevamo potesse realizzarsi davvero, soprattutto perché tutti in Italia, la nostra madrepatria, pensavano che non fossimo davvero serie e che parlassimo a vanvera. Poi era successo.

A New York c'erano ancora delle persone che non ci credevano quando dicevamo di essere italiane, visto che 'Sally' non era un tipico nome del nostro paese; la verità era che la mamma della mia migliore amica era una fan sfegatata di Vasco Rossi e non era difficile indovinare quale fosse la sua canzone preferita.

Ora, tre anni dopo la fine del liceo, nonostante ci mancassero le nostre famiglie, eravamo certe che non avremmo potuto fare scelta migliore.

New York, in fondo, era la città dei sogni e quando i vecchi amici insistevano affinché tornassimo, io rispondevo sempre nello stesso modo: "Puoi trovarmi a New York".

Puoi trovarmi a New York (COMPLETA)Où les histoires vivent. Découvrez maintenant