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Isaia il Muto trasse il remo a bordo e si chinò fino a poggiare il ginocchio sul legno della barca. L'ombra del ponte lo coprì per un paio di secondi prima che la luna calante tornasse a far scintillare la sua armatura. La barca proseguì lentamente lungo il canale, immersa nella foschia, e Isaia si guardò intorno pensieroso mentre le ombre sfumavano sempre di più in un'oscurità densa e vaporosa. La città era particolarmente silenziosa quella notte. Il tepore delle torce non sfiorava le pareti delle calli e le guardie della Teocrazia sembravano essere tutte impegnate a giocare d'azzardo. Ciò rinfrancava Isaia, dato che la quiete era il suo palazzo, l'unico vero castello che potesse chiamare dimora. Strinse la presa attorno al remo, facendo cigolare i giunti metallici, e riprese a navigare il canale senza spezzare il silenzio. Gli edifici di Venezia si facevano sempre più diroccati man mano che egli si dirigeva verso la periferia. Isaia si guardò intorno. Era incredibile pensare che quelle case un tempo fossero rinomate per la vivacità dei loro colori. Dopo il ritorno del Messia, infatti, gli abitanti avevano sostituito ogni tinta policroma con colori freddi e scuri. Come la capigliatura di un uomo, che quando invecchia diventa grigia e insipida, Venezia si era svestita di ogni barlume di vita. La furia iconoclasta della popolazione, felice di distruggere ogni ricordo del mondo che aveva raggiunto il culmine del peccato, aveva avuto la meglio anche su quello. Ora la città era in lutto, annerita dal vapore delle macchine e dalle esalazioni tossiche della laguna, e i cittadini si trascinavano arrancando sotto le ispide guglie e i vecchi edifici di cemento trasformati in mausolei decadenti. La solita malinconia tornò ad assalire Isaia mentre si inginocchiava per passare sotto un altro ponte. Perché Dio aveva dato agli uomini la capacità di vedere tanti colori se poi anche l'edera che si abbarbicava sulle chiese appariva così grigiastra?
Isaia fu distratto dai suoi pensieri quando udì un eco familiare in lontananza. Si guardò intorno, gli occhi sgranati nell'oscurità. Il canale curvava verso destra poco distante e nella calle adiacente baluginava una fila di lumi. I canti gli giunsero alle orecchie in ritardo, attutiti dal ferro dell'elmo, ed egli smise di remare per osservare la scena. Poco lontano dall'argine, decine di penitenti sfilavano in fila indiana strascicando i piedi callosi sul freddo suolo, e cantilenavano le litanie del dolore con voce sommessa. Non c'erano sacerdoti a guidarli: erano tutti laici coi volti nascosti da mantelli di tela. Alcuni di loro si voltarono verso Isaia, probabilmente attirati dallo scintillio dell'armatura, ma ritrassero subito lo sguardo quando videro a chi apparteneva. Il persecutore osservò la processione finché la barca non oltrepassò la calle. La luce dei lumi svanì ed egli riprese pensieroso a remare. Era quasi arrivato.
La villa dei Timordomini apparve in tutto il suo squallore dopo pochi minuti di navigazione. Era un palazzo largo e diroccato, con larghe crepe che sfregiavano ogni parete, non differente dagli edifici che lo accerchiavano nell'isolato. I capitelli delle colonne barocche erano erosi e le terrazze sembravano sul punto di crollare nel canale sottostante. Inoltre, le finestre erano tutte sigillate da inferriate tranne una spalancata al secondo piano. Era la conferma definitiva che il padrone di casa non aveva ripensato a nulla.
Isaia ormeggiò l'imbarcazione, legando la cima al gancio di legno marcio, dopodiché afferrò il sacco di iuta che si era portato appresso e iniziò a scalare la facciata del palazzo. L'armatura era piuttosto pesante ma lui era più forte e determinato a guadagnare qualche denaro d'argento. Infilando mani e piedi nelle enormi fenditure del muro di mattoni, il persecutore scalò la parete diroccata senza troppe difficoltà fino a raggiungere la finestra spalancata. Le tende strappate svolazzavano e s'ingolfavano nella brezza notturna di Venezia, e Isaia le afferrò per issarsi dentro.
«Sei venuto» la voce roca di Giacomo Timordomini gli giunse improvvisamente alle orecchie. A quanto pare il vecchio era già lì ad aspettarlo. Isaia attraversò la finestra e posò a terra il sacco, poi si guardò attorno. La camera da letto del vecchio era ampia e sudicia. Le pareti erano ricoperte di centinaia di icone alla Madonna e ai Santi, tutte avvolte nella polvere, e i mobili sembravano infestati da insetti. Sopra il raso lacerato e divorato da muffe nere, Isaia osservò la sfilza di icone e riconobbe la croce inversa di San Pietro, la grata bruciante di San Lorenzo e il filo spinato intorno al volto inespressivo di qualche santo minore. Come immaginava, il vecchio era particolarmente devoto ai martiri. A coronare il desolato panorama, un letto a baldacchino era stato sfasciato al centro della stanza, ridotto a un cumulo di macerie da cui spuntavano chiodi e schegge acuminate.
«Per un momento ho temuto che non saresti venuto» continuò Giacomo Timordomini. Ondeggiava avanti e indietro, accasciato su una sedia a dondolo, e fissava il vuoto con lo sguardo colmo di paura. Isaia lo fissò negli occhi, scrutando il suo volto attraverso la fessura dell'elmo, poi estrasse una pergamena sgualcita dal sacco che si era portato appresso e la porse al vecchio.
«Se solo potessi dirmi una parola di conforto. Se solo potessi placare questa titubanza» Giacomo Timordomini afferrò la pergamena e lesse con gli occhi piagati dalla cataratta «ma anche Cristo nostro Signore titubò nell'Orto degli Ulivi. E ciò è consolazione sufficiente per uno come me»
Isaia non disse niente. Anche il vento sembrò ammutolire mentre il palazzo veniva avvolto da un silenzio colmo di tensione.
«Scelgo questa» mormorò infine Giacomo Timordomini, indicando una delle scritte della pergamena col dito tremante. Isaia annuì.
«Nella credenza laggiù ci sono gli ultimi denari d'argento che mi sono rimasti. Dovrebbe essercene qualcuno in più. Ti prego di prenderli tutti» il vecchio indicò un mobile dal lato opposto della stanza. I suoi occhi luccicavano, pregni di dolore e rassegnazione. Anche i muscoli, sotto la pelle raggrinzita, erano presi da lievi spasmi d'inquietudine. Con mani tremanti, egli si cacciò le mani in tasca e ne estrasse un santino e una busta sigillata dall'aspetto ingiallito. Baciò il santino con passione, il naso che iniziava a colare, poi rivolse un ultimo sguardo pietoso verso Isaia.
«Ho un'ultima supplica da rivolgerti» sussurrò, la voce sempre più rotta dal pianto «prendi questa lettera e aprila dopo che sarò morto. So che non è compito tuo e che non sei obbligato a farlo, ma ti scongiuro. Se non la leggerai, non avrò mai pace nel mio sonno eterno. Questa è la mia ultima preghiera. La mia ultima volontà prima di morire. Ti scongiuro di concedermi solo questo con tutto il mio cuore»
Isaia alzò il sopracciglio, osservando la busta che fremeva tra le mani del vecchio. Non era raro che alcuni clienti lo supplicassero di portare a termine qualche ultimo desiderio, pur consapevoli che non c'era più tempo per i rimpianti. Eppure il vecchio, gracile e avvolto in una crisalide di sudore, lo impietosiva più del solito. Doveva essere quell'ombra di solitudine nei suoi occhi velati di lacrime, quasi commovente nella sua fredda familiarità, a fare la differenza. Il persecutore prese lentamente la lettera e la esaminò, poi la ripose su una cassapanca accanto a lui. Giacomo Timordomini tirò un sospiro di sollievo.
«Grazie. Grazie. Che Dio abbia pietà di me» singhiozzò. La sedia a dondolo smise di ondeggiare. Isaia si chinò nuovamente sul sacco e ripose la pergamena, poi rovistò tra gli attrezzi di metallo. Il clangore degli strumenti di tortura fece deglutire il vecchio, ora immerso nella penombra con le unghie affondate nel legno dei braccioli. Dopo qualche secondo, Isaia sfiorò il manico di ciò che gli serviva e lo tirò fuori dal sacco. Era una falce spuntata e annerita dalle incrostazioni di sangue. Giacomo Timordomini trattenne il respiro e serrò gli occhi mentre lui si avvicinava. La lama si sollevò in aria e Isaia mirò alla trachea pulsante e coperta di sudore. Fu un colpo secco.

Isaia c'era abituato ormai. Era da anni che, come persecutore della città, martirizzava gli abitanti di Venezia. L'idea di torturare e uccidere le persone non gli faceva più né caldo né freddo. Lui era l'unico con la forza di compiere simili gesti, per questo era così temuto e riverito. A differenza di un falegname o di un calzolaio, egli non provava piacere nel vedere il risultato delle sue opere, ma qualcuno doveva pur farlo. La gente pagava bene e otteneva ciò che voleva. Lui non era altro che il mezzo. Uno strumento di morte vagabondo e solitario, consapevole di ciò che lo aspettava nell'aldilà ma abbastanza forte nell'animo da riuscire ad ignorare simili pensieri ed ergersi con dignità al ruolo di impeccabile angelo della morte.
Non era bastato il colpo alla gola per uccidere il vecchio, esattamente come Isaia aveva previsto, e quello stava gorgogliando con la trachea mentre il sangue colava come cera fusa sul collo. La sua precisione chirurgica nell'infliggere ferite non letali era tramandata in tutta la laguna. E infatti anche questa volta il persecutore aveva fatto un ottimo lavoro. Tanto buono, pensò, che non c'era soddisfazione.
Isaia continuò a torturare Giacomo Timordomini per diversi minuti. Egli aveva scelto di pagare pochi denari d'argento, pertanto le torture sarebbero state veloci e brevi, ma sarebbero bastate per fargli guadagnare il titolo di martire ed espiare i peccati che aveva commesso in vita. La maestria con cui Isaia squarciava la carne e strappava denti era quasi un'arte a sé stante. Macabra, certamente, ma leggiadra e affascinante come quella di uno scultore. Così come Fidia scolpiva busti e torsi di marmo per scalpellare la vita nei freddi blocchi di pietra, lui al contrario strappava a brandelli i corpi ancora vivi fino a renderli informi ammassi di carne, eppure epurandoli di ogni peccato nel profondo.
Giacomo Timordomini spirò dopo poco tempo. Era già svenuto per il dolore e ora ciò che rimaneva di lui era una carcassa straziata e sanguinante, ma la sua anima era più limpida che mai. Isaia ripose gli strumenti nel sacco e coprì il cadavere con un lenzuolo. Da quel momento non sarebbe stato più un suo problema; ci avrebbero pensato le guardie a ripulire tutto l'indomani. Aprì quindi la credenza che il vecchio gli aveva indicato e rovistò tra i cassetti. I cinquanta denari d'argento erano lì, custoditi da un sacchetto di tela. Isaia li afferrò e li gettò nel sacco. Il suo lavoro lì era finito. Mentre riponeva i suoi strumenti di tortura, tuttavia, i suoi occhi caddero sulla lettera ancora appoggiata sulla cassapanca. Altri individui gli avevano espresso degli ultimi desideri, forse troppo spaventati per comprendere chi avevano dinanzi, e lui puntualmente li aveva ignorati, eppure qualcosa lo spingeva a leggere. Forse era la curiosità o forse la rassegnazione del vecchio che lo aveva tanto colpito. Isaia mosse qualche passo verso la lettera e tese il braccio per prenderla, ma qualcosa lo interruppe.
Il suono di passi leggeri giunse alle orecchie del persecutore. Venivano dal corridoio accanto alla camera. Isaia sguainò la spada e aguzzò la vista, pronto ad accogliere chiunque fosse entrato. Non si aspettava delle visite, ma il trambusto che aveva fatto nella sessione di tortura doveva aver svegliato qualcuno. I passi si fecero sempre meno ovattati, poi si fermarono. La maniglia della porta cigolò, abbassandosi, e la porta si aprì lentamente per rivelare una figura scarna e minuta. Isaia sgranò gli occhi sotto la maschera dell'elmo.
Era un bambino con gli occhi lucidi.

Venezia PenitenteWhere stories live. Discover now