Amore a doppio filo

By Ariannablog99

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*dal 16 Aprile su Amazon con Cherry Publishing* Rinunceresti ad una notte con un ex modello per ventimila ste... More

Playlist per metro affollate
1. Ho perso il filo
3. Kurwa!
Sezione annunci: Mind the gap
Coperte e copertine

2. Sotto copertura

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By Ariannablog99

"Ciao." La prima cosa che vedo quando si volta sono gli occhi. Grandi, quasi rotondi, di un nocciola caldo che vira al giallo. La seconda è uno zaino. Rosso. Il mio zaino rosso!

"Le divise!!" urlo, facendo voltare tutti quanti. Anche Loris si affaccia oltre il pass della cucina. Mi fiondo sopra quel vecchio sacco di tela come se fosse l'ultimo modello edizione limitata di Chanel, apro la zip ed eccole qui: le mie divise, tutte perfettamente piegate e profumate al sapone di Marsiglia. Non mi sono mai sembrate così belle. Faccio un sospiro di sollievo e me le stringo al petto. 

Quando alzo lo sguardo mi ritrovo di nuovo quegli occhi puntati addosso, enormi e sgranati. Una civetta appollaiata sul bancone sarebbe più discreta.

"Grazie..." dico ricomponendomi.

"L'avevi dimenticato sulla metro." Ha un accento duro, marcato e stranamente familiare. "Io ho provato a venirti dietro ma tu correvi troppo. Te l'avrei portato prima ma dovevo suonare..." mi spiega, scompigliando la sua matassa di capelli ricci.

"Sì...ero in ritardo." Lo fisso più attentamente e rivedo la scena. Io che entro dentro la metro. Tolgo lo zaino per trovare spazio tra la ressa. Lo poggio a terra, tra il palo e un tipo alto trasandato. Chitarra, capelli ricci, aria strampalata. Lo riconosco chiaramente in quel fotogramma. "Non avevo fatto caso...ma tu come hai fatto...mi hai seguito? Intendo, come sapevi che lavoravo qui?"

Lui indica il logo del Terra's cucito sul taschino della mia camicia, proprio sopra il mio nome. "Arianna, vero? Io sono Hassan" dice portandosi una mano al cuore.

"Bé, grazie Hassan."

Borbotta un prego imbarazzato mentre continua a guardarmi con un'aria incerta.

"Scusami ma io ora devo tornare a lavorare...grazie ancora però." Stiracchio un sorriso di circostanza. Che si aspetti una mancia?

"Senti..."

Avanza sgraziato, le spalle curvate dal peso della chitarra. Ora che lo guardo meglio ha anche il naso un po' buffo, troppo piccolo, troppo schiacciato. "Ti va una birra...per caso?"

La risata di Johanna si sente distintamente per tutta la sala.

"Stasera...?" domando spiazzata "É che io devo ancora lavorare."

Povera ingenua. Zia Margherita lo dice sempre. Nessuno fa niente per niente.

"Ok..." Fa due passi per uscire ma poi ci ripensa "Però se vuoi ti aspetto."

Ormai siamo diventati un'attrazione generale. Johanna e Camila mi fissano ridacchiando mentre fingono di pulire il pavimento, Loris se ne sta coi gomiti poggiati sul bancone a fare gestacci con Olaf e anche John fa finta di niente, segno che si sta facendo allegramente gli affari miei. Ora ci mancava solo questo. E mi ha trovato anche le divise, accidenti a lui, così mi deve far sentire pure in debito.

"Ecco io non so quando finirò esattamente...se sei proprio sicuro che ti va di aspettare" dico incerta. Per tutta risposta lui sgrana un sorriso a trentadue denti.

"Certo! Sono qui fuori." Si dirige con passo svelto verso l'uscita, finendo quasi per inciampare sul tappeto d'ingresso. Si volta imbarazzato, come per identificare un ostacolo invisibile. Intercetto il suo sguardo ma mi sforzo di rimanere seria. Johanna, a quanto pare, ci riesce molto meno bene di me.

"Stasera super serata compagnia!" la porta non fa in tempo a chiudersi che lei esplode in una risata. Alzo gli occhi al cielo esasperata. La sala è un disastro, io sono un disastro e quel ragazzo sembra più disastrato di noi due messe insieme. Sì, si preannuncia proprio una grande serata.

Pulisco molto più lentamente di quanto sia abituata a fare, con la vaga speranza che lui nel frattempo si sia tolto dai piedi. Quando spengo le luci del locale è passata quasi un'ora. Loris e Olaf mi salutano con un'aria decisamente più allegra della mia.

"Buon divertimento, Arya!" ridacchia Loris lanciandomi un bacio. Lo guardo di traverso, scaraventandogli addosso uno straccio ancora mezzo bagnato.

Arrivata all'androne do un'occhiata alla finestra. Il viale è deserto, la luce dei lampioni tinge d' arancio la nebbiolina leggera che aleggia tra i palazzi. Allungo il collo, guardo a destra e poi a sinistra. Del tipo nessuna traccia. Forse alla fine si è scocciato ed ha deciso di andarsene. Mi chiudo la zip fino alla gola, calo il cappuccio di pelliccia sulla testa, apro il portone ed esco.

Ed invece eccolo lì, seduto sugli scalini in marmo, con un cellulare dallo schermo spaccato tra le mani. Si alza con un balzo, neanche fosse seduto sui carboni ardenti.

"Ehi!"

"Ehi" faccio eco meno entusiasta.

"Pensavo non uscissi più." Ha un sorriso spiegazzato.

"Scusami, si è fatto tardi..."

"Nessun problema, tranquilla."

Ci incamminiamo lungo il marciapiede lucido di pioggia. Le lunghe file di case in mattone nell'ombra della notte assomigliano a grandi scatole di cartone abbandonate sul ciglio della strada. Svoltiamo su Conway Street e subito appare la BT Tower che svetta luminosa in lontananza come un faro in un mare d'asfalto. Per un attimo mi chiedo se sia davvero una buona idea quella di girare a quest'ora di notte con un tizio che conosco da cinque minuti. La colpa, lo so già, è di questa città. Nella miriade di ragazzi che arrivano in questo porto di mare, si finisce quasi con il perdere l'istinto alla diffidenza. Sarà che ogni giorno vedi sfilare così tante persone diverse che l'idea stessa di diverso finisce per avere poco conto. Sarà che in fondo le nostre storie si somigliano un po' tutte. O sarà che se siamo tutti stranieri nessuno lo è più per davvero.

"Una birra allora?" gli chiedo cercando di studiarlo più attentamente.

"Sì, una birra, perfetto...ho visto c'è un kebab qui dietro l'angolo...tu hai mangiato?"

Mi rendo conto solo ora di essermi completamente dimenticata di cenare stasera. Mi viene in mente Mark, il suo sguardo mentre mi squadrava nella divisa enorme e il tono assorto. Poi quella domanda, da dove venivo, come se potesse mai importargliene qualcosa. E quel profumo sul collo. Devo esitare qualche momento di troppo prima di rispondere.

"Altrimenti va bene anche il pub..." propone dubbioso.

"No, no tranquillo" dico scuotendo la testa "Non ho ancora cenato. Un kebab va benissimo."

"Quindi..." inizia lui fissandosi le punte delle scarpe "Arianna, giusto? E lavori sempre qua?"

"Vuoi pedinarmi tutte le sere?"

"Che? No, certo che no!" mi fa lui sgranando gli occhi enormi.

Alzo un sopracciglio. Non mi conforta molto il fatto che sembri aver preso seriamente in considerazione quest'ipotesi.

"Buon per me...bé sì, lavoro qui. Da pochi mesi in realtà, poi fra poco mi riprende l'università e inizierò a lavorare solo il week end". Quantomeno è quello che mi auguro. Ad oggi sto ancora aspettando che John approvi l'idea di mettermi ad un part time. Il pensiero di dover lasciare il Terra's mi preoccupa un po'. Per non parlare dell'idea di dover pesare di nuovo sugli zii per pagare l'affitto. Faccio un sospiro che si materializza in una nuvoletta di vapore denso.

"Cosa studi?" mi chiede, destandomi dalle mie divagazioni.

"Lingue orientali, arabo."

"Sul serio?" ed è la solita faccia allibita che sono abituata a vedere quando parlo di quello che studio. Immagino già come proseguirà la conversazione. Perché l'arabo, chi te lo fa fare e compagnia bella. Mi sorprendo invece quando lui riprende a parlare.

"Deve essere complicato da imparare...io sono nato ad Hamman, i miei sono giordani."

Ora capisco cosa aveva di strano il suo accento. E' arabo, ecco perché sembrava così familiare!

"Lo parli quindi?" gli chiedo.

"Bé, sì, ho vissuto in Giordania fino a quando avevo nove, dieci anni. Con il lavoro di mio padre però abbiamo sempre viaggiato molto... A volte non so più neanche in che lingua sogno."

L'insegna del negozio di kebab occhieggia intermittente subito dietro l'angolo.

Quando entriamo l'odore della carne allo spiedo mi provoca un immediato morso allo stomaco. Ordiniamo due porzioni con patatine e birra e ci sediamo su un divanetto rosso in un angolo.

C'è un tale tepore qui dentro, mescolato agli aromi speziati, che sento sciogliersi tutta la tensione della serata. Dopo tutto forse ho fatto bene ad accettare l'invito.

"L'ultimo album ti piace?"

"Scusa?" chiedo, sfilandomi la sciarpa.

"Nella metro, ho sentito che ascoltavi i Libertines, l'album vecchio" continua lui senza guardarmi "Eravamo stretti." Sembra quasi che si voglia giustificare.

"Ah, i Libertines, ok!" questo tizio ha una strana tendenza a rimuovere i soggetti delle frasi. "Non l'ho ascoltato ancora. È bello?"

"Fantastico! C'è tutta Londra dentro, sembra la colonna sonora di una città intera!" Se in tutto il resto sembra un ragazzo quasi timido, scopro ben presto che se si parla di musica Hassan diventa un fiume in piena. Mentre mi racconta delle sue tracce preferite gli occhi si accendono in una miriade di pagliuzze dorate. Non mi sorprende quando mi dice che suona in vari locali dalle parti di Camden Town. Vorrei chiedergli di più ma il grosso tipo al bancone arriva ciondolando con i nostri due kebab fumanti.

"Shukran" dice ringraziandolo in arabo e ottenendo per tutta risposta poco più di un grugnito.

"Sei a Londra da molto?" chiedo, addentando un grosso morso.

"Due anni...ero venuto per iniziare l'università ma poi ho iniziato a suonare e, insomma, è andata così. Tu invece?"

"Un anno, più o meno...sono venuta qui l'anno scorso con una borsa di studio della mia università in Italia...poi mi hanno offerto una sorta di proroga per rimanere."

"E tu non sei contenta"

Lo guardo senza capire se la sua sia una domanda o un'affermazione.

"Che studiavi tu?" gli chiedo accigliata.

"Legge. Mio padre è un ambasciatore e avrebbe voluto che seguissi la sua strada. Non ero granché portato comunque." Aggiunge, con il tono sbrigativo di chi vuole tagliare corto. 

"Capisco..." colgo un certo imbarazzo che mi convince a cambiare del tutto discorso "Hassan vuol dire buono in arabo, giusto?" gli domando. 

"Già...un nome un po' idiota"

"Un nome è solo un nome"

"Il tuo che vuol dire?"

"E' greco. Non conosci la storia del filo?"

Piega la testa di lato. "Raccontamela."

La stessa parola che dicevo io, bambina, a mia mamma. Mi sembra di tornare indietro nel tempo e ascoltare ancora la sua voce. C'era una volta una principessa che viveva in un'isola lontana e aveva i capelli del colore del corallo.

"Sembra una bella storia" mi dice Hassan mentre ripeto quelle parole.

Scuoto le spalle.

"Nessun nome è solo un nome" continua lui convinto "Da noi si dice che nel nome si traccia il destino di una persona".

"Allora a me hanno incasinato parecchio!"

"Non eri una principessa?"

Sto per iniziare a raccontargli la vicenda del labirinto quando un gran fracasso proveniente dalle cucine ci fa sobbalzare entrambi.

Quello che ha tutta l'aria di un topo unto e spelacchiato irrompe con un balzo sopra il bancone fino ad atterrare perfettamente sul nostro tavolo. Io salto di scatto rovesciando ciò che era rimasto miracolosamente illeso mentre l'enorme proprietario avanza feroce come un tricheco messo a dieta.

"Bastardo di un animale sudicio!" sento urlare tra le imprecazioni.

Hassan rimane immobile al lato del tavolo, finché lo vedo piegarsi in uno scatto velocissimo e afferrare il topo con entrambe le mani. Faccio un urlo e mi allontano di dieci metri mentre lui tiene il pugno stretto sulla bestiola che si divincola.

"Shh" sussurra accarezzandolo. Lo guardo inorridita.

"Quel fottuto animale è la terza volta che mi entra dal retro" continua a sbraitare il proprietario. "Questa è la volta buona, è la volta buona!"

Guardo lui, poi il topo, poi Hassan, poi di nuovo il topo. Solo allora mi accorgo di qualcosa di strano. Tra le dita sottili è una coda troppa ispida quella che si destreggia nervosa nell'ansia di liberarsi dalla sua morsa. Ma è solo quando spunta un muso minuscolo che mi rendo conto.

"Quell'ammasso di pulci ha cercato di sbranarsi un pollo intero!"

Due occhi verdastri mi guardano spauriti da una gomitolo di pelo grigio. Credo di avere davanti il gattino più sporco di tutta l'Inghilterra. Non so neanche se sia il suo colore in effetti o sia solo coperto da uno strato di polvere e unto.

"Lo prendiamo noi." Hassan non batte ciglio. Il proprietario blatera qualcosa in arabo che non capisco e se ne torna dietro al bancone scuotendo la testa. Il gatto invece sembra soddisfatto della decisione e forse per gratitudine forse per l'odore di kebab lecca sornione le dita di Hassan.

"Noi!?" Ripeto sconvolta. Cerco di fare mente locale velocemente su come sono finita con un gatto unto di olio in una tavola calda lurida con un tipo incontrato un'ora fa.

"Non potresti tenerlo per un mesetto? Solo finché non mi trasferisco."

Lo guardo allibita "Sei fuori di testa?!"

"Il padrone di casa mia non sopporta gli animali. Anche il mio coinquilino ha dovuto dare indietro un cane che aveva preso su Ebay."

"No, mi spiace, è fuori questione."

Il gatto, acciambellato sulle gambe di Hassan, mi guarda con due occhi enormi. Hassan mi fissa con due occhi più grandi di quelli del gatto.

"Non ho tempo per un gatto!" esclamo ma già mi sento impallidire.

"Solo un mese" ripete, congiungendo le mani in preghiera.

"Ma non hai nessuno a cui chiedere?!"

"Mmmh...in effetti no."

Mi passo una mano sulla faccia. Che ho fatto di male nella vita?

"Non possiamo lasciare che diventi un kebab di gatto, no?"

La potenziale vittima, per tutta risposta, ronza le sue fusa con la pancia all'aria.

"Trenta giorni" insiste ancora, senza disunire le mani.

Mi giro verso il proprietario del locale che continua ad affilare il suo coltello, borbottando tra sé e sé. Ora ci mancava anche avere un gattino innocente sulla coscienza.

"Non un giorno in più" mi arrendo.

Hassan si illumina in un sorriso smagliante. Raccoglie la chitarra da terra e infila il gattino nella custodia semichiusa.

Una mezz'ora più tardi e una porzione di patatine dopo, ci stiamo incamminando verso la stazione. Una pioggia impalpabile inumidisce l'aria. Hassan mi cammina di fianco, la chitarra su una spalla, lo zaino sull'altra. Ogni tanto il musetto grigio spunta dalla piccola apertura per poi ricadere con un tonfo sul fondo.

"Come possiamo chiamarlo?" Mormora incerto, tamburellando un dito sul mento.

"Gatto?" propongo con poco entusiasmo.

"Mmh, ci vuole qualcosa di più personale. Dimmi un nome italiano"

"Italiano? Ce ne saranno duemila. Non so nemmeno se sia maschio o femmina."

"Maschio. Ho controllato."

"Sicuro??"

"Cento per cento."

Le priorità di questo ragazzo sono strane.

"Pallino?" Butto lì, dicendo il primo nome che mi viene in mente.

"Che vuol dire?"

"Piccola palla." Traduco.

"Pallino. In effetti sembra proprio una piccola palla di pelo. Mi piace."

Arriviamo alla stazione che sono le undici e mezza. L'ultimo treno arriverà a momenti.

"Ecco qua" Hassan mi lascia il sacco di pulci soddisfatto. Lo infilo con qualche difficoltà nella tasca della giacca. Mi sto già pentendo.

"Io suono qui. Passa a trovarmi, ci mettiamo d'accordo per Pallino." Tira fuori un volantino spiegazzato dalla tasca. C'è una grande caverna disegnata e una scritta verde a caratteri cubitali. The cave, Camden Town.

"Mmh." Mugugno poco convinta.

Un fischio e una forte folata di vento annunciano il vagone in arrivo. Le luci degli abbaglianti bucano l'oscurità del tunnel in un fascio improvviso.

"Suono tutte le settimane dal lunedì al giovedì!" mi urla lui oltre il vetro, mentre prendo posto nel vagone semivuoto.

Solo quando partiamo mi rendo conto di una sensazione di umido nella tasca, mescolata a un odore terribile.

"Merda!!" 

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