Crisalide - VINCITORE WATTYS...

By Jeedya

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Capitolo 1
Capitolo 2
Capitolo 3
Capitolo 4
Capitolo 6
Capitolo 7
Capitolo 8

Capitolo 5

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By Jeedya

Capitolo 5.

Non corremmo da nessuna parte in realtà. Doveva essere una di quelle uscite che piacevano tanto a tutti quelli che lavoravano per il Programma: di queste frasi mistiche e nebulose sul magico e glorioso futuro che ci attendeva sembravano averne una scorta infinita.

Semplicemente dopo le sue parole la nebbia si diradò e scoprimmo di non essere al centro del nulla, ma all'esterno di un tempio grecizzante, con colonne in marmo di un bianco accecante, che seppi riconoscere solo per l'amore di mia madre per ciò che era morto; mentre la "nostra roba" si rivelò essere esattamente ciò che aveva preannunciato la guida: abiti a scelta, un sacchettino in canapa grezza con una decina di monete spumeggianti, e un pugnale.

Un pugnale. A guardarlo non era nulla di più di un coltello da cucina con un'impugnatura più ergonomica. Lo estrassi dal fodero logoro e me lo rigirai tra le mani. Non avevo mai visto né impugnato una vera arma da taglio, mi era impossibile capire se fosse una buona lama o se avesse l'affilatura di un coltello da burro.

Con attenzione poggiai la lama sulla parte interna dell'avambraccio. Una linea rossastra si disegnò sulla pelle.

Ci avevano equipaggiati con una vera arma. Perché? Volevano che ci guadagnassimo il nostro posto con sangue e sudore, era risaputo, ma non pensavo che la parte del sangue fosse letterale. Tutti, come il piccolo gruppo di cui facevo parte, avevano lo stesso pugnale legato al fianco. Tutti erano predatori. Anche io potevo diventarlo.

Risi tra me. Predatrice. E di cosa poi?

Guardai di nuovo il pugnale: l'impugnatura era molto bella, sagomata, in legno di ciliegio. Considerarlo un mero oggetto di arredamento lo rendeva molto più innocuo.

Quando, poi, mi fu data la possibilità di vestirmi, giurai di non denudarmi mai più completamente fino a quando non fossi tornata alla realtà, e nel dubbio agguantai qualche indumento in più: tutti presi dal calore estivo non sentivano nell'aria l'odore di temporale, ma io sì. Se nessuno voleva quella giubba, non mi sarei fatta troppi problemi ad indossarla sopra le altre due che avevo pescato nel mucchio.

Una grande gioia mi travolse quando mi accorsi di non riuscire a trovare nulla di vivace. Il ventaglio di colori andava dal porcellana al grafite, passando per qualche tono del marrone, ma niente magenta, pistacchio o corallo.

E anche quando fummo vestiti di tutto punto, senza stivali in carbonio ma con qualcosa che sembrava più cuoio o la pelle viva di qualche animale, la guida e gli altri addetti al punto d'ingresso ci condussero all'unico varco nella recinzione del tempio, che segnava l'effettivo ingresso nel Programma.

La guida si piazzò tra noi e il monumentale portone in legno, costituito da travi orizzontali e fregi floreali, e disse: «Sceglietevi un nome, un nome che vi rappresenti. Qui potrete usare solo quello, e solo a quello farà riferimento il PCF, non quello con cui siete entrati qui».

Poi si voltò e accarezzò le due grandi maniglie in metallo dei relativi battenti della porta e le tirò verso di sé. Uno spiraglio luminosissimo filtrò, accecandomi. La guida si fermò, e dandoci le spalle, disse: «Quasi dimenticavo: qui le leggi a cui siete abituati non esistono. Dovrete cavarvela da soli. Buon divertimento».

Non ebbi il tempo di pietrificarmi per il terrore causato dalla sua ultima uscita che i due battenti della porta si spalancarono svelando i misteri del Programma. Due passi più avanti, e il grande portone si chiuse dietro di noi senza un rumore.

Una prima occhiata non era capace di gustare tutto ciò che si presentava: una lunga strada, delimitata da un filare di alberi di limone e lastricata di mattonelle dalle sfumature del grigio e dell'azzurro, ammorbidite dal passaggio di milioni di passi, si perdeva tra le basse palazzine che la costeggiavano. Ognuna vomitava rigagnoli di persone, che confluivano nella strada affollata, dove tutti si accalcavano gli uni sugli altri, senza ordine e senza traiettoria. Ricordava vagamente uno sciame di insetti, in cui il singolo è svincolato dal movimento del gruppo, ma che ne segue in realtà il progredire. E il sole! Alto a mezzogiorno, così caldo da arroventare le mattonelle, e così vero.

Mi sentii così viva e così disgustata da non sapere quale istinto seguire, se quello di gettarmi nella mischia, per capire cosa ci fosse di così interessante in ognuna delle palazzine, o voltarmi e implorare la guida di riaprire il portone e di farmi entrare, lì al sicuro, lontano da individui tanto disordinati.

Lo spettacolo era così incantevole però proprio nel suo disordine: le voci diverse si fondevano in una melodia di risate e urla entusiastiche, e l'odore di limone ammorbidiva il tanfo di umanità che pervadeva la strada.

Notai con piacere che nessuno del mio gruppo si ancora buttato nella mischia: erano tutti così increduli da non capire cosa fare.

Anche perché, se ciò che aveva detto la guida era vero – e per quanto cercassi, non riuscii a trovare una sola buona motivazione sul perché avrebbe dovuto mentire – allora gettarsi in quel marasma significava che avrebbero potuto: stuprarmi, picchiarmi ripetutamente, derubarmi e tentare di uccidermi – non necessariamente in quest'ordine – non appena si fossero resi conto che ero una novellina nel Programma.

Il resto della vita sembrava continuare mentre noi rimanevamo lì indecisi sul da farsi, ognuno intrappolato nella propria prigione mentale.

Miss SoTuttoIo chiese: «Cos'è tutto questo?», compiendo un non meglio identificato gesto per includere tutto ciò che ci ritrovavamo di fronte.

Un ragazzo, un altro di quelli che aveva fino a quel momento intrapreso la mia stessa strada del silenzio, rispose: «Deve essere il Programma... Ma è tutto sbagliato, questo sembra, sembra una specie di villaggio».

Accidenti quanta fantasia, amico.

Il genio doveva pensarla come me perché lo udii controbattere: «Non è possibile, i villaggi sono estinti, esistono solo città. Se il Programma è una riproduzione più o meno fedele della realtà, allora devono esserci città, con le stesse mansioni e con gli stessi bisogni. A cosa servirebbe un villaggio?»

Non avevo mai pensato al Programma in questi termini: nella mia mente sarebbero stati tre anni di percorsi ad ostacoli, con una serie di difficoltà crescenti, non una pallida – o vivida – copia della realtà.

Credevo che avrei passato il mio tempo a fare quello che avevo fatto nella bara: sopravvivere fino alla prova successiva. Una serie infinita di fallimenti, quindi. Non un duplicato del mondo reale: perché portarci in un mondo virtuale, se potevi tenerci tutti tranquilli in quello reale?

Sì, certo, c'era tutta la questione della meritocrazia, inapplicabile nel mondo reale. Ma poteva davvero essere tutto lì?

La bambola che si era disperata per il suo aspetto berciò: «Poco importa: città, villaggio, sono solo dimensioni, l'importante è raggiungere il vertice», poi si fece largo a gomitate. «Bene, credo che io andrò, ci si rivede quando verrete a lucidare l'argenteria. Conquistatevi il posto giusto, eh, mi raccomando» disse, dandoci le spalle. Due passi dopo, era stata già inghiottita dalla fiumana.

Meno uno. Probabilmente a quel punto ci saremmo disgregati tutti come i pezzi del bicchiere che la guida ci teneva tanto a rompere: partiti uniti, ognuno sarebbe finito negli anfratti più sperduti della mappa.

Mappa, che per quel che mi riguardava, rimaneva un mistero: poteva anche essere tutta lì in quella via.

«Sì, ha ragione, ormai non conta più. Buon Programma a tutti!» se ne uscì il ragazzo di poco prima, scomparendo anche lui nella folla.

Perché stavano scappando tutti? Cosa pensavano di poter fare soli?

E io cosa avrei fatto una volta abbandonata da tutti? Mi pentii immediatamente di averli considerati degli sconosciuti: in tutto quel caos, loro erano quanto più vicino al mondo che conoscevo mi rimanesse.

Sarei rimasta sola, tutti se ne sarebbero andati e sarei rimasta sola. Che cosa dovevo fare? Mi avrebbero calpestata lì per strada, nessuno mi avrebbe vista. Sarei morta di fame: non vedevo mense da nessuna parte. E i bagni? E perché c'era tutto quel chiasso?

No, non ce l'avrei mai fatta da sola, questo era indiscutibile.

In silenzio, senza un saluto, altri tre ragazzi se ne erano andati, tra loro anche il criminale. Eravamo solo in sei, significava solo cinque persone tra cui scegliere un compagno di viaggio. Perché io ne avevo bisogno, ne avevo assolutamente bisogno, non sarei arrivata nemmeno alla fine di quella strada da sola.

Li scrutai uno per volta. C'era Miss SoTuttoIo, una criminale che però si era mostrata anche piuttosto intraprendente, da non scartare. Poi il genio, potenzialmente utilissimo, ma anche un possibile peso morto qualora il pugnale si rivelasse necessario. E quello che aveva fatto tanto l'eroe: non riuscivo a sopportarlo per tutto quello che aveva detto su di me all'inizio, e poi sembrava così gracile da non poterlo nemmeno sollevare, il suo pugnale. Avevo ancora a disposizione anche una ragazza, che non avevo notato fino a quel momento, e che quindi o doveva appartenere alla mia stessa specie – quella dei codardi – oppure doveva essere una stratega eccezionalmente abile, che non mi avrebbe mai presa con sé. A chiudere la rosa un ragazzo che trangugiava con gli occhi la vista davanti a noi; lui lo esclusi subito, mi dava l'impressione di essere il primo pronto ad usare contro di me l'arma.

Nessuno di loro mi parve così affidabile, né così propenso a prendermi con sé, né io ero una bugiarda così abile da convincerli delle mie abilità nascoste.

Mi mordicchiai le labbra. Dovevo scegliere in fretta.

«Anche io andrei, è stato un piacere fare la vostra conoscenza» disse la codarda/stratega dileguandosi. Ma come poteva "aver fatto la nostra conoscenza" senza nemmeno aprire bocca?

Quattro, anzi tre. L'avevo sempre detto io di non darmi troppe scelte: portavano solo ansia e riducevano le mie già scarse capacità di giudizio.

Mi voltai verso i miei compagni: il genio sudava abbondantemente nella camicia chiara e si schermava gli occhi dal sole, l'eroe emaciato, le mani sui fianchi, mi ricordava l'immagine di un pirata pronto a salpare, o almeno l'immagine che gli spot davano dei pirati – ero piuttosto certa che i pirati fossero scomparsi da un pezzo, ancor prima dell'inizio degli Anni Bui.

Poi c'era Miss SoTuttoIo che guardava proprio me.

Quando si rese conto che la stavo fissando di rimando, si avvicinò con il braccio teso.

«Io sono...» incominciò, poi ne uscirono suoni poco comprensibili, mentre le labbra si aprivano e si chiudevano senza alcun risultato utile. Resasi conto dell'errore, sempre con il braccio teso come il ramo di un albero, strinse le labbra e riprovò: «Io sono Lobelia».

Nella mia mente difficilmente quel nome avrebbe sostituito Miss SoTuttoIo, ma avrei fatto un tentativo.

Lobelia, doveva essere il nome che si era scelta. «Perché proprio Lobelia?» non potei evitare di chiedere.

Quasi sussultai quando sentii la mia voce: non mi ero sprecata a parlare fino ad allora, perciò non mi ero accorta di quanto fosse cambiata. Queste modifiche strutturali fin dove sarebbero arrivate?

Il cambiamento era notevole alle mie orecchie: era una voce più dolce, più saffica, decisamente inappropriata.

Avrei dovuto lavorarci su: se usciva sempre un tono simile, mi avrebbero presa per una di quelle che nel mondo reale passava il proprio tempo libero a pianificare divorzi.

Miss SoTuttoIo, pardon Lobelia, non sembrò turbata quanto me dalla voce che tubava.

«È un fiore, e come ogni fiore ha il suo significato» spiegò con il solito tono da prima della classe. Decisi di stringerle comunque la mano: era rovente, tant'è che temetti che il sangue le bollisse nelle vene, e sorprendentemente morbida.

L'eroe emaciato distolse lo sguardo dalle future terre da colonizzare e osservò il nostro piccolo rituale.

Si avvicinò e mi chiese: «Ce la farai da sola? Sai, non mi sembri troppo capace di, beh, di concludere qualcosa».

Chiaro che non ero capace di farcela, ma questo potevo dirmelo solo io, di certo non il primo scheletro che camminava. Cercai di immaginarmelo nel mondo reale: se quella era la sua versione "pro", doveva essere messo maluccio.

Passai in rassegna tutte le risposte pungenti in mio possesso, ma Lobelia mi anticipò: «Non sarà da sola. L'aiuterò io, almeno all'inizio». Lo disse guardando lui, ma era chiaro che celava una domanda verso di me. O almeno era quello che mi piaceva pensare: "Ehi, perché non ti unisci a me? Saremmo una bella squadra!" suonava molto meglio di "Vabbè dai, mi accollo io questo peso per ora".

«Esattamente, mi aiuterà Lobelia, non preoccuparti» confermai. Ero piuttosto sicura di non essere sembrata abbastanza seria, quindi annuii con sicurezza, come solo la degna figlia di mio padre avrebbe potuto fare. Nel dubbio, annuisci sempre.

Lo sguardo del ragazzo fece la spola da me a Lobelia un paio di volte prima di arrendersi. «Va bene. Ero solo preoccupato: dopo tutta la faccenda della bara, pensavo che il Programma non fosse fatto per tutti, e volevo darti una mano» spiegò, titubante. «Ma sembra che voi abbiate tutto sotto controllo. Beh, allora, io vado. Buona fortuna» ci augurò.

Si tuffò – letteralmente – tra la folla, seguito a ruota dal genio.

Eravamo rimaste solo noi due, e il ragazzo dallo sguardo pericoloso. Conveniva fuggire finché eravamo in tempo. Lobelia dovette pensarla come me perché mi afferrò per un braccio e mi trascinò nella ressa.

Non ero mai stata a così stretto contatto di così tante persone: mi pestarono un piede, poi qualcuno mi pugnalò con un gomito e non riuscii nemmeno a contare gli spintoni. Epidermide su epidermide, per centinaia di volte, in pochissimi minuti. E l'odore! Se dal portone il profumo di limone riusciva a coprire l'olezzo umano, lì non sarei riuscita a salvare il senso dell'olfatto nemmeno se avessi inspirato un limone intero con una cannuccia. Percepivo distintamente le camicie impregnate di sudore sfiorarmi mentre cercavo di allontanarmi da quella selva putrescente.

Più camminavamo, Lobelia avanti e io che non sbattevo nemmeno più le palpebre per non vedermela scomparire da sotto gli occhi, più sentivo l'aria mancare: ero più bassa di chiunque mi circondasse, e sembrava di essere tornati nelle foreste antiche millenni, dove le piante si evolvevano in lunghezza per assorbire la luce del sole, causando la morte di quelle piccole, e pigre, incapaci di scalare la vetta. Ecco io mi sentivo esattamente come la piantina timida assediata da faggi e betulle. Io ero la piantina moribonda.

In quel momento non riuscivo nemmeno a vederlo il sole, però lo sentivo, o almeno sentivo il calore che emanava da sotto i quattro strati di indumenti che avevo insistito per portarmi dietro.

Ormai tutte le mie speranze erano riposte in Lobelia. Stavo letteralmente mettendo la mia vita nelle sue mani, che speravo trovassero un varco e aria respirabile.

Sembrò udire le mie mute preghiere, perché con un ultimo strattone virò a sinistra ed entrò in una delle tante palazzine. Il sollievo fu immediato.

Non che l'interno fosse meno brulicante di vita, ma almeno lì il sole non infiammava anche l'aria.

Doveva essere una mensa o qualcosa di affine: numerosi tavoli tondi, diversi per dimensioni e sovraffollamento, erano sparpagliati per tutto l'ambiente. E gli avventori erano tutti concentrati sul cibo: non mi importava cosa fosse se profumava così. Probabilmente in quella situazione anche la minestra di porri di mia madre, quella grumosa e color avocado – lo so, color avocado ma di porri? Me lo sono sempre chiesta anche io – anche quella l'avrei trangugiata con gioia.

Ci sedemmo nell'angolo più deserto, dove nessuna finestra faceva filtrare il sole, ad un minuscolo tavolo traballante, in cui sentii sotto le dita inciso un inquietante "Aiutatemi". Sperai davvero che fosse il grido d'aiuto del tavolo e non di qualcuno che era passato di lì.

Mi guardai attorno alla ricerca dei vassoi e della zona ristoro, ma non trovai nulla: sembrava quasi che il cibo comparisse direttamente sui tavoli.

«Tu sai come funziona qui la mensa?» chiesi a Lobelia, piegandomi sul tavolo per attirare la sua attenzione.

«Mensa? A me sembra più un ristorante o una taverna» commentò lei, sbracciandosi per attirare l'attenzione di qualcuno. Tornai in fretta alla mia sedia per evitare di essere colpita da un arto impazzito.

«Un cosa?» domandai di nuovo.

Un ragazzo si materializzò davanti a noi e chiese le nostre ordinazioni. E poco dopo ci portò esattamente cosa avevamo detto, con tanto di posate e bicchieri. Che servizio.

«Come hai detto che si chiama questa roba?» chiesi in tono entusiastico. Masticavo con eccitazione qualcosa che ricordava gli asparagi ma dal sapore molto più intenso.

«Sembra uno dei ristoranti che c'è in città, ma il servizio è pessimo: ho dovuto addirittura chiamare personalmente il cameriere. Deve essere una di quelle che chiamavano taverne» sbuffò, sdegnata. Preferii tacere sul fatto che non fossi mai entrata in un posto dove il cibo ti viene messo direttamente davanti alla faccia. Evitai anche di chiederle la differenza fra i due termini.

Quando le mie papille gustative riuscirono a dimenticare la tragedia avvenuta all'esterno, riuscii a concentrarmi su Lobelia. Mangiava con la stessa raffinatezza di Sonje: le posate impugnate con leggerezza, i polsi all'insù, i gomiti stretti al corpo. Non c'era bisogno che mi confidasse che viveva nel centro città: ogni suo movimento strillava la sua posizione sociale.

Nell'ombra della taverna non riuscivo a distinguere bene i dettagli, però i capelli biondi era impossibile non notarli: erano del tipico colore dell'estate e delle vacanze, con quelle sfumature che poteva ostentare solo chi passava le proprie giornate a farsi baciare dal sole.

Che ci faceva una come lei in mia compagnia? Il mio aspetto non era migliorato a tal punto da passare per una della sua specie, e il modo barbaro in cui avevo azzannato il piatto doveva aver eliminato ogni dubbio.

Perché aveva deciso di aiutarmi?

Mi immobilizzai con le posate a mezz'aria, alla ricerca di un qualche dettaglio che potesse aiutarmi.

Le mani erano così delicate e le unghie così curate che probabilmente non aveva alcuna esperienza in materia di combattimenti: che mi avesse scelta perché mi credeva capace di proteggerla?

Sperai che non rimanesse troppo delusa alla scoperta che tutta la mia esperienza in quel ramo era una rissa quando avevo sei anni, in cui non ero uscita nemmeno vincitrice.

No, non poteva essere per quello: avrebbe preso uno dei ragazzi.

L'espressione altezzosa e la bocca che si corrucciava ogniqualvolta ingoiava un boccone mi fecero venire in mente l'immagine di lei, con i capelli cotonati e un filo di perle al collo, che ridacchiava davanti a tè e pasticcini. Forse aveva bisogno di una domestica o qualcosa di simile.

Non che fossi abilissima con i mestieri di casa, ma di sicuro me la cavavo meglio che con le risse. Almeno in questo campo avevo esperienza, non tutta negativa.

O forse cercava una mente che la aiutasse a carpire i misteri del Programma? Anche in questo caso sarei stata meno che utile. Poi lei sembrava molto più capace di me in quest' ambito.

E allora perché mi aveva presa con sé? Senza che mi inginocchiassi ai suoi piedi peraltro!

Tornai alle mie verdure, continuando a studiarla con più discrezione.

Quando ebbe pulito il suo piatto, bevve un sorso e mi fissò dritto negli occhi. Erano verdi e minacciosi, incorniciati da più ciglia di quanto considerassi umanamente accettabile.

«Come hai detto di chiamarti?» chiese, mentre giocherellava con il calice.

«Non l'ho detto» risposi. Ne uscì anche il tono giusto: mi stavo ambientando alla nuova voce.

Continuò a guardarmi, in attesa di una spiegazione.

Come mi chiamavo? Di certo non Fauve, non più, e non volevo rischiare la stessa figura da pesce che aveva fatto lei presentandosi. Come mi chiamavo?

Un nome che vi rappresenti, aveva detto la guida. Era giusto: Fauve era un nome che mi era stato imposto, e mi era sempre stato larghissimo, troppo imponente per una scialba come me. Avevo bisogno di un nome che avrei sentito come mio, che avrebbe guidato la mia nuova vita.

A questo punto chiunque avrebbe optato per qualcosa di glorioso, come il futuro che si andava costruendo, qualcosa che lo avrebbe ispirato nei momenti di difficoltà e che lo avrebbe risollevato dopo un fallimento.

Ma io non ero chiunque, e a differenza di chiunque non avevo nessun futuro glorioso da costruire.

Il meglio che poteva capitarmi, al momento, era di ripulire i vestiti di Lobelia.

Ero mediocre, un filo sopra il pelo dell'acqua, quel tanto che bastava per respirare.

«Moyenne, mi chiamo Moyenne» risposi all'improvviso. Almeno tutte le lezioni di mia madre sulle lingue morte erano servite a qualcosa.

«Moyenne, Moyenne» ripeté Lobelia, degustando il mio nuovo nome come aveva fatto con il vino nel suo calice. «Mi piace. Ha un significato?»

«Fingi che sia un fiore» ribattei. Sorrise come una gatta che aveva trovato un nuovo compagno di giochi.

Non riuscivo a capire perché l'approvazione di Lobelia mi rendesse tanto felice.

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