L'Egida di Alessandro

Od obliviontales

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IV secolo a.C., Macedonia. Alessandro è morto e il suo impero è in frantumi: i diadochi, un tempo suoi genera... Více

La Lunga Notte
L'onore del Nome
Hetairos

La Statuetta

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Od obliviontales

Polvere, sangue e arsura. L'immensa nube di polvere che si alzava al passaggio del nemico era tale da nasconderlo agli occhi. Il sangue di quello stesso nemico imbeveva la terra a tal punto da trasformare la sabbia bollente in una fanghiglia rossa. L'implacabile sole d'Asia batteva incessante sulle bronzee armature, che illuminavano le fila dei compagni di luce riflessa, come fossero déi. Le lunghe picche formavano un muro di morte micidiale che, ad ogni passo, sempre in avanti, frantumava la compagine nemica e la faceva indietreggiare atterrita. I barbari continuavano ad abbattersi sulla lunga falange e come un fiume continua a premere sulla diga senza mai sfondarla, così l'esercito del Re dei Re non era in grado di far breccia nella formazione compatta dei compagni. Poi calò il martello sull'incudine: calarono i nostri cavalieri superbi, schiantandosi sul nemico intrappolato nelle lunghe sarisse, distruggendolo come un fulmine che colpisce un albero. I soldati gioivano, esultavano e combattevano con sempre più coraggio, mentre i nemici, terrorizzati, fuggivano gettando a terra le armi e abbandonando i loro fratelli perché era arrivato lui, sul suo maestoso cavallo nero:

Alessandro era arrivato. Mio padre mi raccontò spesso di come il nostro esercito, soverchiato dal nemico, sconfisse il potente re dei persiani nella grande piana di Gaugamela. Avrei voluto essere là anche io, per ammirarlo nella sua gloria divina, per combattere per lui, per udire la sua voce e le sue parole, che avrebbero parlato anche a me. Avrei voluto esserci anch'io.

Lo avevo visto, in patria, quando ero piccolo. Il nostro re, l'araldo del mondo ellenico.

I suoi capelli, biondi e lucenti come il sole splendente, danzavano nel vento sinuosi come le fronde degli alberi; l'armatura lampeggiava alla luce del giorno, mentre alzava la spada trionfante e impennava il cavallo, pronto a partire alla volta del grande impero d'oriente, per spingersi fino ai confini del mondo.

Mio padre diceva che, durante le lunghe marce, quando ci si fermava per accamparsi e riposare, lui era l'ultimo ad entrare in tenda, l'ultimo a mangiare e l'ultimo a dormire e quando, al mattino, era l'ora di ripartire, lui usciva dalla sua tenda maestoso, protetto dalla sua meravigliosa armatura, pronto a montare il grande Bucefalo e si metteva in testa alla colonna. I soldati, diceva mio padre, non osavano nemmeno guardarlo, tant'era al di sopra di ogni uomo. Quanto avrei voluto seguire un re come Alessandro, la cui ombra si posava, solitaria, di fronte al mare.

La Macedonia, infine, mi aveva chiamato e io montavo fiero in sella al mio fedele compagno, Andreios, dalla manto bruno e crine nerissimo, forte e veloce. Alessandro, poiché uomo era, si ammalò anni prima e morì nella lontana Babilonia. Io servivo il re Antigono, che fu uno dei più fidati generali, nonché amici, del grande Alessandro. La Macedonia, però, soffriva: non eravamo più un grande impero, ma ci eravamo divisi ed ora chi prima era amico ora era un nemico.

Qui cominciarono i fatti che portarono me, Antifonte, alla soglia di mondi tenebrosi e ignoti, cui solo gli déi possono osare.

Appena diciannovenne, venni convocato a palazzo assieme ai miei compagni, l'élite della guardia reale, la punta di diamante degli eteri, la superba cavalleria del re. Il re in persona ci diede il benvenuto nel giardino interno, dove noi entrammo in ranghi ordinati e presentammo le armi in saluto, vestiti dell'intera panoplia cerimoniale. Il giardino era gradevole, sebbene abbastanza austero: c'erano pochi alberi, per lo più cipressi e ulivi, circondati da esili strati d'erba ben curata e ghiaia; la piazzola centrale, sprovvista di qualsivoglia decorazione o monumento, era formata da piastrelle bianchissime in cui era incastonato un mosaico, rappresentante il sole macedone; il tutto era circondato da un porticato non troppo ampio, agli angoli del quale bruciavano incensi ed altre erbe aromatiche all'interno di grossi bracieri di bronzo bugnato.

Il re vestiva a sua volta la splendida armatura, adornato dalla spada lucente cinta al fianco. Portava i capelli all'indietro, lunghi fin quasi le spalle, ancora nerissimi nonostante l'età.

Antigono prese a parlare, elogiando la nostra discendenza e paragonandoci ai portentosi cavalieri che combatterono con lui al fianco del grande Alessandro. Finiti i convenevoli, ci delucidò riguardo al motivo della chiamata: una spedizione. Egli intendeva, infatti, inviarci al seguito di Antipatro, nostro nuovo comandante e omonimo del grande generale, verso le lontane terre d'Asia per un'importantissima missione, così vitale da non poterci mettere a conoscenza della destinazione né, tantomeno, dello scopo stesso della spedizione: dovevamo seguire, alla cieca, un uomo che non conoscevamo verso terre ignote, abitate da popolazioni strane e misteriose, nonché profondamente diverse da noi, sulle quali aleggiavano storie e leggende di ogni genere. Non avremmo ricevuto aiuto alcuno, né dai nostri uomini, né dagli altri diadochi, al fine di mantenere la segretezza della missione.

Eravamo entusiasti, nonostante le prospettive non fossero delle migliori: era la nostra occasione per dimostrare a noi stessi che eravamo i degni eredi dei nostri padri, conquistatori invincibili.

La sera, il re indisse un grande banchetto e fummo chiamati a partecipare. Doveva essere una sorta di festeggiamento in nostro onore, ritengo, anche se non ci era permesso parlare della missione. Le nostre famiglie sapevano bene che dovevamo partire, questo era impossibile nasconderglielo, ma non ci era concesso dire altro: la pena sarebbe stata severissima. Mi incontrai poco prima con Efialte e Leandro sotto il grande olmo che stava all'angolo tra la caserma e la strada principale, a pochi minuti dal palazzo.

- Ce ne hai messo di tempo- cominciò Efialte vedendomi arrivare

- Ti eri forse perso per strada?- scherzò Leandro, seguendo Efialte

- Siete proprio simpatici voi due!- risposi io – andiamo, al banchetto non ci aspetteranno di sicuro.-

Conoscevo Efialte e Leandro da molto tempo, fin da quando eravamo bambini ed erano i miei più cari amici. Eravamo cresciuti insieme nella parte alta di Pella, educati severamente dai nostri genitori a rispettare la tradizione macedone, a seguire l'esempio di Alessandro e dei suoi generali: il nostro sogno era quello di poter combattere al fianco del grande conquistatore, di sconfiggere interi eserciti guidati dal suono della sua voce e seguendo il nero Bucefalo. Giocavamo anche noi, come poi tutti i bambini dalle nostre parti, ai soldati: il nostro motto era "Alessandro parla, dicci solo dove!", litigando costantemente per chi avrebbe interpretato il ruolo del nostro re.

Efialte era il più grande di noi, anche se solo di qualche mese: aveva i capelli lisci e neri, come le lontane genti al di là del mare occidentale, tagliati sempre corti dalla madre, che ne aveva molta cura; era un uomo dalla mente rapida, occhi scattanti e analitici; la sua parlata era calma e fluente anche se, spesso e volentieri, utilizzava le sue abilità oratorie per raggirarci e farci passar per stupidi, per poi ridere goliardicamente delle nostre reazioni; era meno piazzato di noi, ma si muoveva velocissimo ed era sempre il primo nella corsa e nel salto. I lineamenti del suo viso erano armoniosi, quasi dipinti, delineati in maniera precisa, seppur non eccessivamente marcata. Sua madre era una donna persiana, della lontana Susa, data in sposa a suo padre dal grande Alessandro in persona. Efialte aveva gli occhi orientali, ma nulla di più.

Leandro era un giovane dai capelli rossi e ricci, portati lunghi fino alle spalle e raccolti in ciocche legate con nastri neri. Aveva un fisico forte e robusto, quasi fosse scolpito dalle mani del più grande scultore di Atene, tant'è che spesso, nelle competizioni e nei giochi, sconfiggeva qualunque avversario nella lotta e nel lancio del disco o del giavellotto. Aveva un viso statuario, dai lineamenti duri e marcati, che lasciavano intendere la serietà che lo caratterizzava, mentre i suoi occhi bruni davano una sensazione di calma e di fiducia.

Ci recammo, così, al salone del palazzo, vestiti con gli abiti da cerimonia. Non ci era concesso di bere più di un bicchiere, conservato per gli auguri finali del banchetto, poiché saremmo partiti a notte inoltrata. La sera donava un'atmosfera tranquilla, rinfrescata da un leggero vento primaverile, mentre il sole donava i suoi ultimi raggi al giorno odierno per lasciar spazio alla notte buia, incastonata di stelle.

Com'era bella Pella: il padre del grande Alessandro, re Filippo, aveva fatto venire i migliori architetti e artisti dalla Grecia per trasformare la città in un gioiello al pari delle meravigliose Tebe, Corinto e Atene. Ci sentivamo greci anche noi, in questa città. Passammo vicino al grande tempio dedicato al re degli déi, Zeus, che si ergeva titanico con le sue alte colonne e i porticati interni, i grandi gradoni d'accesso e l'immenso portone di quercia borchiato e decorato da sbalzi e cornici d'oro; il grande timpano raffigurava Zeus glorioso, troneggiante su tutti gli déi e vigilante sugli abissi del Tartaro dove agonizzavano, imprigionati, gli antichissimi e terribili titani. La luce della sera e quella emanata dai grandi bracieri posti sul viale d'ingresso davano un senso di maestosità alla grande struttura, fin quasi inquietudine, segno che era giusto avere timore e rispetto per il potente dio.

Gli alberi sereni, accarezzati dal vento, ci accompagnarono fin davanti al palazzo. Le guardie ci riconobbero immediatamente e ci introdussero, una volta spogliati delle armi, nella grande sala da pranzo. Antigono stava sul suo scranno intagliato, attorniato dai consiglieri che, evidentemente, nemmeno nelle occasioni di festa lo lasciavano esule dalle responsabilità del potere. La stanza era grande e molto ben illuminata, imbevuta di allegria e spensieratezza; l'aria era carica di odori forti e profumi esotici, dati dalla grande varietà di carni cotte sul fuoco nelle cucine di palazzo, mentre i musici riempivano l'atmosfera di note soavi. Sarebbe stata una festa degna degli antichi re del passato, quando ancora gli déi camminavano sulla terra assieme agli uomini; i cantastorie narravano le gesta epiche degli eroi tramandati da Omero, che avevano sfidato addirittura quegli stessi déi, nonché il destino immutabile, ergendosi al di sopra della comune stirpe mortale a tal punto che non fu possibile non attribuire loro una discendenza divina. Così come loro, si narravano le conquiste del nostro grande condottiero, Alessandro, che aveva portato un piccolo e rozzo popolo di montagna a diventare l'araldo dell'occidente. Ascoltavamo rapiti le storie di quelle battaglie, le repliche di quei discorsi, la grandezza della sua gloria: era nostro intento non deludere le aspettative che Antigono, suo fidato generale, aveva riposto in noi.

La festa procedette in modo a dir poco prevedibile: fiumi di vino speziato di qualità pregiatissima avevano ubriacato la quasi totalità degli ospiti, che giacevano addormentati in ogni angolo del grande salone. Antigono, pur avendo bevuto a sua volta, era rimasto più che lucido e ci invitò a seguirlo. Due guardie scelte ci accompagnarono alle stalle reali, dove ci furono dati i cavalli e dove Antipatro, nostro comandante, fu messo al corrente della posizione in cui avremmo trovato il nostro equipaggiamento. Salutammo il sovrano e giurammo di non fare ritorno se non a missione ultimata. Il re ci guardò negli occhi, uno per uno, ci diede la sua benedizione e il permesso di andare: saltammo sui cavalli e partimmo veloci. Davanti a noi si apriva la notte coi suoi misteri celati, coi suoi pericoli, il preludio della nostra missione; dietro di noi il re volgeva il suo sguardo ancora più avanti, oltre le alte montagne e forse oltre il cielo stesso, mentre diveniva sempre più piccolo per poi sparire divorato dalle tenebre.

Cavalcammo per qualche ora, dopodiché Antipatro ci fece fermare nei pressi di un boschetto nel bel mezzo del nulla. Accanto ad un grande albero, immerso nel buio, spostò una grande pietra che celava una buca, dentro la quale giaceva un baule, unto di grasso di montone, che conteneva i nostri indumenti: ad ognuno era assegnata un leggero pettorale di lino intrecciato, abbastanza resistente e facile da nascondere sotto le vesti, una corta tonaca in tessuto leggero, un chitone di cuoio da cingere ai fianchi assieme ad una spada corta, un mantello di lana con cappuccio e una bisaccia. Lo scrigno conteneva anche una discreta quantità di monete d'argento, utili nelle emergenze, ma che Antipatro ci intimò di usare solamente sotto sua concessione. Ci furono fornite anche scorte per una settimana di viaggio circa: carne sotto sale, pane oliato e qualche sacchetto di olive, oltre che a frutta essiccata e pesce.

Continuammo a cavalcare fino all'alba, continuando a seguire il comandante senza avere la più pallida idea di dove ci stavamo dirigendo. Quando il sole cominciò a illuminare il cielo, segnando l'inizio di un nuovo giorno, ci ritrovammo nei pressi di un radura verde e senza alberi. Antipatro diede l'ordine di fermarsi ma di non montare l'accampamento, poiché non era previsto che ci fermassimo per più di qualche ora. Saremmo rimasti fin dopo mezzogiorno, per far riposare i cavalli e per mangiare qualcosa. Il comandante organizzò due turni di guardia, nei quali eravamo compresi sia io che Efialte. Chiedemmo permesso di poter andare per primi e ci recammo presso le posizioni di guardia. Ai margini della radura si ergeva un piccolo bosco, all'ombra del quale noi riposavamo; i cavalli furono portati nei pressi di un vicino torrente ad abbeverarsi e noi ricevemmo il compito di accompagnare gli uomini che li portavano, per poi rimanere di guardia proprio lì. Bagnammo i cavalli con un po' d'acqua e ci lavammo a nostra volta. La tranquillità del bosco era amplificata dallo scorrere del torrente e dalla freschezza dell'aria: com'era bella la nostra terra!

I placidi e maestosi monti la proteggevano dai barbari del nord, i fiumi e i piccoli torrenti come quello presso il quale ci eravamo fermati dissetavano la terra e i suoi abitanti, le grandi foreste ci fornivano riparo e legname per le nostre case. La Macedonia era la nostra patria, le dovevamo tutto e tutto per lei avremmo dato, vita compresa.

- Dove credi che ci stiano portando?

- Non lo so, Efialte. A giudicare da quel che il re ci ha fornito, direi proprio che stiamo andando molto lontano.- Efialte stette zitto per un momento, cercando sicuramente di immaginare quale luogo aspettasse una nostra visita. Guardò avanti a sé per qualche secondo, per poi rivolgersi a me:

- Credi che sia in Asia?

- Sicuramente. Non si spiegherebbe, altrimenti, una tale quantità di monete.

- Chissà quante leghe ci toccherà percorrere. Chissà quante meraviglie potremo vedere! L'Asia è immensa e meravigliosa... ci sono deserti, laghi che sembrano mari, foreste di ogni tipo, animali dalle forme bizzarre ed esotiche e dai colori accesi e sgargianti, città di una bellezza senza tempo. Ho sempre desiderato vederla, al di là delle storie che mi raccontava mia madre.

- Non credo che, purtroppo, avremo l'occasione di visitare tutti quei luoghi, ma certamente vedremo molte cose.

- Sai, non sono mai stato visto bene dalla nostra gente. Il fatto che mia madre sia persiana non ha certamente aiutato, ma il nome che mio padre mi attribuì è certamente la causa principale della loro diffidenza. Ogni nome ricorda una storia, ha un significato: il mio ha certamente il marchio dell'infamia per tutti i greci. Efialte, l'uomo che tradì Leonida e i suoi trecento alle Porte Ardenti. Mio padre mi diede questo nome per rendermi forte, per non rendermi la vita facile soltanto perché sono nobile di nascita. Di tutti quanti, soltanto te e Leandro siete stati dei veri amici per me. - disse poi, appoggiandomi una mano sulla spalla.

- I greci e noi stessi macedoni siamo gente onesta, seppur cocciuta. Penso che tuo padre abbia fatto bene ad affiliarti un tale nome e penso anche che tu abbia agito da vero uomo in risposta a questo: sei una brava persona e un soldato leale e coraggioso. I nomi non segnano il nostro destino. Quello spetta alle Parche.

D'un tratto qualcosa si mosse tra gli alberi. Io tentai di acuire la vista il più possibile, tendendo le orecchie e tenendomi pronto. Efialte mi chiese il perché di tanta preoccupazione, probabilmente era solamente un cervo o una lepre. Sentii poi un altro rumore, ad una quindicina di passi dal primo suono. Indicai la direzione ad Efialte che immediatamente annuii e ci dirigemmo, con passo cauto, verso il punto da cui proveniva il sinistro suono. Sembravano bisbigli, sussurri in una strana ed incomprensibile lingua, leggeri e flebili quali fossero aliti di vento. Man mano che ci avvicinavamo, il suono diventava sempre più distinto e chiaro, rimanendo tuttavia misterioso e vagamente inquietante. Fosse stato un cervo o una lepre, sarebbero scappati al nostro avvicinarsi e lo avremmo sicuramente visto, ma quel suono continuava imperterrito nella sua attività sconosciuta. Quando fummo a pochi passi dalla sua sorgente, esso si interruppe improvvisamente. Io ed Efialte ci fermammo a nostra volta, come fossimo stati paralizzati da un potere sconosciuto. Riprendemmo ad avanzare, lentamente, mano alla spada, finché non giungemmo alla fonte del misterioso suono svanito. A terra, nascosta da un magro cespuglio, giaceva una statuetta dalle fattezze grossolane: sembrava ritrarre una figura femminile, dai fianchi larghi e abbondanti, fatta in pietra nera come l'alabastro e liscia come legno levigato. Presentava alcune incisioni, ideogrammi sconosciuti e per nulla simili ad una qualunque lingua scritta da noi conosciuta. La raccolsi e la osservai con attenzione, notando che vi erano anche alcune scritte in greco e nella lingua dei persiani: recitavano "... nelle viscere della terra Ella... rosso e caldo nelle profonde oscurità...". I pezzi mancanti erano scritti in quella strana lingua, sicuramente antichissima, risultando impossibile da leggere per noi. Perché riportava anche parole nella nostra lingua e in quella dei persiani? Perché era lì e chi ce l'aveva messa? Cosa aveva causato quel rumore che ci aveva attirati lì? A nessuna di queste domande noi sapevamo dare una risposta, né ci arrogammo il diritto di fare alcun tipo di congetture. Riponemmo la statuetta nella mia bisaccia e tornammo ai nostri posti, aspettando il cambio della guardia.

Il tempo passò abbastanza velocemente. Leandro ci raggiunse, pochi minuti prima che finisse il nostro turno, per darci il cambio.

- Nulla da riferire, ragazzi?- chiese Leandro in tono scherzoso.

- Qualche lepre, troppo veloce per essere catturata senza arco, oltre alla tua brutta faccia, ovviamente- rispose Efialte.

Tornammo dal comandante a fare rapporto, ma decidemmo di non rivelare nulla della statuetta. Probabilmente era stato tutto uno scherzo dell'immaginazione, data dal viaggio e dalla fame che ormai cominciava a farsi sentire. Non c'era stato alcun rumore, quella statuetta era solamente un pezzo di pietra modellata e noi avevamo bisogno di riposare e rifocillarci: di questo dicemmo di essere convinti, ma sia io che Efialte sapevamo che questo non era vero.

Verso sera, quando ancora il sole splendeva ma era già basso, Antipatro diede l'ordine di ripartire. Procedemmo verso sud in direzione di Tessalonica dove, ci disse il comandante, ci saremmo imbarcati per Efeso. Ci fermammo a notte inoltrata nei pressi di un altare votivo e montammo il campo. Una volta pronto l'accampamento, Antipatro ci convocò nei pressi della sua tenda e ci rivelò lo scopo della missione:

avremmo viaggiato verso la lontana e antichissima Babilonia, profondamente all'interno del territorio del diadoco Seleuco, dove avremmo dovuto recuperare un oggetto appartenuto al grande conquistatore in persona, fondamentale per il sogno di Antigono di riavere un impero macedone unito e forte. L'Egida di Alessandro, così si chiamava il prezioso manufatto, la quale forma o entità erano, tuttavia, sconosciute. Chiunque l'avesse posseduta, sarebbe stato in grado di guidare i popoli del grande impero verso uno scopo comune, sotto un'unica guida, per poter proseguire l'opera del figlio di Filippo. Non ci sarebbe stato concesso di tornare indietro, né di disertare: chiunque di noi, trovato colpevole di tradimento o diserzione, sarebbe stato punito con la morte e con il terribile supplizio della negazione della pace dell'anima, lasciando il corpo in pasto ai corvi e ai cani.

Era dunque questa la nostra missione: recuperare l'oggetto e tornare in Macedonia. A quanto pare il diadoco Seleuco non era al corrente della posizione del manufatto, dunque avevamo, se non altro, il vantaggio che il re orientale non la stava cercando.

Eravamo stanchi e ci addormentammo velocemente. Coloro che avevano servito di guardia il giorno prima sarebbero stati esonerati dalla stessa, quella notte, dunque Efialte, Leandro ed io ci coricammo immediatamente. Il sonno fu tormentato da sogni strani e inquietanti, sogni di un mondo lontano e buio, abitato da creature terribili e spaventose, dalle sembianze immonde e malvagie, che attendavano pazienti presso grandi porte di pietra di uscire dal loro oscuro sepolcro per poter divorare il mondo intero. Languivano nelle loro urla disperate, acute alcune e profonde altre allo stesso modo, grattando con dita lunghissime e deformi lungo le spesse porte di pietra millenaria, segnando solchi profondi. Le porte erano pervase di una luce verdastra, che creava una sorta di vento malefico che teneva le creature lontane dalle stesse. Un male immondo e profondamente malvagio si annidava in quegli anfratti ed io, nel sogno, ero lì, reggendo in mano la statuetta che avevo trovato. Quando le creature si accorsero di me, mi svegliai sudato e profondamente scosso. Uscii dalla tenda per prendere un po' d'aria. La notte trascorreva serena e il campo, nel silenzio e nel buio, dormiva tranquillo. Accanto ad un fuoco incontrai Efialte. Nemmeno lui riusciva a riposare. Mi sedetti con lui e restammo a lungo in silenzio, guardando il danzare delle fiamme calde. Mi confidò di aver avuto un sogno simile al mio ed io non mi stupii. Tornato alla tenda, alla fine il sonno ebbe ragione delle mie stanche membra e mi addormentai. Quella notte gli incubi non tornarono più a perseguitarmi.

L'indomani ci imbarcammo su una nave mercantile alla volta di Efeso. La nave beccheggiava, sorretta dalle onde placide del Mar Egeo, senza che Poseidone si adirasse con noi, segno che forse gli déi benedivano il nostro viaggio. Per giorni andammo per mare, per giorni fummo cullati dall'imponenza delle grandi acque. Non parlammo molto tra di noi, non dovevamo dare l'impressione di essere un gruppo unito. Efialte, coi suoi occhi orientali, si presentò come un viaggiatore ai mercanti persiane delle coste anatoliche, che gli raccontarono nella loro lingua dei luoghi meravigliosi che si ergevano al di là del mare, di creature incantate e mitologiche che infestavano i boschi e le montagne e di spiriti guardiani nei fiumi e negli alberi. Si narrava che, presso un grande olmo, il Re dei Re, Serse, avesse posto di guardia perenne un Immortale, affinché nessuno nuocesse alla maestosa pianta, poiché all'ombra delle sue fronde egli aveva trovato riparo e ristoro. Dopo diversi giorni, davanti a noi avvistammo terra. Dopo poche ore i marinai lanciarono gli ormeggi, che furono legati presso i porti sicuri delle porte costiere della maestosa Asia.

Efeso era una città antica: si raccontava che esistesse da tempo immemore col nome si Apasas, abitata da popoli orientali dall'immensa saggezza, gli stessi che avevano edificato Babilonia e altre millenarie città nella Mesopotamia. Nonostante fosse divenuta, a tutti gli effetti, una città greca con forti influenze persiane, si poteva ancora sentire l'antichità del luogo. Efeso era meravigliosa e sembrava splendere di una prosperità senza tempo nonostante, oltre cento anni prima, fu proprio da queste coste che partì la ribellione che avrebbe poi portato il Gran Re, Dario, in Grecia. Che ironia: Dario fu anche il nome del sovrano persiano che fu sconfitto da Alessandro; tutto questo iniziò e finì in Asia, con lo stesso nome.

Ci dirigemmo verso una locanda chiamata "Il Ristoro di Poseidone", dove prendemmo tavoli diversi e ordinammo da bere e da mangiare mentre, su concessione di Antipatro, io e altri quattro andammo a visitare un poco il porto. Pella era grande, ma sicuramente non reggeva il confronto con una città antica e maestosa come Efeso. Era come essere in un enorme mercato, ovunque andassi, bancarelle e mercanti vedevano ogni bene che era possibile scambiare con denaro e non solo: dalle nostrane olive greche alle bacche nere d'oriente, dalle galline ai montoni, da vestiti rozzi e resistenti ad abiti in lino e seta degni di un re, da piccoli asini e muli fino ai grandi stalloni della Tessaglia. La ricchezza dei colori e la loro vivacità erano una meraviglia per i miei occhi, le musiche e il vociare in così tante lingue uno stimolo per le mie orecchie. Donne bellissime, simili a quelle descritte nei poemi, per le quali gli uomini avrebbero ucciso e distrutto intere città. La sacralità del luogo era tangibile, anche se i templi si trovavano in un'altra parte della città: ovunque si vedevano scritte sacre i lingue diverse e si vendevano amuleti, portafortuna ed effigi degli déi d'oriente e occidente.

Mentre camminavo, osservando tutto questo, un bambino mi prese qualcosa dalla bisaccia e cominciò a correre. Senza nemmeno guardare cosa mi avesse rubato, lo inseguii di corsa. Aveva il vantaggio di conoscere bene la zona del porto, sicuramente, ma io ero più veloce. Passammo per una serie di vicoletti, in mezzo a gente e bancarelle, trai viali del porto di Efeso, finché non riuscii ad acciuffarlo, devo ammettere, non senza poca difficoltà. Mi pregò di lasciarlo andare e di non picchiarlo: aveva la pelle sporca e i piedi scalzi e induriti, i capelli polverosi e mostrava chiaramente i segni della fame. Gli diedi qualche moneta d'argento e mi feci restituire ciò che mi era stato preso, dopodiché mi ringraziò e se ne andò correndo. Stringevo in mano la statuetta, che avevo appena recuperato dal bambino, quando percepii una sorta di richiamo, che si inoltrava nel vicoletto dove mi trovavo. La voce pareva rivolgersi a me, benché non riuscissi a distinguere bene la lingua, ma rabbrividii quando focalizzai e riuscii a ricollegare quella stessa voce con quella che avevo sentito tempo prima, in quel boschetto. Iniziai, solo com'ero, a seguire quel suono arcano, lentamente, inoltrandomi sempre più in quel vicolo deserto. La mia mente sapeva bene che non sarebbe stato saggio continuare, ma quel richiamo era irresistibile: dovevo sapere a cosa mi avrebbe portato. La mano era pronta a correre alla spada, rapida e micidiale; tutti i miei sensi erano acuiti e vigili e i nervi erano davvero a fior di pelle, pronti ad attivarsi al minimo segno di pericolo. La voce si faceva più chiara e intensa man mano che mi addentravo poi, improvvisamente, calò il silenzio. Mi ritrovai davanti all'ingresso di una struttura, composta da una singola stanza, da quanto potevo vedere, al centro della quale sedeva un vecchio dalle fattezze povere e dai lineamenti decrepiti. L'atmosfera era carica di una strana energia, che dava un forte senso di inquietudine e di angoscia, una misteriosa aria sinistra che trasudava da quella stanza.

Il vecchio alzò il braccio e, con un gesto della mano, mi invitò ad entrare. Mantenendo la calma e rimanendo attentamente vigile, entrai cautamente e mi sedetti su di un cuscino proprio di fronte al vecchio uomo: le profonde rughe come solchi nella pietra e i lineamenti scarni davano la sensazione che quel vecchio fosse stato segnato dal passare dei secoli, i suoi occhi grandi e velati del bianco della cecità lasciavano intendere che poteva vedere ben oltre il mondo tangibile, mentre le sue mani, lunghe ed ossute, sembravano bramare cose che non appartenevano certamente a questo mondo.

- La statuetta – mi disse poi, con una voce flebile e roca – sei dunque tu il Portatore?-

Io lo guardai interdetto e confuso, ma prima che potessi rispondere lui continuò:

- Tu ancora non lo sai, ma sei il Portatore. L'Antica Madre non si presenta a tutti e non è certamente un caso che tu abbia trovato la sua effige. Hai un compito molto importante da portare a termine, una missione di vitale importanza e vedo che già lo sai.

- Sì, vecchio, hai visto bene. Il mio capo mi ha assegnato un compito importante ed io non intendo deluderlo.

- Sebbene abbiamo usato le stesse parole, è chiaro che non parliamo della stessa cosa.

- E di quale missione parli, vecchio veggente?

L'antico uomo allungò una mano, al che io vi riposi due oboli, che furono però lasciati cadere con disprezzo e la mano fu tesa ancora una volta:

- La statuetta- mi disse – dalla a me.

Posi nella scheletrica mano la strana effige, che fu saldamente afferrata con una forza inaspettata, mentre le dita dell'altra mano la studiavano nel dettaglio.


Nella terra dei due fiumi, sotto la Torre Antica

Resiste la porta eterna, ma resiste a fatica.

Da tre serpi è protetta, dalle tre è guardata

La pesante pietra giace dimenticata.

Un pericolo immondo, un'orrenda minaccia

Incombe sul mondo l'Oscuro Senza-Faccia.

In quel luogo maligno, di buio terrore

Troverai l'Egida del Conquistatore.

Nelle profondità, nel tetro antro

Attende la luce l'eredità di Alessandro.

Trova le chiavi, richiudi il passaggio

Blocca la porta del terribile viaggio.



Proferite queste parole, il vecchio scomparve dinnanzi ai miei occhi, dopodiché io caddi, privo di sensi, sul pavimento polveroso.

Rinvenni, in seguito, vicino ad un muro, lo stesso dove prima si trovava l'ingresso della stanza, ma sia di quella che del vecchio non vi era traccia. Ritornai, turbato, dai miei compagni, che erano pronti a partire e aspettavano soltanto me. Partimmo immediatamente lasciandoci alle spalle la bella Efeso e ci accampammo una decina di miglia a est, presso un villaggio di pastori. Evitai la compagnia e le domande, il che insospettì non poco Efialte e Leandro, che tentarono di farsi confidenti della mia esperienza, ma ancora non mi sentivo pronto a parlarne. Stanco e scosso, mi coricai a malavoglia sulla stuoia di pelle. Quella notte non chiusi occhio.

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