Ophelia | il cacciatore di st...

By namelessjuls_

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Fra le atrocitร  commesse dall'animo umano, spesso si dimentica la piรน crudele rivolta al genere femminile: la... More

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e p i l o g o
This girl is back

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By namelessjuls_

L'ampia abitazione di Uriah era costituita di cocci di mattone e calce e, per questo, di giorno, simulava i toni rossi e incandescenti del fuoco. Ve n'erano poche simili a Salem e, solo per questo, acquistava maggior valore e nobiltà, indicando che, chiunque vi avrebbe vissuto, sarebbe stato una persona importante.
Ora, era toccato al cacciatore di streghe, e questo la diceva lunga su come fosse caduta in basso la nostra civiltà.

Quella mattina, però, avevo un altro problema.

«Siete sicuro di non avere una scala nelle vicinanze?»

Il signor Calvin, l'anziano giardiniere, continuava a fissarmi da quasi un'ora, ormai stanco delle mie strambe idee su un possibile ladro spione che, arrampicatosi per due piani su un muro liscio, era giunto al mio balconcino.

«Le scale sono nel capanno, signora, e il capanno confina con l'abitazione della servitù: nessuno può entrarvi senza farsi notare.»

Pensai ancora, confusa.
Io stesso mi ero data dalla pazza per investigare su un simile problema, ma, in fondo, era un semplice passatempo in quella bella prigione in cui mi ero ritrovata a vivere. Certamente, non potevo limitarmi ad abbellire il paesaggio e leggere libri come, magari, avrebbe voluto Uriah.

«Una persona agile riuscirebbe ad arrampicarsi,» pensai, passando la mano sulle mura ruvide della casa. In alcuni punti, dei cocci formavano degli specie di scalini, creando degli appoggi pericolanti utili nel tentativo di una scalata. «Magari un giocoliere.»

«Un giocoliere, signorina?»

«Quelli degli spettacoli per i bambini,» spiegai, calma. «Ricordo che mio padre mi portò a vedere uno, quando ero piccola: si arrampicavano su dei pali altissimi e compivano salti incredibili. Uno come loro, saprebbe arrampicarsi su una parete come questa.»

Il signor Calvin sospirò, grattandosi la testa pelata.  «Sì. Sì, signorina, ma certo.»

Gli lanciai un'occhiata gelida, capendo perfettamente la sua velata derisione. Giustamente, credeva che stessi perdendo il senno e, in fondo, non aveva tutti i torti.

«Potete andare,» decisi, liberandolo dalla mia presenza.
Lui si chinò veloce, andandosene subito dopo.

Mordendomi l'angolo dell'unghia, continuavo ad osservare il balcone dal basso, cercando di comprendere qualcosa che sembrava incomprensibile.

Infine, stanca, mi tolsi le scarpe e, lanciate via, mi aggrappai con forza ai cocci, tentando l'arrampicata che, ovviamente, fallì.

«Come è possibile?» Biascicai, infastidita.

«Questa è forse l'aria di una sfida?»

Tesa come la corda di violino, non mi voltai verso Uriah, cercando di ignorarlo per quanto possibile.

«E queste?» Raccolse le mie scarpe da terra e le alzò sul mio volto, sorridendomi beffardo. «Cosa dovrebbero essere?»

«L'emblema di una ragazza sfinita, mio signore,» ribattei, dura, guardandolo con irritazione e prendendogli le scarpe dalle mani.

Lui spalancò gli occhi, colpito dalla mia insolita reazione. Poi, sorrise.

«Devo essermela cercata.»

Chiusi gli occhi, limando ogni punto velenoso del mio corpo per cercare di non dare di matto. Ogni volta che credevo di potermi dimenticare di lui, Uriah sbucava dal nulla, imponendomi la memoria.

«Perché siete qui, Uriah? A cosa devo questo incontro?» Chiesi, guardandolo per prima. Finalmente, notai che indossava degli abiti insolitamente eleganti, come se fosse pronto ad un incontro di lavoro. O, magari, ad un'esecuzione. «Dove siete stato?»

Lui si accarezzò la casacca bianca, sistemandola dentro l'orlo dei pantaloni. «Lavoro, come sempre.»

«Un'altra condanna, quindi,» ribattei, dura. «Un'altra donna morta.»

Uriah strinse le labbra, trattenendo il disappunto. Così, dal suo sguardo, capii che mi stava celando qualcosa.

«Cosa?» Chiesi, ancora. Poi, fu più chiaro. «Quante sono?»

Uriah mi guardò con gelida grazia. «Quattro.»

Boccheggia, sconvolta, stringendomi le braccia al petto. «Quattro? Quattro donne?»

«La parte femminile di una famiglia,» spiegò, distante. «Madre, sorella e le due figlie. Tre e sette anni.»

Zittita, lo guardai a lungo, incapace di concepire come fosse possibile una tale cattiveria. Dalla rabbia e dal disgusto, provai quasi il desiderio di piangere, ma mi trattenni, non volendo risultare più fragile di quanto Uriah già mi credesse.

Era intollerabile.

«Tre anni, Uriah,» sottolineai, sconvolta: «volete davvero giustiziare delle bambine che ancora devono imparare a vivere?»

«Sono streghe, Ophelia: se dessimo loro il tempo di imparare a vivere, probabilmente troverebbe il modo per ucciderci tutti.»

Non gli credevo, anche se sapevo bene che fosse il pensiero di tutti – persino, me lo avevano spiegato a scuola, soffermandosi per una lunga lezione sul come le streghe fossero pericolose per la nostra sicurezza.
Ricordo che chiesi alla mia insegnante se ne avesse mai vista una e lei rispose no, e non dobbiamo vederle: la nostra giustizia ci protegge.
La giustizia era forca e la morte di centinaia di donne era la nostra protezione – vicine di casa, sorelle, figlie, madri. Come potevano essere diventate, ad un certo punto, le nostre più acerrime rivali?
Un giorno amiche, l'altro eredi dell'inferno.

«State andando da loro? Intendo, per l'interrogatorio.»

Fronte corrugata e sguardo spietato, Uriah si limitò ad annuire. «Perché me lo chiedete, Ophelia?»

Deglutii piano, cercando il coraggio sin nella punta dei piedi. «Perché voglio venire con voi.»

«No.»

Uriah mi diede le spalle, prendendo a camminare nella direzione opposta. Colpita, mi ritrovai a inseguirlo.

«No? Fino a ieri non vi importava,» gli ricordai, quasi correndo. Per sfortuna, Uriah aveva le gambe più lunghe delle mie e non indossava uno stupido e scomodo abito.

«Infatti non mi importa,» ribatté, aspro.

«E allora cosa?»

Lo urlai, e, questa volta, restai ferma, notando che, insolitamente, persino Uriah faceva lo stesso. Stranamente, si era messo ad ascoltare.

«Ieri mattina mi avete mostrato una donna in catene e senza speranze; poco dopo, ho sentito le lacrime dei loro cari seguirla lungo il patibolo. Non mi avete privato di questo e nemmeno mi avete chiesto se fossi interessata a comprendere questa parte di voi. Sicuramente, avrei detto di no, ma, ora, mi avete chiesto di darvi la possibilità di conoscervi, e io sto reclamando quella possibilità.»

Uriah mi dava ancora la schiena, e io non mi imposi come presenza – restavo indietro, attendendo la sua risposta. Per quel poco che avevo visto, ero certa che avrebbe rifiutato.

«Volete conoscermi, quindi,» disse, invece.

Sospirai, cauta, e camminai piano, andandogli di fronte: Uriah aveva lo sguardo basso e lontano, così perso nei suoi pensieri. Lo trovai strano, insolitamente serio, come se una freccia d'odio e rimorso l'avesse colpito precisamente nel cuore.
Stava pensando a qualcosa che lo aveva fatto soffrire.

«Sì, Uriah,» ammisi.

Alzò lo sguardo, scuro e ghiacciato, capace di spezzare una roccia in due parti. «Come volete.»

Continuò a camminare, facendomi di nuovo strada verso i suoi uffici, dove, distintamente, sentivo delle urla e gli sbraiti delle guardie. Un brivido gelido mi scorse lungo la schiena quando Uriah mi aprì la porta, facendomi passare per prima.

Le due donne più anziane erano sedute e legate al centro della stanza mentre le due, più piccole, erano state lasciate in un angolo buio con la bocca tappata e le lacrime agli occhi.

«Nostro signore,» salutarono i soldati, ben servizievoli. Tutte portavo un fucile alle spalle ed un coltello alla cinta.

Una sola, che sembrava il comandante, visto le spillette sulla sua casacca, si avvicinò a noi, piegando il capo nella mia direzione. «Miei signori.»

«Questa è Ophelia, la mia futura sposa: se qualcuno oserà minacciare il suo onore, dovrà vedersela con la forca.»

Uriah era chiaro e conciso, quasi privo di emozione. Si voltò verso di me, lanciandomi uno sguardo che voleva dire tanto, ma che taceva su molto. «Sedetevi alla scrivania.»

Obbedii, non sapendo come comportami, e presi posto. Di nascosto, lanciai uno sguardo alle bambine poco distanti che, come incantante, mi fissavano confuse.

Ovviamente, non capivano come una ragazza potesse stare vicino ad un uomo tanto crudele con il nostro sesso: in quel momento, pensando a come dovevano vedermi – come una traditrice e una rivale – mi sentii male.

«Donna e Susan Horan,» professò Uriah, ponendosi davanti alle due donne, entrambe imbavagliate: «un buon cittadino ha denunciato voi e il resto della vostra famiglia per atti magici e non conformi la legge. Gerald, ricordami le azioni compiute da queste donne.»

Il capo delle guardie annuì, altezzoso. «Ci sono giunte voci su una vendita di filtri contraffatti e furto di cibarie. In particolare, la signora Susan è anche colpevole di aver incantato un lord di buona dinastia e averlo costretto a infangare il suo buon nome.»

Corrugai la fronte, confusa da quella descrizione.  «Che significa?»

Uriah mi guardò male, intimandomi a restare in silenzio. Poi, si voltò ancora, restando sulle due. «In poche parole, queste due donne hanno spacciato le loro pozioni magiche per spezie e creme curative e, in più, voi avete stregato un uomo. Cosa credevate di fare? Convincerlo a tradire la propria moglie e sposarvi?»

La donna presa di mira era piccola e non troppo bella, decisamente sfigurata dalla stanchezza di una vita di lavoro. L'altra era agitata e si dimenava verso le bambine, cercando di raggiungerle, ma lei no: era immobile e piangeva in silenzio mentre guardava altrove.
Lei non soffriva per la condanna, né per la paura di perdere qualcuno, perché tanto aveva già perso tutto. Il suo era il dolore di un cuore spezzato.

«Gerald, libera le loro bocche.»

L'uomo obbedì e, nel medesimo istante, passò il suo coltello ad Uriah.

«Potete rendere le cose facili, sapete?» Domandò lui, calmo. «Proclamatevi per quello che siete e la vostra fine sarà veloce; non fatelo, ed io stesso vi renderò la vita impossibile.»

Mi fermai sul volto stanco delle due donne col fiato in sospeso e l'angoscia nel cuore. Io stessa volevo che mentissero, volevo che dicessero di essere streghe, e che morissero in quella poca misericordia che rimaneva loro.
Io, che mai avevo creduto all'esistenza delle streghe, pregavo che le due lo ammettessero, lasciando andare l'orgoglio.
Magari non fossi stata tanto inutile.

«Le mie figlie non sono streghe,» ammise Donna, ferrea. «Io e mia sorella nemmeno: siamo state ingannate.»

«Ingannate?» Domandò Uriah, fingendosi sorpreso. «E chi mai vorrebbe ingannare due contadine?»

«Mia sorella è stata raggirata da un uomo che professava di amarla!» Sbraitò Donna. «Le aveva promesso di abbandonare la moglie e di scappare con lei, ma ha avuto paura, così ci ha denunciate, salvando il matrimonio. Sapete bene anche voi che è la verità, e mio marito potrà testimoniare la nostra innocenza.»

Uriah si accomodò sul bordo della sua scrivania, passando un dito sul lato piatto del coltello, accarezzandolo come un docile animale.
Donna, invece, lo guardava con rabbia, quasi ostinazione, così convinta delle sue certezze che nemmeno io stentai a crederle, nonostante già immaginassi la loro innocenza.

«È stato vostro marito a denunciarvi.»

La stanza sprofondò nell'oblio, e la povera anima si piegò in due, sconvolta. Persino le bambine, intuito il problema, smisero di piangere, spezzate nel loro punto più debole.
Loro padre le aveva tradite.

«No, non è vero,» impose la donna, scuotendo il volto. «Daniel non l'avrebbe mai fatto.»

«È così,» corresse Uriah, avvicinandosi a loro. «Il vostro Daniel vi ha consegnato a noi, denunciandovi come streghe.»

«Io non sono una strega!» Si difese donna, sconvolta. «Io non lo sono! Potete chiedere a chiunque, io sono-»

«Adesso basta!»

Passarono pochi istanti dalle parole della donna alla lacrima di sangue sulla guancia di questa. Senza fiato, abbassai lo sguardo sulla lama sporca di rosso nella mano di Uriah: era stato uno schiaffo al veleno.

«State zitta,» tuonò Uriah, freddo come l'inverno. Sospirò, sistemandosi i capelli selvaggi. «Seconda possibilità: siete o no delle streghe?»

Questa volta, Donna tacque e restò con il volto chinò. Non aveva nemmeno la forza di difendersi, eppure le sue bambine erano lì, in cerca di aiuto.
Il senso di tradimento e sconfitta era troppo forte.

Uriah si imbronciò, notando l'assenza di risposta. «Niente da dire, mie signore? Che peccato.»

Veloce, si voltò, e, per un breve istante, credetti se la sarebbe presa con me, ma, invece, le sue mani finirono sulla bambina più giovane. La prese per i capelli biondi, costringendola a rimettersi in piedi, e tornò davanti alle due donne, già in fermento e sconvolte.

«Mia figlia no! Mia figlia no!» Continuava ad urlare Donna, scuotendosi sulla sedia.

«Le taglierò la gola, mia signora,» annunciò, severo, portando la lama al collo pallido della giovane. «Se ammettete la vostra verità, le cose potrebbero cambiare.»

La madre urlava, per quanto poteva, la sua innocenza, sperando di poter convincere Uriah con le lacrime e le suppliche. Io sapevo che non sarebbe andata così, e ne ebbi la conferma quando un docile e delicato rivolo di sangue iniziò a scorrere dalla ferita sul bel collo bianco.
Uriah le avrebbe uccise tutte, qualunque fosse stata la loro risposta.

«Basta, Donna.»

La mano di Uriah si allentò quando, finalmente, Susan aprì bocca.

«Come dite?» Chiese, ispido.

La piccola e fragile donna sollevò con cautela lo sguardo su di lui, sfidandolo nell'orgoglio inflessibile. Era una povera contadina, eppure aveva l'onore di una regina.

"Voi avete ragione: io, mia sorella e le sue figlie siamo streghe. Il nostro intento era avvelenare questa città e rubarvi ogni ricchezza. Io stessa ho incantato un uomo per questo scopo.»

Uriah gettò a terra la bambina, lasciandola precipitare senza gentilezza. Si rialzò e si sistemò i vestiti eleganti, rivolgendosi ai suoi uomini, messi in moto con un solo gesto.

«Sottoscrivete la loro confessione: verranno giustiziate all'alba insieme all'altra prigioniera,» ordinò, mentre le quattro venivano slegate dalle sedie e strattonate verso l'uscita.

«La pena, mio signore?» Domandò Gerald, prendendo il coltello dalle mani di Uriah.
Sembrava stessero parlando del tempo.

«Manderemo al rogo le donne, mentre le bambine le getteremo nel fiume – da ora, voglio che iniziate a dar loro l'oppio: le urla dei bambini provocano pietà e non piacciono alla gente.»

Gerald annuì, cauto. «Certo, mio signore.»

L'uomo salutò l'uomo con un movimento del capo, poi uscì, lasciandoci soli dentro la stanza. Io dovetti sforzarmi per trovare la forza di rimettermi in piedi ed abbandonare la mia sedia sicura. Sentivo male al petto e le gambe mi tremavano, facendomi credere che avrei potuto vomitare da un momento all'altro.

«Uriah,» chiamai, sconvolta.

Lui restò immobile, continuando ad ignorarmi con lo sguardo.
«Credevo voleste conoscere il mio lavoro,» puntualizzò lui: «ve ne ho dato un dolce assaggio.»

I suoi occhi mi squartarono come lame, bloccandomi in quelle sfumature di rosso innaturali. In quel momento, e solo in quel momento, mi resi conto che Elias non era con noi. Quello dopo, invece, scoprii la debolezza delle labbra feroci di Uriah sulle mie.
Stringendomi il collo, mi aveva costretta contro il muro e là continuò la sua violenza.

Dentro la mia mente, furono numerosi e mutevoli i pensieri ma, al di fuori, il mio corpo rimase immobile. Conoscevo i tormenti di Uriah, così come il desiderio concentrato sui polpastrelli delle sue dita: ne avevo memoria e ne avevo esperienza, perché erano le stesse emozioni che avevo spesso intravisto in Adam.

Fu come tornare al passato, come tornare nella mia vecchia casa nelle notti oscure in cui sapevo sarebbe accaduto qualcosa che non mi sarebbe piaciuto. Era terribile voler urlare ma non avere voce o il voler scappare ma non possedere vie di fuga.
Intrappolata nel mio stesso corpo, avevo iniziato a farmi del male: graffiavo e sradicavo la mia pelle, liberando, di ferita in ferita, la mia anima da quella prigione di carne. Credevo – ero certa – che solo smettendo di avere quel volto, di essere me, anche il dolore sarebbe finito.
Il bacio di Uriah mi ricordò quanto fosse impossibile.

«Basta,» sentenziò lui stesso, ad un certo punto. Si allontanò da me, e mi guardò mentre si sistemava i capelli biondi sulla fronte. Io mi guardavo i piedi, ma era lo stesso: entrambi sapevamo cosa ci stesse passando per la mente e ci condannavamo.

La voce di Uriah vacillò: «Ophelia, io-»

«Lo so,» lo zittii, flebile.

Ricambiai il suo sguardo, insolitamente vivido. Si vedeva che era confuso e non si spiegava ciò che aveva fatto, ma poco mi importava il suo malessere: ero così stanca di essere la scusa di qualche uomo di poco carattere.

«Sono stanca,» dissi, mentendo spudoratamente: «torno nelle mie stanze.»

Uriah non mi rispose, né fiatò, lasciandomi andare sola.
Nel corridoio vuoto, si sentivano solo i miei passi sordi e leggeri. Piano, iniziarono a confondersi con le lacrime, prima piano, poi sempre più forte e incontrollate.

Quando mi chiusi la porta della mia camera da letto alle spalle, scivolai a terra e mi portai le mani al volto, volendomi nascondere dal mondo.
Ma ancora non esisteva maschera capace di cancellare il passato.

Angolo

Buongiorno a tutti!

Nuovo capitolo...un po' strano!
Uriah ha baciato Ophelia, per quanto sia stato davvero un momento insolito...cosa ne pensate del personaggio del ragazzo?

Detto ciò, probabilmente diminuirò la frequenza dei capitoli così da dare il tempo a tutti di leggerli senza rimanere troppo indietro❤️ in teoria, ogni 2/3 giorni :)

Detto ciò, spero che il capitolo vi sia piaciuto e di sapere cosa ne pensate, mi farebbe davvero piacere!

A presto,
Giulia

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