Come il cielo a mezzanotte

By NyxEcate

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Leggende raccontano che gli dei, all'alba dei tempi, separarono le anime gemelle, gelosi di queste ultime. Il... More

Prologo
01. A nessuno piacciono i ratti
02. Corsi differenti
03. Pura poesia
05. Sempre un mistero
06. Profumo di Gardenia
07. Marshmallows
08. Paranoia silenziosa
09. Il mare senza di te
10. " Di rosso e celeste neanche il diavolo si veste "
11. " Sei meraviglioso ora, domani e per sempre "
12. Stellato
13. Insignificanti
14. Sono una distesa dorata
15. Ciò che non sai di me
16. Questo
17. Una spaccatura nel vetro
18. Le emozioni non sono per bambini
19. Come scogliere d'argilla
20. Quello che i bambini non dovrebbero provare
21. Nascondere
22. Non abbandono nessuno
23. Urgano
24. Il prima è sempre doloroso
25. Non c'è due senza tre
26. Come due anime si abbracciano
27. La strada
28. Piccoli sorrisi
29. Fidanzato?
30. Non oggi
31. Sbagliato
32. Il tuo pappagallo
33. Ringraziamento
34. L'inizio
35. Quando accadrà
36. Coraggio
37. Come un sogno
38. Come il cielo a mezza notte
Epilogo

04. Piccoli riti

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By NyxEcate

Richiudo la portiera dell'auto, alle mie spalle Naomi riparte verso casa sua. La fresca brezza di questa mattina è scomparsa, al suo posto il caldo torrido è ritornato.

Naomi ha apprezzato molto casa di Tommy, affermando che il giardino di quest'ultima è di sicuro fra i più belli del nostro paesino.

La cittadina in cui abito si trova appena fuori San Francisco e spesso, in estate soprattutto, qui si riempie di turisti.

Non è esageratamente grande come cittadina, ma abbiamo un hotel e tutte le infrastrutture necessarie. Manca l'università, ma a quello rimedia la vicinanza con San Francisco.

Mio padre lavora presso l'hotel, è stato da poco promosso aiutante capo cuoco. La mamma invece, da sempre si occupa di un piccolo negozio di giardinaggio. Entrambi fanno turni pomeridiani lasciandomi casa libera per buona parte della giornata.

Tiro fuori le chiavi dallo zaino e le infilò nella toppa del cancello, entro e lo richiudo alle mie spalle. Ho sempre amato il nostro piccolo giardino, circonda l'intera casa come se essa si ambienti perfettamente fra la natura.

Spesso, nei momenti di calma assoluta, mi siedo in veranda e osservo l'orizzonte o scatto foto ai piccoli esseri viventi che popolano la terra.

Salgo in veranda e mi sventolò una mano in faccia, fa veramente caldo e questi jeans non aiutano. Apro la porta d'ingresso, poso le chiavi nel piccolo piattino e accendo il condizionatore. Sospiro e mi fiondo sul divano.

Casa mia è una delle tipiche villette americane, due piani, tre camere da lette, un soggiorno, una sala da pranzo ed una bella cucina spaziosa. I miei genitori hanno sempre accumulato soldi, preferendo la stabilità economica a viaggi costosi e spese inutili.

Complice il mio carattere e la loro assenza, ho sviluppato la capacità di sorvolare sulla loro mancanza, trasformando la solitudine in tranquillità.

Ogni giorno ho dei piccoli riti che compio inconsapevolmente, un po' per abitudine, un po' per sentirmi parte di questo luogo, ed ingenerale della mia vita.

Tutti abbiamo bisogno di un posto da chiamare casa, non un luogo, bensì tutto ciò che vi è legato attorno. I piccoli rituali quotidiani che faccio mi tengono ancorata a questa casa.

Buttarmi appena entrata sul divano, fare una doccia e dover uscire dal bagno per prendere i vestiti, preparare il cibo sul tavolo, andare in bagno, e solo dopo iniziare a mangiare. Sono piccoli gesti, ossessioni forse, di cui non posso far a meno.

Salgo in camera afferrando il corrimano delle scale. Fin da piccola ho avuto l'abitudine di sostenermi a qualcosa. Odio cadere, odio rialzarmi, stringere qualcosa che me lo impedisca mi infonde sicurezza.

Mi godo il silenzio della casa, entrando in camera mia, desolata come sempre. Prendo dallo zaino una delle mie pillole e nascondo il resto dentro ad una delle tasche.

Cambio velocemente i jeans con un paio di pantaloncini, decisamente più comodi, e prendo un'altra maglia pulita. Voglio andare da Tommy, devo sapere come sta.

Esco di casa e richiudo tutto. Il tempo è volato, sono uscita da scuola ben un'ora fa; chissà se Tommy è già a casa... nel caso chiederò a Kim di avvisare.

Cammino per strada sentendo quasi il caldo dell'asfalto sotto la suola delle scarpe, lascio cadere le chiavi nella tasca dei pantaloncini e con un elastico mi lego i capelli in uno chignon.

Se Emily mi vedesse ora si metterebbe ad urlare. A detta sua, il mio senso dello stile è inesistente, sotterrato da anni e anni di menefreghenza.

Poco m'importa; al diavolo lo stile, voglio stare comoda, non soffrire di caldo.

Il sole arde sulle mie braccia, che splendida sensazione. Sorrido al cielo chiudendo gli occhi. Apro le braccia e mi lascio abbracciare dalle morbide onde di luce che il sole mi regala.

Adoro la luce, ed adoro il buio. Vivo perché coesistono, sono grata alla luna perché fa riposare il sole, sono grata alle stelle che gli tengono compagnia, sono grata al cielo perché mi contiene.

Le guance iniziano a dolermi, ma non smetto di sorridere. La gente deve prendermi per pazza, ma la vita è una e io non voglio lasciarla scappare. Voglio tenerla per mano e correrci insieme.

A volte mi chiedo se la maggior parte dei miei comportamenti siano conseguenti al mio disturbo della personalità; finisco sempre per pregare che la realtà non sia tale.

Non voglio che le mie caratteristiche più peculiari, quelle piccole azioni che mi rendono Kathryn; siano definite da una malattia.

Mi sentirei derubata se un giorno mi risvegliarsi normale, anche senza disturbo, non sarei comunque normale; non mi piace esser normale. Che poi, come mia nonna spesso dice, non esiste nulla di normale, siamo tutti diversi gli uni dagli altri, tutti uguali nella facciata che mostriamo in pubblico.

Solo alcuni, quelli che spesso vengono definiti gli strani, hanno la forza di non mostrare una facciata, di esser diversi in pubblico.

Vorrei appartenere a quella categoria, ma purtroppo non ne ho il coraggio. Riesco ad esprimermi solo quando sono in un ambiente confortevole e famigliare, quando non mi sento minacciata o semplicemente sono troppo accecata dalla rabbia.

Sono rare le occasioni in cui riesco a lasciarmi andare, di mia spontanea volontà, in presenza di altre persone. Immagino che la paura d'esser etichettata come pazza mi tenga freno.

Nessuno deve mai scoprire del mio segreto, non voglio e non posso sopportarne il peso di fronte a tutti. É più facile mentire.

Abbasso le braccia e riprendo a camminare. Sono arrivata. Suono al campanello, ad aprirmi è un'anziana signora.

«Buongiorno, presumo lei sia un amica di Tommy? Io sono la governante». Si fa subito da parte e mi fa cenno di entrare. «Prego, i signori Robinson non sono in casa al momento»

Guardo in modo strambo la signora, fin troppo rigida per i miei gusti. Non ho fatto in tempo a dire nulla ma lei ha subito presupposto che io fossi un amica di Tommy, e se così non fosse stato? Avrebbe fatto entrare in casa una sconosciuta, una persona potenzialmente pericolosa.

Anche se dubito che qualcuno sano di mente, di fronte a lei, abbia il coraggio di entrare senza invito. La donna sembra spaventosa, grossa come un armadio e vestita da cameriera.

Decido di cancellare ogni pensiero, scegliendo l'opzione più logica: Dominic e Kim devono averla avvisata del mio arrivo e quanto meno mostrato una foto.. anche se non mi spiego come loro possiedano una mia foto.

Alla mie spalle la donna robot chiude la porta, e cammina lungo il corridoio.

L'aspetto della casa rispecchia perfettamente l'esterno e quel poco di carattere che sono riuscita a scoprire dei due coniugi. All'ingresso, proprio sotto i miei piedi, c'è il classico tappetino ruvido per pulire la suola delle scarpe, di fianco un attaccapanni vuoto ed una scarpiera.

Le mura sono azzurrine mentre il pavimento sembra parquet. Provo a pulirmi la suola delle scarpe alla bell'e meglio poi, seguo la signora.

La governante senza nome mi fa' cenno di entrare in una larga stanza priva di porta; al suo posto una magnifica arcata concede l'ingresso.

É un salotto, spazioso ed elegante come il resto della casa. Nonostante l'armonia presente nella stanza, l'area che emana è alquanto accogliente e gioviale.

Sono sollevata di scoprire che la nuova casa di Tommy sia tanto perfetta.

Il soggetto dei miei pensieri è seduto al centro della stanza, sta facendo i compiti. «Ehi moscerino, ti hanno già messo al lavoro?».

«Kath!». Mi salta incontro e si aggrappa alle mie gambe, alza la testa e si mette a ridere. «Sembri un clown»

«Owch, questa ha fatto male». Mi porto una mano sul cuore e faccio una finta smorfia sofferente, Tommy alza gli occhi al cielo ma continua a ridacchiare.

«Allora.. cosa hai fatto in questi giorni senza di me?». Lo scosto leggermente e lui mi fa sedere sul divano per poi piazzarsi davanti a me.

«Ieri ho visitato un po' il vicinato-».

«Da solo?». Alzo un sopracciglio interrompendolo, lui frettoloso scuote la testa.

«Oh no, a pranzo abbiamo mangiato dai vicini qui di fronte, dopo Dominic ha chiesto un favore al loro figlio. Kim e lui sono dovuti andare al lavoro, quindi, è stato il figlio dei vicini a mostrarmi il quartiere». Rilascio un sospiro di sollievo, le spalle però sono ancora tese, come una corda di violino.

«Ti ha trattato bene?».

«Oh, sì benissimo. È mio amico ora, ha promesso di giocare con me a palla nel parchetto».

Assottiglio lo sguardo e poso le mani sulle sue spalle. «Tommy...», la netta sensazione che il presunto "figlio dei vicini" fosse un maniaco si infilò nelle mie vene come veleno. «Quanti anni ha questo tuo nuovo amico?».

«Oh, penso abbia la tua età». La sua voce candita e infantile rilassa un po' i miei muscoli tirati, sciolgo le spalle e tolgo le mani dalle sue. Sto diventando troppo paranoica.

«Ti piace il quartiere?»

«Si, molto! Siamo arrivati solo al parco, ma gli ho chiesto se la prossima volta possiamo esplorare tutto; voglio vedere dov'è casa tua»

Dubito che il suo vicino conosca la posizione di casa mia, ma mi astengo dal dirglielo.

«Puoi venire direttamente con Dominic e Kim» guardo il suo viso illuminarsi pian piano, Tommy è l'unico in grado di produrre un espressione così bella. «Oltre a questo vicino ti sei fatto anche altri amici?»

«Sono arrivato da poco, quindi non so' se ci sono altri bambini nel quartiere, però ho fatto amicizia con il suo cane, è bellissimo»

«Se non ricordo male anche Kim e Dominic hanno una animale, giusto?»

«Oh, si. É un pappagallo molto antipatico. Urla tutto il giorno e impreca se qualcuno gli si avvicina, immagino lo abbia imparato dalla donna delle pulizie.. meglio se non lo svegliamo»

Il bambino si lamenta come se il piccolo animale fosse sceso in terra solo per tormentarlo.

Ha preso il suo tratto drammatico da me, sono proprio fiera di lui.

Rido e gli arruffo i capelli, beccandomi una manata da lui.

Scosto lo sguardo sulla stanza e mi soffermo sui quaderni ancora aperti. «Com'è andato il primo giorno di scuola?».

Il suo sorriso per un attimo mi sembra vacillare, sposta lo sguardo dalle mie pupille e lo porta sulle sue piccole dita. «Bene», mente.

«Sicuro?».

«Si, è solo molto diversa da quelle del orfanotrofio e mi mancano tutti gli amici che avevo lì». Tutti i ragazzi del Doons erano obbligati a frequentare la scuola pubblica del paesino li vicino. Non ne so molto ma, quando ne parlano si incupiscono sempre.

L'espressione di Tommy sembra sicura, determinata a convincermi, ma una pessima sensazione mi si posa sulla pelle scoperta. Affonda sempre più in profondità, fino allo stomaco dove ferma la sua infezione e mette radici. Non mi convince del tutto.

Per il momento mi scrollo dalle spalle il pessimismo, e mi avvicino ai compiti ancora incompleti. Forse è solo difficile ambientarsi in una nuova scuola, imparare di nuovo a vivere senza tutti i bambini dei Doons.

«Lo sai vero che se dovesse succedere qualcosa ti basta chiamarmi e verrò ad aiutarti? Sarò sempre al tuo fianco Tommy, indipendentemente da quello che stai attraversando»

«Grazie» gli dico sincera. Non potrei mai ferire questo bambino in alcun modo, il nostro legame è speciale, siamo una famiglia oltre i confini di sangue.

Tommy mi sorride grato, donandomi uno di quei sorrisi che tanto amo, anche se tutti sono belli.

La prima volta che ha sorriso di fronte a noi era ben due mesi dopo esser arrivato. Non abbiamo modo di sapere se in mia assenza, o in privato, avesse sorriso, ma ci sono alte probabilità che ciò non fosse accaduto.

Era un pomeriggio sereno come molti, il sole batteva tiepido sui mattoni del Doons e i ragazzi al suo interno si stringevano fra loro per cercar calore. Era inverno e il riscaldamento della struttura era rotto.

Io ero tornata dal villaggio lì accanto con un casto pieno di coperte. Io e Alex abbiamo coperto uno ad uno i bambini, lasciando le due coperte più grandi per ultime.

Tommy, che ancora parlava a fatica, mi era salito in braccio, mettendosi fra me e Alex. Il resto dei bambini ci circondarono, così decidemmo di posare le due grosse coperte su tutti noi.

Abbiamo passato la giornata abbracciati, raccontandoci storie per tenere calda l'atmosfera e gli animi.

La signora Taboltt aveva persino portato della cioccolata calda a tutti. Quando, guardando una delle finestre, le gemelle hanno urlato «Neve»; c'è stata poco speranza nel trattenere i bambini al caldo.

Si sono tutti lanciati in una battaglia a palle di neve, tutti tranne il piccolo Tommy.

Io e Alex lo abbiamo preso per mano, decidendo di aiutarlo con un gioco meno violento: la creazione di un bellissimo pupazzo di neve. In un secondo momento anche gli altri bambini si sono uniti a noi, aiutandoci nella creazione del nostro piccolo nuovo amico.

L'abbiamo chiamato Larry, un pupazzo di neve al quanto particolare. Era composto da ben quattro parti, due delle quali coperte da un cappotto rosso. Gli avevamo messo un cappello a forma di cilindro in testa, qualche bottone per gli occhi e una bella carota per il naso; faceva davvero ridere.

I bambini erano davvero su di giri, ridevano e scherzavano di continuo. Alex, facendo il buffono come al solito, si era posto dietro al pupazzo, imitando una roca e calda voce.

Aveva girato di poco la testa del pupazzo, in modo da scrutare tutti i bambini, poi si era fermato su Tommy. Mi ricorda ancora quello che disse: «Giovanotto, perché non vedo alcun sorriso? I miei bottoni si stanno sciogliendo per la tristezza, pensavo d'esser dolce e ben voluto a tutti, non è forse così? Perché non me lo fai un sorriso? Larry si sciogliendo dalla tristezza» Alex aveva finito con un tono supplicante e drammatico, togliendo un po' di neve al pupazzo per simulare lo scioglimento.

Tommy a quel punto, sorprendendo tutti, aveva ridacchiato, sorridendo con quello che mi era sembrato il sorriso più luminoso del mondo.

Non dimenticherò mai quel giorno.

Sorrisi al ricordo, riportando l'attenzione su Tommy.

«Vuoi una mano?». Il ragazzino si gira verso di me grato, e salta sul posto protendendo le mani verso il mio corpo, come in un abbraccio alla lontana.

«Sei la migliore Kath».

Passammo il pomeriggio così, fra compiti, risate e biscotti. Quando sentii i Robinson rincasare, mi resi conto dell'orario.

Ormai largamente in ritardo li salutai e corsi a casa. Stasera c'è un altra importante cena in famiglia, il telefono segna le sei e io non mi sono minimamente preparata.

Cammino rapida sul piccolo selciato del giardino e salgo in veranda, appoggio la mano sulla porta per riprendere fiato, ma questa si apre da sola. Di fronte a me mio padre, rosso di rabbia, urla contro qualcuno dentro casa. Non sembra avermi notato, il volto completamente girato verso qualcuno, le vene pulsanti sul collo e la mascella serrata.

Sporgo di poco, incerta, la testa oltre lo stipite della porta, il fiato mi si mozza in gola alla vista di mia madre in lacrime. Tutto gira quando in un impeto di desolazione lei prova ad afferrare la mano di mio padre, ma lui si scansa provando ad uscire di casa.

La sua mano è ancora attaccata alla maniglia quando il suo corpo cozza con il mio, ferma e tremante, lo osservo.

I suoi occhi si spalancano e fa un passo indietro, come a voler nascondere la mamma, o la loro lite. Lei si accorge di me e grosse lacrime le scendono dagli occhi rossi. «Oh tesoro non è come sembra, non è successo nulla».

La voce di Grace trema, debole e ferita come la proprietaria. Trattengo le imprecazioni, stringendo le mani in due pugni e fissando lo sguardo negli occhi sorpresi di mio padre.

Robert si gira verso di lei e le lancia un'occhiata di fuoco ma, quasi con un espressione di amarezza, si gira verso di me. Apre bocca, come per parlare, ma non ne esce suono. Si passa una mano sul viso, sui folti capelli neri poi, sbuffa; lo fa come se in un singolo gesto, nella liberazione di quell'aria pesante che ci avvolgeva, potesse liberarsi da un peso.

Si libera agile, da quella piccola gabbia che abbiamo creato con i nostri corpi, e si siede in veranda, la testa fra le mani ed il volto desolato.

Mi volto verso mia madre e la ritrovo appoggiata al piccolo mobiletto che ospita il piattino delle chiavi, gli occhi chiusi ed un'espressione sofferente sul volto, specchio di quella di mio padre.

Nonostante la situazione lei non sembra arrabbiata con lui, tutto il contrario.

Confusa, li guardo entrambi per un ultima volta, non sembrano volermi dare spiegazioni. La rabbia ribolle nelle mie vene, trattengo il fiato e a grandi falcate salgo in camera mia, sbattendo la porta con irruenza. Mi rannicchio vicino a questa, e abbasso la testa fra le ginocchia.

Le mani tremano, la bocca si secca. Le urlano lottano per uscire, il caos si trasforma in tsunami, s'infrange con irruenza, spingendomi passo dopo passo verso l'abisso.

Sfrego le mani tra i capelli ed inchiodo gli occhi alla strada, oltre la finestra. «Frenalo Kath, frenalo...».

Il respiro si velocizza, le mani stringono convulsamente le ciocche fucsia sulla nuca. Stringo le labbra, e provo ad impedire l'entrata dell'aria nei polmoni.

Sta succedendo di nuovo, e io non riesco a farci nulla. Odio questa sensazione d'impotenza, odio tutto.

Riporto le mani sulle braccia e le stringo in una morsa di ferro. Lentamente scivolano, come lacrime, lasciano segni rossi e una leggera sensazione di bruciore sottopelle.

Mi fa male la lingua, piccole goccioline di sangue trapelano dalle mie labbra quando la mordo troppo. «Frenalo Kath, frenalo...».

Con la poca forza che mi rimane riesco ad afferrare le pillole dallo zaino, mandandone un paio giù a secco.

La gola brucia ancor di più, chiedendo pietà e aria che ostinatamente mi rifiuto di cedere.

Mi sembra di percepire la stanza girare intorno a me. Sospiro, pregando che le pillole facciano effetto presto. In momenti come questo avevo sempre mia nonna ha farmi forza.

La famigliare sensazione d'esser acqua prende il sopravvento. Mi ritrovo sola e arrabbiata; sono onde e acqua, sono il mare e mi sbatto infuriata.

Sento le onde scontrarsi con gli scogli, provocandomi un mal di testa lanciante. Provo a trattenere il respiro un'altra volta, ma non funziona.

Guardo per un ultima volta il cielo scuro, è sempre lì ma nessuno lo guarda. Osservarlo mi calma sempre.

Gli occhi si chiudono, lentamente cado: cado di nuovo, e non mi rialzo.

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