Segreto

By MartinaBee

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Rebecca è superficiale, infantile ed annoiata: nella vita, non ha mai lottato per nulla, tanto meno per amore... More

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By MartinaBee

Non avevo paura, non ero agitata per quello che stava per succedere.

Era tutto sotto controllo, tranquillo, certo e sicuro come la morte.

Era stato tanto atteso, anelato, era tutto ciò che volevo, tutto ciò che avevo cercato e, fino a quel momento, non avevo mai trovato.

Sapevo che era inevitabile, non potevamo rinunciare a noi stessi e a tutto quello che eravamo insieme, voltando le spalle alla cruda, ineluttabile realtà che conduceva me tra le sue braccia e lui ad abbracciarmi con passione e trasporto come se quell'abbraccio fosse l'ultimo.

Forse, mesi prima, quella fredda notte di marzo, avremmo potuto negare noi stessi, ma non ora, non dopo tutto quello che avevamo passato, non dopo esserci privati di quell'amore per il quale avevamo sofferto, pianto e sanguinato, non dopo aver rinnegato la verità, dopo aver lottato così a lungo per non affermare i nostri veri sentimenti senza nome. Non dopo esserci ritrovati in quella stanza, senza averlo programmato, quasi la vita avesse ordito una strana e contorta trama, per portarci proprio lì, proprio in quel momento.

La notte era nera come un manto steso sulla città oscura e, dalle finestre chiuse, il mondo ci arrivava solo in lontananza: dentro a quella stanza c'eravamo solo noi, pochi fruscii, pochissime parole, con sguardi che gridavano forte ciò che non ci saremmo mai detti. Sospiri, ansia, tensione, attesa, timore, curiosità, sicurezza, la sensazione che qualcosa stesse per succedere, ma non sapere come comportarsi, unita alla certezza che quello che stava per succedere era ineluttabile.

Mi sembrava di vivere dentro ad un sogno, in un posto incantato che non esisteva davvero, anche se per arrivarci non avevo altro da fare che guardare quei suoi grandi occhi profondi e perdermici dentro, perché in quegli occhi meravigliosi vedevo me stessa, lui e noi due insieme, vedevo tutta la mia vita per come poteva raccontarmela lui, per come poteva vederla in quel mondo magico ed irreale che aveva creato intorno a me, incantesimo impossibile e fragilissimo.
I suoi occhi mi narravano una storia segreta, che non era una favola, ma era la descrizione perfetta del momento che avevamo sognato a lungo e ora, incredibilmente, stavamo vivendo.

Era alla lettera un sogno strabiliante: era lì, era con me, come doveva essere fin dal primo momento e, al tempo stesso, era anche reale, perché Diego, il mio magnifico, adorato Diego, aveva quel raro potere di rendere tutto dannatamente sospeso e concreto, al tempo stesso una favola magica, ma anche una concreta verità, che sentivo, toccavo, assaggiavo, ne sentivo il profumo, ne sfioravo la consistenza.

Rendeva tutto irreale, tutto bellissimo, rendeva possibile vivere attraverso quell'amore senza nome, guardarlo e non avere più alcun dubbio, come se, veramente, fosse per noi l'unica decisione che potessimo prendere. Rendeva possibile vivere di quell'emozione, arrendersi a quell'abbraccio incandescente, perdermi in lui, credere, ancora, anche solo semplicemente perché il suo amore mi faceva vivere quel momento sospeso, quell'abbraccio che mi portava oltre a tutto, fuori da quella stanza, oltre alle nuvole, sopra al cielo, dove potevo vedere il mondo e la mia vita come se fossero lontani ed inconsistenti.

Rendeva possibile perdermi in un vortice di emozioni che non avevano un filo conduttore e passavano dallo sbigottimento fino alla felicità più elevata, senza nome.

E, al tempo stesso, rendeva possibile farmi sentire tutto: il profumo della sua voce, la musicalità della sua pelle, ogni muscolo teso, il suo respiro leggero sul collo che mi faceva rabbrividire, le mani dalle dita lunghe, il modo che aveva di stringermi, quasi volesse entrarmi dentro, diventare parte di me: quello non era un semplice, sciocco abbraccio, perché entravo dentro di lui, entrava in me e, insieme, diventavamo una cosa sola.

Non era spiegabile, non era comprensibile e non potevo trovare le parole per dirgli che non potevamo fare altro che andare oltre quell'abbraccio, perché lo volevo e lo voleva anche lui.
Era qualcosa che superava la semplice passione o l'attrazione fisica, andava ben oltre alla follia di un attimo di appagamento: gli davo il mio cuore, mi arrendevo, ero sua, lo sarei stata per sempre, anche se avevo la spiacevole sensazione che quel momento sarebbe durato un attimo e, per quell'attimo dannato e benedetto, avrei pagato per il resto dei miei giorni.

Sciolse l'abbraccio e si distanziò da me di qualche centimetro, sempre senza distogliere lo sguardo, puntando su di me i suoi occhi grandi, ravvicinati, che gli davano un'espressione intensa, drammatica ed intelligente, mi accarezzò una guancia, scostò i miei capelli su un lato e prese a baciarmi il collo, in una collana di baci lenti che mi fecero rabbrividire e sussultare, se ne accorse e si trattenne per qualche secondo, un minuto, forse due, o, forse, per qualche anno, non avrei saputo dirlo, ma sentì il mio brivido e mi strinse più forte, come per dirmi che non dovevo avere paura, che era naturale, che dovevo fidarmi di lui, abbandonarmi, crederci.
Reclinai la testa, offrendo tutta la gola ai suoi baci, che erano lenti, erano dolci, erano appassionati, erano lì, su di me, per farmi capire che non potevo dire di no.

Erano baci nati per essere baciati su di me.

Le sue mani mi accarezzavano lente ed insistenti i capelli, la nuca, le spalle, si facevano spazio tra le mie dita affusolate e si intrecciavano tra di loro come anelli di una catena di carne e sangue.

Prima che potessi rendermene conto, salì lentamente dalla gola fino al mento e poi le sue labbra erano sulle mie, erano lì per baciarmi di un bacio passionale, mozzafiato, un bacio che mi colse di sorpresa, che aprì il mio cuore, mi fece sentire, per l'ennesima volta, disarmata di fronte a ciò che provavo nei suoi confronti, perché, ancora, per l'ennesima volta, riusciva a darmi sempre di più, anche quando non mi dava nulla, la sua sola assenza bastava ad uccidermi, la sua presenza a darmi vita, ad illuminare la strada verso il paradiso e io, con gli occhi chiusi, le nostre labbra una cosa sola, le lingue intrecciate, bevevo la sua saliva, si nutriva della mia, morivo mille volte di mille morti dolorose e ancora mille, di nuovo e ancora e ogni volta era sempre peggio, perché mi cadevano le braccia, il cuore e l'anima mia intera.

Non mi ritrassi, ma ricambiai quel bacio inatteso e tanto aspettato, con tutto l'amore che sentivo per lui, che era troppo forte, mi abbagliava, mi rendeva inerme, perché non avrei mai potuto dirglielo a voce, quindi quello era l'unico modo per farglielo capire.

Era terribile, era spaventoso, era doloroso ed appagante al tempo stesso, ma era anche il momento più vero ed intenso che avessi mai vissuto in tutta la mia vita, quasi mi avesse preso per mano per insegnarmi a camminare, a respirare, a vivere.

Era un bacio lento, indagatore, che voleva esplorarmi piano, senza fretta, sentii le sue mani giocare tra i miei capelli, a disegnare complicati nodi che non avrei sciolto mai più, sentii le sue lunghe ciglia accarezzarmi le guance, sentii con la punta delle dita il profilo della sua mascella, bruciandomi i polpastrelli con la barba appena accennata, le sue mani che mi toccavano l'anima e mi facevano soffrire, sentii il suo profumo fortissimo che ormai era una droga, una condanna, una sfida che avevo sempre perso, sentii la sua vita attraverso la mia, la mia attraverso la sua.

Era un bacio che mi cambiava la vita, ancora più di quello che ci eravamo scambiati solo qualche mese prima, perché non era istintivo e disperato, non era rubato, ma era atteso e voluto, non c'era nulla di sbagliato, di rinnegato o frettoloso, non era un bacio strappato di notte dopo qualche drink di troppo, non c'era frustrazione né rimpianto, era consapevole, era insieme cuore e ragione, che era una combinazione impensabile, eppure come frutto dava quel bacio tanto atteso, che avevo sognato per tante notti e che, ormai, mi pareva di essermi solo sognata.

E invece ora era un bacio concreto, sensuale, che mi restituiva tutta la vita a cui avevo rinunciato per mesi, qualcosa da cui non potevo sfuggire, ma semplicemente esserne avvinta per l'eternità, talmente reale da fare quasi male.

Le sue mani abbandonarono i miei capelli e le sentii scivolare sulla mia camicetta leggera, sentii le sue dita sul tessuto, delicate come gocce di rugiada sulle foglie, nel fruscio di una mattina di primavera, un sorriso sul cuore il suo lieve tocco che liberava i bottoni dalle asole e mi chiesi se stessi sognando tutto, se avesse reso l'atmosfera così incantata che, in realtà, stavo solo sognando ad occhi aperti.

Ma sentii i brividi quando mi sfilò la camicetta e pensai che, nei sogni, non esistevano brividi simili.

Mi staccai di scatto, sorpresa e interdetta.

Non ero in grado di dirgli nulla, perché solo il guardarlo mi toglieva tutte le parole, mi lasciava inerte e spossata. Potei solo scuotere lentamente la testa, non per dirgli no, ma per fargli capire che quello che stava succedendo non mi sembrava vero.

Non riuscii a leggere la sua espressione, ma vidi che era sereno, era deciso, sicuro, come mai l'avevo visto prima. E anche io ero tranquilla, forse un po' intimorita perché mi rendevo conto di quello che stava succedendo, sapevo che non potevamo evitare di cadere l'uno dentro l'altro: era nel nostro destino, nei nostri sensi, era scritto e niente al mondo avrebbe potuto cambiare il corso delle cose.

Presi i lembi della sua maglietta e gliela feci passare sulla testa, scompigliandogli ricci che non erano mai stati in ordine, baciai sulla punta delle labbra il suo tatuaggio, che mai come in quel momento mi sembrò ancora più oscuro e pieno di significati: c'ero io, dentro, ma c'era anche la ragione che ci voleva separare, se fossi riuscita a togliere la "r" della ragione da quel tatuaggio, sarebbe rimasta solo Rebecca e nessuno ci avrebbe separato mai più. Quel tatuaggio racchiudeva noi due, era l'espressione più forte di ciò che ci aveva portato lì, ad un passo dall'essere una cosa sola, un pensiero solo, un essere unico, che travolgeva tutto, annientava tutto, rendeva possibile tutto.

Rimasi sorpresa dalla sua pelle color latte, talmente chiara e quasi trasparente che rendeva ancora più grandi i suoi occhi fissi su di me, sfiorai con la punta delle dita il tatuaggio e il profilo adorato del suo viso che non era bello per il mondo, ma bellissimo per me, toccando ogni cellula, ogni centimetro di pelle, sentendo i suoi brividi, sentendo che mi voleva, che non voleva nient'altro al mondo oltre a me, che non me l'avrebbe detto mai perché non poteva, ma ciò che ci legava era il sentimento più forte che avessimo mai vissuto. E io non volevo avere nessuno, oltre a lui: non potevamo tornare indietro, ormai c'eravamo spinti troppo avanti, non potevamo cancellare quel momento neanche se mai l'avessimo voluto.

E non volevo, ne ero certa.

Ma non lo voleva neanche lui, perché si sporse verso di me, soffiò sulla mia bocca e mi fece stendere sul letto ancora disfatto, tra le lenzuola che ancora profumavano di lui. Mi salì il cuore in gola, perché ora davvero era troppo tardi per dire di no, troppo tardi per pensare a qualcos'altro, a qualcun altro. Non potevo pensare ad Alessandro, non in quel momento, non potevo pensare a nessuno, a parte Diego.

-Sei sicura? - mi sussurrò nell'orecchio, chinandosi su di me come per coprirmi, cercò il mio sguardo, cercai i suoi occhi, quasi aggrappandomici, lo accarezzai piano e mormorai, in un soffio:

-Sì. E tu? - avevo paura della sua risposta e mi bloccai, sospesa nell'aria come una bolla di sapone.

-Non sono mai stato più sicuro di così – disse baciando la punta delle mie dita, quasi in quel bacio traesse fiato per respirare ancora.

Chiusi gli occhi, col cuore che scoppiava felicità: non aveva tentennato, la sua risposta era stata salda e sicura, come l'uomo che avevo di fronte, un uomo che non aveva dubbi, che mi guidava nella notte buia prendendomi per mano, che illuminava la mia vita, che mi travolgeva con baci e carezze, un uomo a cui bastava dirmi di sì per far crollare tutte le mie certezze, per farmi sentire leggera e pronta a tutto; pronta a dargli la mia vita, il mio cuore, ogni cosa, ero pronta a tutto, anche a morire per lui, perché aspettare era stata la cosa più difficile e, nell'attesa, mi ero quasi uccisa. Non c'erano più i dubbi dei mesi precedenti, non c'era il diniego e il rifiuto, non sarebbe sparito, non se ne sarebbe andato gettandomi ancora nello sconforto, ancora nel buio, un'altra volta: questa notte sarebbe rimasto con me e non solo per qualche minuto, avrebbe dato un senso ai miei giorni, avrebbe detto sì, sarebbe rimasto al mio fianco e, di fatto, quella era l'unica cosa che davvero importava.

Era lì, occhi negli occhi, le sue mani su di me, il suo fiato sul mio collo, i nostri brividi mischiati, le nostre vite unite per sempre.

E non c'erano altri occhi, non c'erano altre mani, non c'era altro fiato, non c'erano, nel mondo, altri brividi paragonati a quelli.

Se avessi potuto scegliere, sarei scappata via, perché sapevo che quell'amore era troppo forte e doloroso, mi avrebbe solo fatto male, mi avrebbe trascinata all'inferno, consumata e distrutta. Ma non avevo altra scelta che seguire i suoi movimenti, seguire i suoi occhi, seguire il suo amore, che mi portava gradualmente all'inferno.

Mi ero arresa, ma si era arreso anche lui e, finalmente, potevamo spogliarci delle nostre paure, di tutto ciò che ci aveva trattenuto e frenato, non dovevamo più nasconderci nel buio, non era più necessario, perché in quella stanza c'era tutta la luce del mondo, anche se era notte fonda, anche se rimanevano dubbi, anche se nessuno dei due sapeva, con certezza, quello che stava succedendo.

Non ci mettemmo che qualche secondo a liberarci di tutto quello che ancora ci copriva, i nostri vestiti ammucchiati ai piedi del letto, come barriere abbattute, frontiere infrante, limiti superati, i nostri respiri affannati, baci, carezze, sospiri, parole spezzate, tutto in un vortice che annullava ogni rammarico, annullava il disagio e le inibizioni, non era Diego, il mio amico: era Diego, il mio amore eterno, la mia anima gemella, era Diego, la parte più vera di me, l'unico che sapeva tutto della mia vita, l'unico che era stato in grado di infrangere il mio cuore con un semplice addio, di rimetterne insieme i pezzi con pazienza e costanza.

L'unico giusto nella mia vita sbagliata.

Era Diego, era lui, ero io, eravamo noi, nel modo più semplice, diretto, senza giri di parole e senza giustificazioni e non contava nient'altro.

A malapena riuscivo a guardarlo, a malapena sopportavo il peso di ciò che stava succedendo, ma sentivo le mie ali spiegarsi, sentivo il cuore aprirsi a sentimenti che non avevano nulla a che fare col semplice sesso, con l'attrazione fisica, con il trasporto dei sensi nudi e crudi: a stento riuscivo a pronunciare qualche parola, mi sentivo morire mille volte, mi sentivo mancare, mi sentivo come se quella notte segnasse la fine di tutto e, probabilmente, era davvero finito tutto, perché le nostre vite cambiavano in quel battito di tempo.

Il suo corpo nudo sul mio era strano, inatteso e accogliente al tempo stesso: ripensai a tutte le volte in cui mi ero ritrovata a letto con un uomo, quanto sesso vuoto ed inutile, quanto tempo perso in un atto privo di senso, quante ore, quanta vita sprecata.

Ma con lui non era così.

Non avrebbe mai potuto essere freddo e distaccato.

E infatti la sua pelle bruciava sulla mia, lasciando segni indelebili sul mio corpo, come tatuaggi di un amore dannato ed indimenticabile, ogni carezza, ogni bacio, ogni centimetro della mia pelle, tutto aveva il suo nome, tutto chiamava lui, voleva lui, pensava a lui, si arrendeva, infine, a tutto ciò che era sempre stato mio.

Erano miei i suoi occhi torbidi ed espressivi.

Mie le sue mani grandi che mi accarezzavano fin dentro all'anima.

Mia la sua bocca rossa, mai stanca di baciarmi.

Mio il suo naso nobile, profilo greco, naso arrogante, che ora espirava sul mio collo, sulla mia pelle nuda, sul mio animo avvinto.

Miei i suoi capelli ribelli, tutti miei, ai quali mi aggrappavo come ancore di salvezza, per non affogare, per non svenire, perché, disperatamente ed irrazionalmente, ero sicura che solo lui mi potesse salvare da quella tempesta che soffiava sulla mia vita.

Mie gambe, braccia, ombelico, mia l'alta fronte intelligente.

Mie quelle labbra curvate in una piega enigmatica, che era soddisfatta, ma anche sorpresa, incredula, concentrata, anche attenta, premurosa.

Mie tutte quelle attenzioni, quell'amore che riversava su di me come una cascata.

Mio quel sesso, tutto mio, mio nel profondo, mio nell'arroganza, mio sconvolgente ed inatteso, mio non immaginato, mio spaventoso e rassicurante.

Era tutto mio, dalla punta dei piedi a quella dei capelli e non c'era via di scampo, non c'erano giustificazioni, non c'era nient'altro che noi.

Mi baciò dolcemente le labbra, il naso, gli occhi, la fronte, scese sullo sterno, sui miei seni, le costole ancora sporgenti, il ventre piatto, schivò con cura quel nome nero tatuato sulla pelle per raggiungere l'osso prominente del bacino, l'interno coscia che rabbrividì al tocco, baciò ogni parte del mio corpo, senza fretta, come se non avesse fame, ma volesse prendersi cura di me, guarirmi, consolarmi.

E, per ogni bacio, morivo.

Risalì lentamente fino a ritornare alla mia bocca, un bacio e un altro ancora, poi si fece spazio dentro di me, in un modo inatteso, sinuoso, sconvolgente.

Sgranai gli occhi, sorpresa e un po' imbarazzata, lasciandomi sfuggire un sussulto.

-Scusa – disse, cogliendo la mia sorpresa e scambiandola per pentimento. Scossi la testa e, sorridendo, inspirai a fondo, dandomi cinque secondi di tempo per realizzare quello che stava succedendo, per abituarmi ad un'estraneità che avevo solo immaginato, per sentirla mia, parte di me: ora vivevo attraverso lui, viva, finalmente, così viva da sentire ogni impercettibile movimento del suo corpo.

Sentivo il battito del suo cuore, lo scorrere del suo sangue dentro alle vene, i ricci castani che mi sfioravano dolcemente la guancia, la lenta scia di baci che mi torturava il collo e il viso, sentivo il suo respiro e ogni gemito soffocato, le sue mani grandi che mi esploravano avide ed insaziabili: lo sentivo in me, lo sentivo pesante di carne, ossa e sangue, reale, concreto, vero su di me, lo sentivo ovunque, anche dentro all'anima. Quell'anima che era sempre stata chiusa a chiave e che lui aveva scardinato, aveva sconfitto, rendendola fragile ed aperta all'amore, un amore che stupiva me in primis per la propria violenza, per una passione senza freni che tracimava come un fiume ingrossato da piogge monsoniche e travolgeva tutto, portandosi via i relitti e i fantasmi delle nostre vite precedenti.

E ora mi insegnava a vivere, mi insegnava cos'era l'amore, cosa volesse dire amare qualcuno così tanto da soffrire, a causa di quell'amore impossibile, mi insegnava a vedere, a sentire, a provare sentimenti così forti da lasciarmi disorientata e confusa, mi insegnava a fare l'amore con la testa, non solo col corpo, perché sentivo tutto, percepivo il battito furioso del suo cuore sopra al mio, lo scorrere del sangue nelle sue vene, sentivo i suoi sospiri soffocati, sentivo quel lento ondeggiare che cambiava ogni colore alla stanza, che diventava, man mano, rossa, blu, verde, viola. E, così facendo, in mezzo a tutti quei colori che cambiavano continuamente, mi insegnava anche tutte le tonalità dell'arcobaleno, con le quali aveva colorato la mia intera vita, rendendola perfetta. Ora mi trovavo in bilico sull'orlo di un abisso di infinite tonalità e non avevo paura dell'altezza o del vuoto, ma mi affascinava, mi faceva sentire bene, mi faceva sentire una donna completa, sotto alle sue carezze curiose, di volta in volta delicate, romantiche, lascive, disinibite, rinascevo come femmina, ancora prima che come donna.

Sentivo il suo volermi disperato, fortissimo, come se da quel desiderio dipendesse tutta la sua vita: sentivo il suo essere uomo e il desiderio senza freni che lo riconduceva lì, a dipingere sul mio viso tutte le espressioni della gioia.

Ora, quella stanza diventava piccola come la cruna di un ago e, al tempo stesso, grande come l'universo intero, insieme a tutte le stelle.

Era una magia, era un incantesimo maledetto, ma non volevo finisse, non volevo che smettesse, volevo stringerlo tra le mie braccia e spezzarmi dentro, volevo morire con lui, volevo dimenticare che esistesse un domani o un mondo, fuori.

In quel lento movimento ipnotico c'era lo sfogo di potersi finalmente liberare da mesi di frustrazioni e negazioni, era un movimento liquido, come le onde del mare che si inseguivano incessantemente, era un movimento che accompagnava il ritmo del nostro cuore, che non aveva fretta, batteva appagato, rilassato, in pace con il mondo. Non era semplice comprendere tutte le sensazioni che stavo provando in quel momento, perché c'era un abbandono totale, libero, senza freni, era quello che aspettavamo da tempo, forse da ancora prima di conoscerci, perché quel movimento ci inghiottiva, ci annullava, era il movimento di tutto il mondo sospeso in quella stanza dalle finestre chiuse, illuminata dalla luce fioca e ballerina di una abat-jure colorata che avevo visto mille volte, in una vita precedente, che non era la vita che stavo vivendo adesso, nel momento in cui io e Diego finalmente facevamo l'amore.

Quello era semplice, dannato, frustrante, maledetto, doloroso, concreto, reale, complicato, innegabile, impossibile, bellissimo, segreto amore.

Accarezzò le mie gambe, i fianchi e la mia spina dorsale, mi strinse forte baciandomi le labbra, il cuore, l'anima, mi fece sentire regina, schiava, principessa, prigioniera, piansi tra le sue braccia troppe volte, maledicendolo, maledicendomi, cantando le sue lodi, gemendo come sotto tortura, contorcendomi quasi mi stesse portando alla morte, all'estremo, ultimo, fatale respiro.
Lo amavo e non avevo bisogno di dirlo: era un amore malato, incontrollabile, devastante, che mi faceva gemere e accartocciare su me stessa, mi faceva sentire tutto troppo, tutto fuori controllo. Ma quello era amore e non poteva avere nessun altro nome, anche se non l'avremmo mai chiamato ad alta voce, era il suo nome e lo amavo oltre ad ogni cosa, oltre a me stessa, oltre anche a ciò che stavamo facendo.

Ma non glielo dissi, perché non potevo.

Nel mio cuore potevo solo pensare che fare l'amore con lui non finisse più, che non terminasse quel giorno, in quella stanza, ma che avremmo continuato a farlo per l'eternità.

Era difficile, era impossibile, ma in quel momento non importava, perché eravamo insieme ed eravamo una cosa sola, come saremmo dovuti essere da sempre.

-Io... - disse all'improvviso.

-Cosa? - presi il suo viso tra le mani e lo obbligai a guardarmi.

-Ho paura che questo cambierà tutto per davvero.

-Ha già cambiato tutto, Diego, è stato così da sempre – risposi, prima di baciarlo ancora.

Sempre sul punto di cedere, con fatica e con sforzo, si tratteneva, si conservava per quello che era un attimo sospeso ed atteso da sempre che era la fine di tutto, l'inizio della nostra nuova vita.

O così credevamo.

Non so quanto rimanemmo in quella stanza, forse qualche minuto, forse ore, forse una settimana o un mese, ma so che quando quella benedetta tempesta si calmò, riposai serena tra le sue braccia.

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