Hybrid - Legami Spezzati

By AlessiaSanti94

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SEQUEL "Hybrid - L'Esperimento". Può un legame forte allentarsi e dissolversi come se non fosse mai esistito... More

BOOKTRAILER HYBRID - LEGAMI SPEZZATI
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Premessa.
1. Annichilimento.
2. Apri gli Occhi.
3. Cornelius Morton.
4. L'Agente Kane.
5. La Stanza Numero 2.
6. Spegnersi.
8. Nuove Collaborazioni.
9. Chi Sei.
10. Una Nuova Alba
11. Problemi di Alcool
12. La Ronda e l'Indovina.
13. Passi Falsi e Promesse
14. De Rerum Vetitae
15. La Stanza Numero 4
16. Complicità e Tensioni.
17. Damnatio Memoriae.
18. La Stanza del Bisogno.
19. L'Agguato Inaspettato
[Info per i lettori]
20. Sospetti.
21. Kathleen Lorelaine
22. Dolor
23. Moniti e Responsabilità
24. Scintilla
*CAPITOLO EXTRA*
25. Una Luce nel Buio
26. La Verità Viene a Galla
27. Aaron
28. Sacrificio e Connessione

7. Devi Ricordare

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By AlessiaSanti94


Dove ci eravamo lasciati:

Dopo che Abby lascia la Caserma, spinta dal tradimento da parte di Jared e di tutti i Celesti, viene attirata nel covo di Cornelius, nelle rovine abbandonate di Joyland, il lunapark di Henver. Lì è accolta da suo padre e dal suo scagnozzo, Russell, che la trattano da ospite-prigioniera, forzandola a scordarsi del suo passato umano e a contenere i suoi tentativi di ribellione tramite la somministrazione di medicinali e terapie di elettroshock, fino a farla arrivare al suo limite di sopportazione. L'obiettivo di Cornelius è quello di farle dimenticare del tutto il suo lato umano e indurle un senso di odio nei confronti dei Celesti, per farle sviluppare meglio i suoi poteri demoniaci e sfruttarli a suo favore.

Nel frattempo, nella Caserma, il clima dopo la fuga di Abby e la convocazione a Danville è diventato teso: adesso infatti vagano nella struttura membri degli investigatori Celesti, capitanati da Madison Kane e arruolati dal Consiglio per tenere sotto mira gli abitanti della Caserma e, in particolar modo, Jared, il quale viene visto come potenziale colpevole della fuga di Abby. Nonostante le accuse però, Jared continua a sentire la mancanza di qualcosa ogni giorno che passa, e trascorre notti insonni e piene di incubi per via del ricordo di Abby, che lo aveva obbligato a scordarsi della loro Iunctura, rompendo così il loro legame.    


Jared


Cosa erano quelle urla?

Questa domanda continua a entrarmi e uscirmi dalla testa per tutta la giornata. Ho cercato di scacciarla in ogni modo possibile, da quello meno complicato al più invasivo: mi sono dedicato a una estenuante sessione di allenamenti notturni nella palestra, e ho continuato a tirare pugni al sacco da boxe finché non ho sentito la pelle delle nocche spaccarsi e iniziare a bruciare; nonostante questo, ho continuato ancora, per poi collassare a terra, steso sui tappetini di gomma morbida blu, le tempie che pulsavano a ogni respiro e un senso di nausea sempre più prominente. Sono rimasto sdraiato per mezzora a riprendere fiato, con le mani premute sopra gli occhi, come se ostruirmi la vista bastasse a eliminare tutto quello che la mente riusciva comunque a farmi vedere.

Infatti, nonostante l'abbattente sensazione di stanchezza e il dolore fisico in svariate parti del corpo, il pensiero di quelle grida strazianti percepite nell'ufficio di Clint non mi ha mai abbandonato; restava lì, aggrappato tra un ganglio cerebrale e l'altro, in attesa di essere analizzato dalla parte più cosciente di me.

Così sono passato al metodo più invasivo, ovvero quello che Janise e mia madre scongiurano da quando lei se n'è andata: l'alcool. Una grande dose di alcool, così forte da farmi dimenticare tutto, ogni pensiero, ogni domanda senza risposta, ogni dubbio o paura. Il Gin li ha addormentati, mandandoli in quiescenza per quel poco che bastava a dare un attimo di tregua alla mia mente.

Ogni volta che sentivo un sussurro nella mente – o anche solo ogni volta che mi sembrava di sentirlo – buttavo giù una sorsata di distillato senza pensarci. E così ho continuato senza sosta per due ore, dall'una alle tre del mattino, finché anche il corpo si è saturato di alcool e ha imposto all'ultima parte razionale di me di scansare da quel maledetto comodino la bottiglia ormai semivuota.

Venti minuti dopo sono crollato in un limbo colmo di oblio scuro e tensione elettrica.

La mattina seguente è il rumore della pioggia addosso ai vetri a svegliarmi. E anche se è semplicemente un lieve ticchettio cadenzato, nella mia testa risuona come una serie di sassate contro una lastra spessa di cristallo.

Mi spingo le dita sopra agli occhi e mormoro un'imprecazione tra i denti, con la voce ancora impastata dal sonno e dalla sbornia della notte appena passata. Dalla luce che attraversa le tende e rischiara la stanza posso già capire che è tardi: le undici, forse anche mezzogiorno.

Ogni muscolo del corpo è indolenzito e fatica a rispondere ai miei stimoli, così mi costringo a sollevare le palpebre e a cozzare contro una realtà illuminata che anche oggi mi nausea. Non appena collego la vista con il cervello, realizzo che sono seduto sul pavimento della mia stanza, le gambe distese accanto al comodino ricolmo di inutili stronzate e la testa appoggiata al materasso. Accanto a me, a pochi centimetri di distanza, il cellulare di servizio è abbandonato in una pozza di liquido trasparente.

Strizzo gli occhi per mettere meglio a fuoco l'immagine e allargo il campo visivo, finché non mi accorgo che la bottiglia di Gin che fino a qualche ora prima stava sopra al comodino in legno, adesso è riversata a terra insieme a tutto il suo maleodorante contenuto.

«Merda», mugolo, afferrando come prima cosa il cellulare. Faccio leva sul braccio destro e mi alzo in piedi, ignorando un forte giramento di testa che quasi mi costringe a buttarmi a terra di nuovo.

Lo schermo del telefono è ricoperto da una patina appiccicosa, che cerco di rimuovere col dorso della mano. Per fortuna, il touchscreen risponde ancora al tocco delle dita e mi fa dedurre che il liquido non abbia intaccato i meccanismi interni. A riprova di ciò, il piccolo led rosso che s'illumina ogniqualvolta riceva un messaggio non smette di lampeggiare.

Sospiro scocciato e mi dirigo verso il bagno, con il cellulare davanti agli occhi, la gola secca e la testa che minaccia di scoppiarmi da un momento all'altro, vittima di una tremenda emicrania post sbornia. L'orologio digitale segna le undici del mattino, ma la stanchezza che ho ancora aggrappata addosso al corpo mi fa sperare che in realtà siano di sera, in modo tale da potermi fiondare dentro al letto e recuperare tutto ciò che ho perso in questi ultimi giorni: la stabilità, l'integrità, il riposo.

La prima cosa che noto sullo schermo del telefono sono le svariate notifiche di messaggi. Ce ne sono almeno tre, di cui una proveniente da David e una da Tom, che decido subito di mettere da parte; di solito contengono solo stronzate. È l'ultimo messaggio ad attirare la mia attenzione: il mittente è sconosciuto e il numero non è salvato in rubrica, entrambi ovvi motivi che mi fanno pensare che qualcuno abbia divulgato il mio contatto a una persona non autorizzata ad averlo.

Con un sospiro spazientito pigio sul tasto apri e aggrotto le sopracciglia, non appena capisco di chi si tratti: "Ciao Jared, sono Madison Kane. David mi ha fornito il tuo numero di telefono per qualsiasi evenienza, così ho pensato che sarebbe stato corretto avvisarti. E se te lo stessi chiedendo, questo è il numero del mio telefono di servizio. Puoi usarlo per ogni necessità. E, a proposito, mi chiedevo come stessi dopo ieri... Non volevo recarti disturbo con quella richiesta, e per questo stavo pensando che..."

«Già mi hai scocciato, Kane.» Sbuffo e lo cestino senza nemmeno finire di leggerlo. Odio i messaggi chilometrici e odio ancora di più chi li manda il mattino dopo di una pessima sbornia.

Faccio scivolare il telefono in tasca e mi passo entrambe le mani sugli occhi, pigiando le dita sulle palpebre fino a farmi male. Entro nel bagno facendomi forza con un sospiro e pigio l'interruttore della luce, mentre nella mente già mi pregusto una doccia fredda rinvigorente.

Ma quando il piccolo ambiente si rischiara con la luce al neon, per poco il pavimento non mi crolla sotto i piedi, costringendomi a sgranare gli occhi e a reggermi con il palmo della mano allo stipite della porta. Sbatto le palpebre due volte, strizzandole come se di fronte a me si trovasse la più realistica delle visioni, ma quando mi rendo conto che è tutto vero – che quello che sto vedendo esiste per davvero – lascio andare tutta l'aria trattenuta nei polmoni e faccio un piccolo passo avanti, deglutendo.

«Porca puttana

Faccio un giro di trecentosessanta gradi su di me, per constatare il disastro che si è riversato su ogni superficie della stanza: il bagno è ridotto a un caos. Sembra esserci appena passato un uragano, qui dentro. Gli oggetti che prima stavano poggiati sulle mensole attaccate alle pareti adesso giacciono a terra: flaconi di bagnoschiuma aperti, bottigliette di profumi esplose in una pioggia di cristalli di vetro e di liquido, pettini, rasoi, asciugamani. Tutto spalmato sul pavimento e niente – nemmeno la più piccola stupidaggine – al proprio posto. Ma la cosa peggiore, quella che mi fa davvero accapponare la pelle, non è questa. No, non ci si avvicina nemmeno lontanamente.

Non appena alzo gli occhi sullo specchio appeso sopra al lavandino, vengo travolto da un senso di nausea sempre più increscente. Scuoto la testa e mi tappo la bocca con una mano, cercando di modulare il respiro.

Non è possibile. Questo non è davvero possibile.

Allungo la mano sulla superficie lucida del vetro e sfioro con le dita le scritte nere che occupano interamente lo specchio, a formare un labirinto quadrato di parole messe una dopo l'altra, con una precisione e una logica di fondo impeccabile.

Mi sporgo ancora di più verso la superficie di vetro, per cercare di mettere meglio a fuoco le parole, marchiate con un pennarello nero indelebile che adesso è anch'esso abbandonato in mezzo alle altre mille cianfrusaglie sul pavimento.

"Devi ricordare."

Devi ricordare, c'è scritto. E queste due parole si ripetono per almeno trenta, forse anche quaranta volte, senza nemmeno un errore, una disattenzione o un segno di cedimento. Rasentano quasi il lavoro di un artista. E non ci penso nemmeno a chi potrebbe aver fatto irruzione nella mia stanza mentre dormivo, stanotte, perché la cosa più spaventosa – quella che davvero mi fa accapponare la pelle e salire la nausea fin dentro alla gola – è che le due parole che occupano tutta la superficie dello specchio sono scritte con la mia grafia.

«Devi ricordare...», ripeto ancora, gli occhi che brillano di una terribile sensazione e un senso cupo di angoscia che mi attanaglia le caviglie e mi fa restare fermo lì, immobile. «Devo ricordare, ma cosa?»

Poi, all'improvviso, un flash, rapido come un battito di ciglia. Delle immagini mi folgorano la mente con la velocità di lampo, senza darmi nemmeno il tempo di analizzarle e metabolizzarle.

Un grido di dolore.

Dei pugni stretti su dei manici di legno.

L'odore di bruciato.

Devi ricordare.

Quando riapro gli occhi, non resisto più. Corro verso il water e mi inginocchio sul pavimento, spostando con una mossa brusca tutti gli oggetti nell'arco di un metro. Poi do di stomaco, rigettando fuori tutto il male che ho lasciato entrar dentro nelle scorse ore.

Dieci minuti sono ancora seduto a terra, con la testa tra le mani e la schiena poggiata addosso al gabinetto. Fisso le piastrelle scure senza guardarle davvero, la mente persa in mille pensieri e congetture.

Forse sto impazzendo. E deve esserlo veramente, considerato che stanotte – mentre pensavo di dormire – ho fatto irruzione nel mio stesso bagno e l'ho messo soqquadro, per poi riempire di scritte lo specchio con un pennarello indelebile.

Quelle parole, poi... Quelle parole mi rimbombano nelle orecchie come tuoni. E ogni volta che ci penso, mi passano di fronte agli occhi delle immagini confuse, immagini che non appartengono a me, alla stregua di scene non vissute e che non riesco a ricondurre a niente.

Tutto questo mi manda fuori di testa.

«Che cosa mi sto scordando?», ripeto a me stesso con frustrazione. «E perché so di doverlo ricordare? Maledizione!» Sferro un pugno sul pavimento e mi alzo in piedi, senza badare al leggero giramento di testa che assale. Anche l'emicrania di prima sembra essere peggiorata, trasformandosi adesso in una vera e propria tensione alle meningi.

Raggiungo di nuovo il lavandino e apro l'acqua ghiacciata, facendo attenzione a non incrociare di nuovo lo specchio coperto di scritte. Mi bagno il volto e i capelli sotto la corrente e prendo un respiro.

La prima bella sensazione da quando mi sono svegliato.

Ma è un momento destinato a durare poco, questo, perché non appena chiudo il rubinetto sento qualcuno bussare alla porta della mia camera con impazienza.

Impreco tra me e me ed esco dal bagno senza richiudermi la porta alle spalle, deciso a voler prendere a pugni chiunque si trovi dietro a quella soglia. Oggi è il mio giorno di riposo e, come tale, non voglio nessuno a invadere i miei spazi personali.

Apro velocemente la porta e regalo la mia prima occhiataccia della giornata al fortunato, che si rivela essere lo spensierato Tom Rickett, il ragazzino biondo e occhialuto che è passato dall'essere considerato il più pauroso dei Guerrieri a quello più saggio, visto come si è salvato dall'attacco dei Sottomessi alla Bloody Night di Henver. Non appena incrocia il mio sguardo truce, mi sorride a trentadue denti e mi agita la mano davanti al volto, gesto che già di per sé mi urtica il sistema nervoso.

«Buongiorno, pigrone!», esclama allegro. «Non dirmi che stavi ancora dormendo.»

Sospiro, già spazientito e mi appoggio con la fronte sulla parete, mentre con l'altro braccio reggo ancora la porta. «Non sono affari tuoi, Tom. Che cosa vuoi? Ho altro da fare.»

«Sì, come no. Hai la faccia di uno che è appena cascato dal letto.» Mi assesta una leggera pacca sulla spalla e si atteggia a uomo vissuto. «Che hai combinato? Notte brava?»

«Tom», lo metto in guardia, scrollandomi di dosso la sua manaccia appiccicosa, «finiscila.»

Lui solleva le spalle e getta un'occhiata all'interno della mia stanza, curiosando come un bambino. «E allora cos'è questa puzza di alcool che proviene dalla tua camera? Hai organizzato una festa senza nemmeno invitare i tuoi amici?»

«Non è puzza di alcool e tu non sei mio amico, Tom. Sei solo un ragazzino che sa importunare con maestria le persone e...»

«Cos'è successo nel tuo bagno? Mamma mia, Jared, pare che ci sia scoppiata una bomba, lì dentro!», mi interrompe con una risata, senza ascoltare minimamente il mio discorso.

Trasalisco e accosto ancora di più la porta, tagliando definitivamente il contatto visivo tra Tom e la mia camera da letto. «Ti ho detto di farti gli affari tuoi. Adesso, per favore, puoi andartene? Non hai delle lezioni da seguire, tu?»

«No.» Sorride e si gratta la matassa di riccioli biondi. «Ti ho mandato un messaggio, prima.»

«Sì, l'ho visto, Tom.» Sospiro e mi pigio due dita sulle palpebre. Questo ragazzino mi sta facendo peggiorare l'emicrania.

«E lo hai anche letto, immagino. Per questo sono qui.»

«Immagini male.»

Per la prima volta, sul volto di Tom si dipinge un'espressione risentita. «Ma... mi avevi promesso che oggi ci saremmo allenati insieme in palestra.»

Merda, è vero.

Glielo avevo promesso qualche giorno fa, dopo essere stato tampinato da lui per una settimana intera.

«Jared?», mi richiama ancora, destandomi dai miei pensieri confusi.

«Sì, sì, hai ragione. Lo so che te lo avevo promesso, ma mi sono completamente scordato, Tom, e adesso non posso proprio aiutarti. Mi dispiace, ma per stavolta dovrai trovarti un altro Guerriero.» Sospiro e scuoto la testa, con un vago sentore di senso di colpa.

«Ma i miei compagni sono tutti a lezione e tua sorella mi incute un po' di timore, se devo essere sincero.»

«Lo so. Janise incute timore a tutta la Caserma.» Sorrido e alzo le mani. «Senti, vai a cercare Nolan e digli che ti mando io. Dovrebbe tornare da una Ronda tranquilla tra qualche ora. Ti allenerà lui, okay?»

Tom annuisce. «Ma potrò farlo anche con te, un giorno?»

«Vedremo. In questo periodo sono un po'... pensieroso», ammetto. «Adesso, va', per favore. Ho bisogno di stare per conto mio.»

«Sei sicuro di stare bene, Jared? Hai una cera terribile.»

Faccio cenno di sì con il capo ed entro in camera. «Buona giornata, Tom», lo saluto bruscamente, prima di chiudere del tutto la nostra conversazione.

Non appena resto da solo, mi passo una mano tra i capelli e fisso di nuovo l'interno della stanza, trattenendo un sospiro nervoso.

C'è mancato davvero poco.

Sbuffo contrariato e raggiungo il mio letto, dove ai piedi c'è ancora la bottiglia di Gin riversata a terra; l'odore dell'alcool, dopo una sbornia pesante come quella di stanotte, mi fa venire il voltastomaco al solo pensarci. Per non parlare del mal di testa, poi: le fitte martellanti alle tempie mi costringono a serrare la mandibola per il fastidio, come se questa semplice mossa potesse placare per un momento il dolore. Ma, purtroppo, non è così, e mi ritrovo a fissare con rabbia la mia camera, ridotta in uno stato di caos e confusione, che dovrò riordinare in un brevissimo arco di tempo, prima che qualcuno ci entri dentro e mi chieda cosa diavolo stia succedendo qui.

Mentre getto le lenzuola del letto a terra, per tamponare la pozza trasparente di alcool rappreso sul pavimento, qualcuno bussa nuovamente alla porta, bloccandomi con la bottiglia vuota ancora in mano. Mi raddrizzo con la schiena e lancio un'occhiata infastidita verso la fonte di provenienza del rumore, chiedendomi tra me e me che cosa altro voglia Tom. Getto la bottiglia di vetro per terra e con un piede la nascondo tra le lenzuola. La porta del bagno è sempre socchiusa e all'interno vige ancora uno stato di disordine infernale, ma la mia intenzione stavolta è quella di scacciare quel ragazzo petulante nel modo più brusco e rapido di cui disponga.

Apro la porta con una mossa fulminea, la mano stretta attorno alla maniglia e lo sguardo teso. «Si può sapere che diavolo vuoi ancora, Tom?», sbraito ad alta voce.

Ma stavolta dietro alla soglia della mia camera non trovo ad aspettarmi Tom Rickett: ferma con le braccia distese sui fianchi e un'espressione serafica c'è l'agente Madison Kane, vestita di tutto punto in un completo scuro e professionale.


[Continua] 


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