NELL'ETA' PIU' BELLA I GIORNI...

By SimoneFeroli

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Diario di prigionia dal fronte greco-albanese, 1941. Diario di prigionia di un fante catturato sul fronte alb... More

NELL'ETA' PIU' BELLA I GIORNI PIU' TRISTI

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By SimoneFeroli


Diario di prigionia di un fante catturato sul fronte albanese presso il Mali Topoianit il giorno 8 gennaio 1941 e liberato dal campo di concentramento B dell'isola di Creta il 30 maggio 1941.

"Siamo fiaccole di vita, siamo l'eterna gioventù che conquista l'avvenir di ferro armata e di pensier. Per le vie del nuovo Impero che si dilungano nel mar, marceremo come il Duce vuole"

Inno degli universitari fascisti

Dedicato a tutti i prigionieri e a tutti i caduti di tutte le guerre. Perché non esiste la parte giusta e quella sbagliata. Esiste solo l'uomo.

Simone Feroli

Presi!

L'alba dell'8 gennaio 1941 stava per spuntare. Già da sei giorni si stava contrattaccando il nemico, i greci, che per tutti quei giorni martellò metro per metro, con precisi colpi di mortaio, il terreno sul quale l'esercito italiano del fronte centrale di Klisura cercava con ogni sforzo di mantenere la posizione. Solamente la notte permetteva a noi di riposare in qualche modo senza avere il disturbo dei mortai dei greci, i quali accendevano fuochi straordinari, bivaccando in attesa dell'alba.

Rimasto leggermente ferito da due schegge di shrapnel scoppiato il giorno 6 alle ore 15, a due metri di distanza, il mattino dell'8 mi trovavo a riposo ordinatomi dal tenente medico del nostro reggimento in linea. Per la notte dal 7 all'8 trovai rifugio per dormire sotto la tenda di due miei cari compagni concittadini, appartenenti alla 7^ compagnia, che era di rincalzo, pronta per balzare al contrattacco in aiuto delle altre Compagnie impegnate fin dal 30/12/1940.

Ai primi bagliori dell'alba i greci cominciarono ad attaccare con una grandinata di colpi di mortaio che produssero tra le nostre file una gran quantità di morti e feriti. I nostri senz'altro contrattaccarono con ogni mezzo cercando di arginare l'avanzata dei greci, che minacciosi erano già usciti dalle loro tane e non distavano dalle prime linee che qualche centinaio di metri. Fra il crepitare degli scoppi giunse al posto dove mi trovavo un portaordini dalle prime linee chiedendo urgente rinforzo per la compagnia di linea ormai decimata. Subito la 7^ Compagnia uscì dalle tende e sotto quella tempesta di colpi corse in aiuto dei compagini in pericolo. Io rimasi a guardia dell'attendamento con uno dei miei compagni ed altri due della 7^ Compagnia. Il continuo martellamento dei mortai ci costrinse a rifugiarci in un fossato laterale del campo. Disarmato completamente, poiché in seguito alla ferita riportata il giorno 6 perdetti fucile, baionetta e munizioni, rimasi così vicino ai compagni armati in quel provvisorio trinceramento. Attendevamo presto o tardi la morte, poiché intorno a noi e sulle nostre teste fischiavano bombe e shrapnel. Non tardò molto dalla partenza della 7^ Compagnia che si verificò l'inatteso: cominciai a vedere dei nostri soldati che ritornavano indietro saltando il nostro trincerone, mentre gli ufficiali facevano ogni sforzo per impedire questo ritiro, cercando di animare i nostri che inebetiti ed esitanti di fronte all'avanzata dei greci non riuscivano a contenere l'impeto. Decidemmo di fuggire dietro i nostri, ma subito pensammo che saremmo stati colpiti dai tiri delle mitragliatrici che si incrociavano vicinissimi a noi. Uno dei nostri compagni volle ancora alzare il capo per vedere la situazione e prendere una suprema decisione, ma lo ritrasse istantaneamente e disse: "ci sono i greci". Un istante dopo, sul ciglio del trincerone apparvero cinque greci, armati di fucili mitragliatori, che con grida da ossesso ci fecero cenno di alzare le braccia e uscire dal fossato. Una scarica di mitragliatore quasi ci colpì. Fu per intimorirci. Dovemmo alzare le braccia ed uscire. Allora ci perquisirono asportandoci penne stilografiche, orologi, danaro, ecc. Tutto ciò che poteva loro interessare ci fu preso. Con gesti e qualche parola in italiano ci fecero capire che non ci avrebbero fatto nulla di male; che non avessimo paura di loro e che ad Atene saremmo stati trattati bene, Queste parole, se ci calmarono, ci fecero però dubitare della loro veridicità. Ormai eravamo prigionieri.

Comincia la marcia: da Klisura a Prevesa...

Il nostro calvario ebbe così inizio. Guidati da due greci, fummo spinti per una mulattiera verso il fronte nemico pieno di neve e gremito di soldati che andavano a raggiungere le nuove posizioni lasciate dagli italiani. Questi soldati greci ci guardavano con un grande disprezzo facendoci dei gesti osceni. Qualche colpo di mortaio tirato dai nostri cercava, passando sulle nostre teste, il nemico nascosto nelle retrovie. Ricordo con profondo dolore che la perquisizione sulla mia persona mi costò la perdita dell'anello di fidanzamento che tenevo tanto caro per il suo significato simbolico. Mi furono asportati con i denari la penna stilografica, un bicchierino tascabile e il libretto ferroviario con gli scontrini. Quello che provai per la perdita dell'anello non potrò mai descriverlo. Pare che mi si strappasse l'anima di colei che amo ed amerò per sempre. Continuando per lo scosceso sentiero ci riunimmo ad altri nostri compagni fatti prigionieri in altre posizioni. Fra questi ne riconobbi molti della mia compagnia in linea. Con loro giungemmo nelle prime retrovie greche, ove i nemici lasciavano le posizioni per fortificarsi sulle nuove. I soldati ci passavano vicini con grida di scherno ed io ricordo di aver ricevuto un colpo alla testa che quasi mi stordì. Una guardia greca da me pregata fu tanto generosa da restituirmi il portafoglio senza denari, ma con le fotografie dei miei cari. Mi rimase così la consolazione di poter tenere le immagini dei miei cari genitori, di mia sorella e della mia buona Rosina.

Da queste posizioni fummo adibiti al trasporto dei feriti greci su barelle a mano. Continuammo la marcia tra le montagne piene di neve attraverso quell'interminabile sentiero pressoché impraticabile portando un ferito ogni quattro. Fu questo per me uno dei periodi talmente dolorosi nei quali invocai più volte la morte. Il peso della lettiga mi opprimeva talmente tanto che le forze mi mancavano; più di una volta scivolavo involontariamente a terra sulla neve, tanto era instabile il sentiero sul quale due persone affiancate non potevano passare. Sembrava che il cuore mi scoppiasse da un momento all'altro dalla fatica e del male fisico che mi produceva il peso del ferito. Correva in mio soccorso il caro Giulio, che spesso mi dava il cambio e dopo una giornata di simile vita giungemmo la sera, già buio, al Comando di divisione greco più vicino. Lungo le strade percorse vi fu il cambio delle guardie di guida che parvero subito a noi più severe delle altre. Non mi sbagliavo perché queste ogni volta che uno cadeva sotto il peso della barella anziché aiutare l'infelice accorreva e a scudisciate e legnate ed ancora con un intimidatorio colpo di rivoltella in aria rimetteva in marcia la lenta colonna. Fra noi prigionieri ve ne erano molti feriti chi al capo, chi alle braccia o al corpo. Essi non portavano feriti greci e ci seguivano lentamente desiderosi di giungere al più vicino posto d'infermeria per potersi medicare. A metà strada, mentre incontravamo continuamente salmerie che avanzavano fummo attaccati dalla nostra aviazione che con i suoi potenti trimotori bombardava retrovie e salmerie; per poco le bombe non ci raggiunsero. Un particolare personale è che il viaggio fu particolarmente duro per me perché avevo solamente una scarpa avendo perso l'altra tra la neve nel portare la lettiga ed essendo impossibilitato a recuperarla per la durezza dei greci dovetti rimanere senza. Giungemmo così dopo sforzi inauditi, e superando le difficoltà del cammino, al Comando di divisione greco.

Era ormai buio. Come un branco di suini per quella notte fummo messi a riposare e a dormire a terra in un cortile, con la promessa che ci avrebbero passato un pezzo di pagnotta; per ciò che riguarda il freddo ci stringemmo alla meglio uno contro l'altro e dormimmo tutta la notte conservando la fame per il giorno dopo, poiché di pane quella sera non se ne vide nemmeno l'ombra.

I superiori del Comando prima del riposo ci chiesero le generalità, forse per comunicare al nostro Governo la nostra caduta nelle loro mani. La mattina seguente di buon'ora si ripartì di nuovo in numero di prigionieri maggiore del giorno precedente, essendone altri giunti durante la notte. Scortati da soldati e carabinieri greci, riprendemmo il cammino impervio. In numero di circa trecento iniziammo così il secondo giorno del nostro calvario; i nuovi prigionieri arrivati furono adibiti al trasporto dei feriti a braccia ed a spalla, per potere così evitare al mio fisico uno sforzo che poteva essermi fatale. Cominciai a sentire dolori alla gamba sinistra ove fui ferito da una scheggia di mortaio che mi fece zoppicare, affaticandomi la andatura. Sul principio non vi badi e zoppicando continuai la strada solo, contento da un lato di essere libero dal peso di quella barella. Strada facendo il dolore mi si acuì a tal punto che dovetti ricorrere all'aiuto di un amico di caserma che si offerse di farmi da appoggio per tutta la strada nel viaggio di quella giornata. La fame aumentava, ma nulla ci fu dato per quel giorno; solamente per la generosità di un greco che incontrammo sul cammino si saziammo con un fico secco, che dividemmo in due. Dopo aver superato le infinite tortuosità del terreno montano, giungemmo stanchi, laceri ed affamati al piano e precisamente sulla strada carrozzabile Berat-Premeti-Giannina. Sollevai il petto in un sospiro sperando di essere giunto al luogo destinato, ma fu una delusione. Continuammo ancora la penosa marcia, distaccati l'uno dall'altro, sfiniti, come un branco di pecore. Incontrammo molti compagni ed interi reggimenti di Greci che ci deridevano e schernivano; spesso ci frugavano nelle tasche pronti anche a picchiarci se avessimo reagito. Furono oltraggiati anche i nostri feriti che in condizioni pietosissime avevano dovuto effettuare l'intero viaggio con le loro gambe. Laceri, scalzi e affamati, percorremmo ancora quattro ore di strada al buio, perché la sera era già scesa, mentre l'acqua incominciò a cadere a catinelle bagnandoci fino alla ossa. La strada ben presto divenne un pantano e l'acqua la percorreva a fiumi. Finalmente scorgemmo Premeti e potemmo in quel luogo riposare per quella notte dentro una chiesa vuota; nessun pagliericcio a terra, e il terreno era freddissimo. Passò così la seconda giornata senza pane e senza acqua. Il mattino seguente riprendemmo ancora il penoso cammino diretti chissà dove. Ben presto però gli zoppi e gli sfiniti si distanziarono, così la colonna divenne di nuovo un branco. La fame aumentava di giorno in giorno e la sete era terribile. Il tempo era schiarito, ma la strada rimaneva sempre interminabile. Avevamo raggiunto il massimo della fame e fu così che cominciammo a perdere la cognizione del nostro essere umano, Guardavamo con occhi famelici sui campi e ci lanciavamo in molti per sradicare qualche cipolla o qualche cavolo, insensibili alle grida e alle bastonate dei greci di scorta; erba di ogni qualità serviva a saziare in qualche modo la fame che ci invadeva. Bucce di arancie sporchissime e lavate nell'acqua altrettanto sporca dei fossi laterali, erano la nostra delizia. Non potrò mai dimenticare il terribile sapore di quell'acqua piena di fango che noi bevevamo da veri assetati. Dopo dieci ore di marcia senza sosta arrivammo presso l'accantonamento provvisorio di un reggimento greco, dove finalmente potemmo avere pane, acqua ed olive. I nostri panni furono disinfettati e noi pure ci potemmo lavare. Fu uno dei più bei momenti della nostra vita. Attendemmo la sera in attesa, come ci dissero, degli ufficiali greci, delle macchine che dovevano trasportarci a Giannina. Fummo così caricati venti per volta su dei camion ed avviati verso quella località. Passammo tutta la notte in vettura; essa filava a grande velocità regalandoci certi scossono da romperci addirittura le ossa indolenzite. A Giannina giungemmo che erano circa le tre del mattino; era ancora buio. Fummo intanati in una caserma onde dormire qualche ora. Così sul nudo terreno potemmo dormire mentre continuavamo a giungere vetture piene di prigionieri; il numero si elevò a cinquecento circa. Il mattino stesso caricati di nuovo su altre macchine in numero di venticinque per ogni camion iniziammo il viaggio per Prevesa, percorrendo una bella strada asfaltata attraversando valichi montani. Dopo tredici ore di camion smontammo in una caserma di Prevesa; cittadella posta in riva al mare e con porto assai importante. Gli altri nostri compagni si trovavano da qualche giorno in quel luogo e vedemmo che alcuno erano adibiti a lavori portuali. Rimasi cinque giorni a Prevesa con la compagnia cara dell'amico Franco e di altri bolognesi conosciuti durante il viaggio. Qui fummo trattati abbastanza bene; ci diedero sei etti di pane con formaggio ed olive, e potemmo dormire in baracconi e riposarci a nostro agio. La cittadina di Prevesa era giornalmente bombardata dagli aerei italiani, le cui bombe facevano tremare le nostre baracche poco distanti dal porto stesso. La grazia di Dio ci salvò sempre poiché, le bombe piovvero intorno a noi lasciando intatte le nostre vite. Passammo così cinque giorni al termine dei quali fummo imbarcati in una nave da carico diretta ad Atene.

Da Prevesa ad Atene

Erano le ore 16 del giorno 14 quando la nave partì silenziosa, mentre circa seicento prigionieri stavano ammucchiati dentro la stiva. Il viaggio proseguì per due giorni e due notti in condizioni di stanchezza inimmaginabili; il solo pane e formaggio non bastava per poterci tenere in forma. Lentamente la nave scivolava sulle acque calme del mare Egeo e, il secondo giorno, si inoltrò nel canale di Corinto. Alle ore 17 giungemmo così al Pireo, il porto di Atene. E' impossibile descrivere tutti i tormenti dei giorni passati in fondo alla stiva, giorni che sono sembrati anni. Il Pireo mi si presentò subito come un bel porto; vi sostavano anche numerose navi inglesi. All'attracco della nave, carabinieri e soldati greci, comandati da un ufficiale erano già disposti per il nostro arrivo; scendemmo ed inquadrati per quattro percorremmo ben due ore di strada a piedi, per poter raggiungere Atene distante 8 km. Fu questo per noi tutti una marcia esasperante e demoralizzante. Tra due fitte ali di popolo attraversammo il Pireo mentre specialmente le donne ci deridevano con frasi oscene, offensive per i nostri capi, scandite in Italiano, Anche i bambini, taluni di pochissimi anni, erano stati radunati a bella posta per insultarci; solo allora sentii tutto il peso della prigionia. Avevo quasi voglia di piangere; solo non lo feci per non dare più soddisfazione ai nostri nemici, ed anche perché qualche persona anziana aveva verso di noi dei gesti di commiserazione. Non dimenticherò mai l'episodio di un vecchio che affacciandosi ad un balcone, mentre delle donne cercavano di tirarlo indietro, si mise a gridare in perfetto italiano: "Coraggio ragazzi, finirà presto". Egli aveva una lunga barba bianca e nel ritirarsi ci fece un cenno come di benedizione. Percorremmo un lunghissimo viale e finalmente giungemmo ad Atene, che era quasi buio. La marcia ci aveva quasi sfiniti ed io diverse volte ero stato sul punti di buttarmi a terra; qualche mio compagno al termine di detta marcia si abbatte al suolo semi-svenuto. Per quella sera fummo rinchiusi in grandi baracche. Stanchi, stracciati, sporchi ed affamati dormimmo tuttavia profondamente, La mattina ci svegliammo e potemmo avere in distribuzione del pane e dell'acqua da bere. La caserma era formata da quattordici baracche poste su due file; le prime sette della prima fila erano riservate ai prigionieri in arrivo, le altre della seconda fila erano riservate ai prigionieri già puliti e disinfettati. Potemmo avere la soddisfazione di assaggiare un poco di riso caldo; ciò rinforzò moltissimo il nostro fisico ed anche un tantino il morale. Ci fu fatto fare un altro bagno caldo però non ci furono dati gli asciugatoi, cosicché dovemmo attendere nudi nel cortile, mentre la popolazione civile si addensava per godersi lo spettacolo. Il freddo era pungente e gli abiti si trovavano nel reparto di disinfestazione. Mentre ce ne stavamo in tale maniera, molti tra i civili, fra cui anche delle signorine ci lanciavano delle frasi offensive. Il pomeriggio ci rasarono barba e capelli che erano diventati lunghissimi; fummo matricolati e messi tra quelli già puliti. In tutto ad Atene si trovavano 1.800 prigionieri, ma ogni giorno ne affluivano ancora. Così pure ogni giorno partivano da duecento a quattrocento di noi assegnati a diversi campi di concentramento. Io rimasi ad Atene dal 16 gennaio al 15 febbraio. Passai circa una settimana all'infermeria in seguito ad uno svenimento che mi colse un giorno mentre in fila con i miei compagni mi apprestavo a prendere il rancio. Passai quandi alla baracca degli ammalati e colàrimasi fino alla partenza per Kalamata, che descriverò nel prossimo capitolo. Passai così le giornate ad Atene cercando di aumentare le mie forze con quel poco di rancio che mi veniva distribuito. I soldati greci ci comandavano, ci guidavano e ci tenevano a guardia trattandoci poco con umanità, con rudezza e spesso con bastonate, La caserma era posto in una bella posizione di Atene. Nelle strade adiacenti vi era molta animazione e molto movimento di vetture, tranvai e passanti. In qualche momento ci sembrava di rivivere un pò di vita delle nostre città in Italia. Poi tutto finì. I miei compagni partirono prima di me per il campo e fu così che dovetti staccarmi dal caro Franco, al quale debbo la mia vita. Trovai subito conforto nell'amicizia sincera e leale di un altro mio compagno della stessa compagnia in linea. La mattina del 15 febbraio partimmo insieme, ed alle quattro giungemmo alla stazione ferroviaria di Atene diretti a Kalamata. In formazione di 400 uomini, muniti di una coperta, di una caravana (gavetta greca) e di un pò di pane e formaggio a testa, percorremo la via ben scortati da guardie e soldati armati. Dopo circa un'ora di strada fummo fatti salire su una vettura di 4^ classe, molto simili ai nostri carri merci, e rinchiusi come bestie feroci in numero di venticinque per ogni vagone. Da quattro piccoli finestrini passava l'aria. Il treno partì alle ore sei e noi ci accomodammo alla meglio sul suolo di legno. Attraverso i finestrini potevamo vedere, avendo attraversato il ponte sul canale di Corinto, dopo 20 ore di ferrovia, ed essendo giunti alle due ore del 16 mattina a Kalamata, dopo aver fatto innumerevoli fermate, che noi viaggiavamo attraverso colline e montagne sempre alla sinistra del mare. Anche durante questo viaggio le sofferenze furono molteplici. Eravamo costretti a fare i nostri bisogni dentro la carrozza ferroviaria. Ci venne negato in modo assoluto un pò d'acqua e noi speravamo sempre, ma invano, che in qualche stazione ce ne avrebbero data, pertanto ad ogni fermata, come da un ordine dato, da tutti i vagoni partiva il grido: "nerò, nerò..." (acqua, acqua...), ma al posto dell'acqua ci rispondeva il grido della folla appositamente adunata, contro di noi e contro il capo dell'Italia. E così attraversammo il Peloponneso e la Morea, giungemmo al campo di concentramento di Kalamata.

A Kalamata

Posta a sud della Grecia, sulle rive del Mare Egeo, Kalamata dà il nome anche al suo golfo che è molto importante. Il nostro campo di concentramento era situato alla periferia e constava di diverse palazzine e baracche. Fummo per quella notte alloggiati in diverse camere e riposammo come sempre sul nudo terreno. Il mattino seguente fummo svegliati da squilli di trombe. Capii che un ordine nuovo era stato istituito per noi prigionieri. In quel campo vivevano altri 3.000 compagni suddivisi in cinque battaglioni; con noi fu formato ikl sesto che si divise come gli altri sei in gruppi. Comandava il gruppo un Maggiore greco, coadiuvato da subalterni e da altri soldati, Assegnato al primo gruppo del sesto battaglione cominciai così la vita del campo di concentramento. Come in una caserma la mattina squillava la sveglia, indi il contrappello generale; a mezzogiorno il rancio, molto disgustoso, ed il pane acido; alle 17 di nuovo il rancio e alle 18 di nuovo il contrappello nelle rispettiva camerate. Quel rancio così male confezionato, produsse in me un effetto disastroso, ma dopo qualche giorno la fame ci costrinse ad ingerire ogni porcheria. Il clima era primaverile nonostante il mese invernale cosicché potemmo trascorrere giornate piene di sole e ognuno in quei momenti andava alla ricerca dei suoi concittadini onde parlare insieme delle famiglie lontane. Per i miei dolori alle gambe, che persistevano anche a Kalamata, potevo camminare solo lentamente. Il conforo e l'aiuto del mio compagno Giulio mi allievò il peso di quell'esilio forzato. Ci legammo di leale amicizia che ci fu d'aiuto reciproco materiale e morale. Dividevamo i cibi, le sofferenze e le aspirazioni ed egli era sempre pronto ad andare per me a ritirare qualche razione in aggiunta ed a prendere di sovente qualche razione d'acqua potabile. Non potrò mai dimenticare il bene fattomi da questo caro amico.

Da Kalamata a Candia

Credevo che con l'arrivo di Kalamata il nostro viaggio fosse terminato; invece no. Forse per ragioni di carattere precauzionale un bel giorno ci fu comunicato che si partiva per ignota destinazione. Una sera e precisamente il giorno 6 marzo, partimmo nella formazione di sette battaglioni per il porto di Kalamata. Giunti al porto, sostammo per dormire sul nudo terreno poiché erano già le ore 21. All'alba eravamo già caricati su tre navi da trasporto che lasciarono Kalamata scortati da un cacciatorpediniere. Dopo aver costeggiato per alcune ore, mi accorsi che ci allontanavamo dalla Grecia. Capii che la nuova dimora doveva essere un'isola. Oltrepassati alcuni isolotti quasi perduti nel Mediterraneo, ci dirigemmo, dopo 12 ore di navigazione verso l'isola che ci fu detta di Creta. Alle ore 21, scendemmo dalle navi in un porto naturale posto in una insenatura circondato da alte colline. Non vi era nessun paese e tutto sembrava molto misterioso. Fummo istradati e sembrava dovesse aver inizio una lunga marcia, che però per quella notte fu troncata. Dormimmo ai piedi di una collina, distante dal punto di arriva circa 2 km. Qualche soldato inglese si vedeva circolare nei dintorni. Solo la notte seguente potei notare, nel porto che ci stava davanti, 2 incrociatori e 10 torpediniere, oltre a navi trasporto, da carico ed altri vapori di servizio locale. Riprendemmo la marcia su ottima strada asfaltata e dopo una serie di tappe quotidiane, giungemmo a Candia città (Iraklion). Ci fecero percorrere in 7 giorni i 25 km., e fu grande fortuna aver trovato una buona strada. Giornalmente ci veniva distribuita mezza pagnotta e dieci olive, in massima parte ammuffite. Qualche volta ci venivano date, alla sera, due sardine. In vista di Candia, sostammo la notte, e la mattina entrammo nella città. Ancora una volta sento di dover ringraziare il mio amcio Giulio per l'assistenza che ebbe verso di me durante la faticosa marcia. Egli mi aiutò a portare il peso del rotolo che conteneva la coperta, il pastrano e gli altri indumenti. Il mio fisico indebolito non mi permetteva soverchia fatica ed ebbe a risentirne anche il cuore. Il mio amico pertanto, oltre a portare il peso del mio rotolo, mi faceva appoggiare al suo braccio. Credo che ancora una volta mi abbia salvato la vita. Quella mattina il tempo ci tradì: si alzò un grande vento e la pioggia cominciò a cadere a torrenti. Ne fummo tutti infradiciti e così bagnati entrammo nella citta; all'ingresso, pure essa sotto alla pioggia, era una crocerossina. Nel vedere la nostra martoriata colonna incominciò a piangere. Teneva per mano un bambino; e dopo ci fu detto che anche'ella aveva dei prigionieri in Italia. Per il momento fummo messi a riposare in diversi stabilimenti. Molti di questi erano privi di aria e di luce e poco spaziosi per contenerci tutti. Non potemmo neanche sdraiarci a terra perché questa era tutta bagnata dallo sgocciolio dei nostri panni. Dimenticavo un episodio: durante una sosta di tappa, essendo vicini ad una paese, molti civili si avvicinarono a noi. Fra questi una signorina di circa 18 anni che si fece conoscere come nativa italiana. Infatti parlava benissimo la nostra lingua. Ci disse che prima della guerra si trovava in Italia e precisamente a Trieste, ove suo padre, nativo greco, aveva un commercio. Ella di nascosto ci distribuì molti pacchetti di sigarette e ci confortò con queste parole: "Coraggio ragazzi, la vittoria è vicina perché le nostre truppe stanno avanzando. Ieri sera i nostri aerei hanno bombardato la baia di Suda ed hanno affondato vari cacciatorpedinieri". Dopo due giorni ci fecero uscire da quei fabbricati e ci distribuirono del pane, dividendoci poi per battaglioni. Il mio fu assegnato ad altro stabilimento, dove potemmo sistemarci più comodamente al suolo. Sempre provvisioriamente si rimase colà in attesa di partire di nuovo per ignota destinazione. Rimanemmo accanto per 9 giorni e potemmo avere un po' più di libertò, scendendo a passeggiare nel cortile. Il rancio veniva confezionato a caldo, come a Kalamata. Un giorno ci fu anche consentito di fare il bagno al mare. Il tempo ridivenne buono favorendo così le incursioni aeree di apparecchi Italiani sul porto di Candia. La permanenza nello stabilimento accentuò gli acuti dolori alle mie gambe, che in tal modo mi impedirono i liberi movimenti. Il giorno 21 partimmo, ed io fui aggregato alla squadra di ammalati. Dopo 5 ore di lentissima marcia fra le solide colline, otrepassando alcuni caratteristici villaggi, fummo costretti alloggiare dentro una scuola di un villaggio, mentre gli altri battaglioni erano dislocati poco discosti da noi. Dal 27 marzo si iniziava così un nuovo periodo di prigionia. Narro adesso qualche particolare sfuggitomi nello svolgimento di questa mia avventura; comincio col dire che in ogni momento non mi è mai mancato l'aiuto di Dio. Rassegnato a sopportare qualunque sacrificio per amor suo, ho trovato sempre moltissimo conforto nella preghiera. Il mio morale è stato sempre alto poiché nella preghiera e nella certezza sicura della vittoria ha trovato sempre rimedio onde non essere preso da avvilimento. Così per esempio ho potuto leggere alcune sacre meditaizoni e moltissime preghiere contenute in un libraccio che gentilmente mi prestava un mio caro compagno. Il fante Giulio Bonfanti di Monza-Brugherio, Via S.Margherita, 15. Il fante Valagussa Enrico di Giussano-Milano. Con grande fervore ho sempre adorato il Sacro Cuore di Gesù e la Vergine S.S. In amor suo ho fatto una novena chiedendo la grazia di potermi mantenere in buona salute e ritornare in Italia perriabbracciare la mia cara mamma, la mia cara Dina e l'indimenticabile Rosina. Una novena pure ho recitato in onore di S.Giovanni Bosco perottenre anche da lui la medesima grazia. A tale proposito ho promesso un'offerta di Lire 50 per le opere Salesiane in Bologna. Purtroppo ho potuto costatare che molti tra i miei compagni, per la disgrazia loro capitata, bestemmiassero spesso. Questi però erano quelli privi di una certa cultura ed educazione. Dio grande e buono li avrà perdonati e compatiti. Quando io ero preso da qualche momento di tristezza, potevo sempre trovare serenità nella preghiera e nella mia incrollabile fede. Nel pericolo e nelle controversie di questo periodo ho potuto conoscere quando sia grande e vero l'aiuto di Dio ed ho promesso a lui una vita quotidiana quando la grazia ottenuta mi farà ritornare in Italia dai miei cari. La mancanza della possibilità di recarsi alla Messa la domenica mi ha recato dispiacere. Spiritualmente ho assistito ad Essa, recitando le preghiere della S.Messa contenute nel libretto prestatomi. Per ciò che riguarda la possibilità di corrispondere con la mia famiglia, non ho mancato di scrivere ad essa due lettere una il 20 gennaio e l'altra il 10 febbraio, ed una cartolina il 19 febbraio; poi la carta necessaria non ci è stata più passata e allora più nullla ho potuto scrivere. Spero che i miei cari avranno ricevuto le mie notizie, avendo sempre confidato nell'aiuto del Signore.

Il mio stato

Moralmente parlando, ho già detto come la fede di Dio mi ha sempre sostenuto. Fisicamente ho sofferto non poco. Debole di costituzione per natura, ho sopportato infiniti dolori appena fatto progioniero. La dolorosa marcia di tre giorni senza mangiare, produsse al mio corpo un colpo tremendo, oltre a quello infertomi dal peso della lettiga. Ricordo che lo sforzo mi provocò uno strappo al cuore, come ho già raccontato fu in quel momento che invocai la morte rassegnato. La debolezza prodotta poi dal poco cibo che ci veniva distribuito fu la causa di un piccolo svenimento ad Atene, onde fui trasportato all'infermeria. Ho sempre avuto dolori alla gamba ferita, indi anche all'altra come una specie di artrite. Ho sempre sopportato punture strappi e bruciori, non potendo realizzare nessuna cura per mancanza di medicinali e perché i medici, sia greci che italiani, non hanno voluto riconoscere il mio male. Un fatto solo è certo: che io soffrivo veramente e con dolori. Debbo a Dio l'aiuto e la forza di aver percorso 120 Km. a piedi senza mai eccessivamente lamentarmi; egli mi ha assistito ad ogni momento e a lui debbo ancora il mio ringraziamento, ma sincero. Il mio ritorno inItalia mi permetterà l'inizio di una cura che saprà completamente ristabilirmi e rinforzarmi. Per ciò che riguarda il mio abito militare non si riconosceva più fin da quando ero in linea, infangato fino ai capelli con lo stato di mota formatosi sulla divisa, solo col tempo scomparve, da solo e a poco a poco; senza pastrano, perché un colpo di mortaio me lo fece scomparire, potei ritrovarne uno dopo fatto prigioniero, ad Atene. La divisa si ridusse a brandelli nelle lunghe giornate di marcia, facendoci comparire tutti come dei poveri disgraziati. Fu così che passammo tra i cittadini ateniesi in quello stato. Chi aveva per copricapo un guanto, chi un calzettino, chi un fazzoletto, dato che l'elmetto ci fu tolto appena fatti progionieri ed il berretto della divisa stessa perduto. Taluni erano perfino privi di pantaloni, ed in mutande, hanno vissuto fino ad Atene quel periodo di doloroso calvario. Chi senza giacca e capelli e barba, ognuno di noi presentava un aspetto addirittura miserando e compassionevole. Fummo, grazie a Dio, ripuliti e completati del vestiario ad Atene, ciò che ci sollevò alquanto l'anima e il corpo. Dico ache il corpo perché eravamo costretti a vivere in tormento quotidiano provocato dalla presenza di tanti animaletti sul corpo stesso ai quali ogni giorno si dava la caccia. Tra un rancio e l'altro, occupavamo il tempo rattoppando la nostra divisa alla meglio e coi mezzi di fortuna a nostra disposizione. Per concludere in poche parole, la nostra figura non era di certo edificante. Sempre sporchi e con scarpe rotte; chi con le calzette e chi senza, avevamo certi rattoppi sulla divisa che formavano addirittura disegni e forme geometriche: ecco l'arnese che rappresentava la nostra persona. Nell'ozio vissuto, quasi tutti hanno avuto il tempo per costruirsi originali copricapi con iscrizioni talvolta commoventi per l'alto significato delle parole stesse. Ecco alcune di quelle frasi: "Mamma presto ritornerò", "Papà, mamma, sorella non piangete, Vostro figlio vi pensa e presto ritornerà", "Nell'età più bella i giorni più tristi", "Regina pacis ora pro nobis". Il sentimento religioso era diffuso in tutti noi ed una grande consolazione portava al nostro cuore la recita del santo Rosario che un soldato diceva ogni sera ad alta voce. Radunati dopo un qualche giorno di distacco in un unico capannone, già stabilimento, e sistemati colà con tutte le nostre robe, 400 voci rispondevano al S.Rosario serale. Le sentinelle greche rispettavano sempre la cerimonia nostra ad eccezione di qualcuna di esse, la quale dimostrava a noi col canticchiare quanto grande fosse la sua ignoranza. Il trattamento dei soldati greci adibiti alla nostra guardia non è stato uno dei migliori; pure essendoci tra queste persone aventi del distinto, le altre completavano il numero e si dimostravano sempre ostili e barbare. Distribuzioni di bastonate, nervate e colpi col calcio del fucile dove capitavano; erano all'ordine del giorno; talvolta date giustamente, ma il più delle volte arrivavano quando meno le aspettavi e senza ragione. Ricordo di aver provato anch'io diverse volte il sentirmi improvvisamente arrivare tra copo e collo qualche schiaffo, urtoni e bastonate, poco gradevoli, con lascito di qualche dolore. Pazienza ho sopportato tutto con rassegnazione, per amor di Dio. Nel villaggio raggiunto dopo Candia, la nostra vita si svolse meno oziosa della precendente. Molti nostri soldati sono andati volontariamente a lavorare nei campi, presso i contadini, che si presentavano ai nostri capi per chiedere uomini; percepivano 20 dracme per giornata oltre al mangiare. Di sera facevano ritorno, così a turno sono andati quasi tutti. Per la mia debole costituzione fisica non sono mai potuto andare a lavorare ed avere una dracma in tasca. Ma a me è dispiaciuto poco, 20 dracme si possono spendere solo per l'acquisto di sigarette ed io non avendo l'abitudine di fumare, non ho mai desiderato avere denaro. Ancora per passatempo i prigionieri hanno fabbricato anelli, pipe e bocchini di legno, molti dei quli veramente artistici, così come lo sono alcuni portasigarette di alluminio. Pure mazzi di carte da gioco abbiamo fabbricato con cartoncini d sigarette, disegnandoci sopra l'effige. Il tempo così è sempre riuscito meno ozioso, permettendo a tutti di poter giocare a carte.

Il cibo

Il cibo sempre scarso, qualche volta ci è anche mancato; già in liena cominciava a scarseggiare, seguirono poi i tre giorni di astinenza completa dopo che fui fatto progioniero. Solamente un po' di pane e formaggio od olive in numero di 13 o 14 a testa quotidianamente ci fu passato per tutto il periodo da Giannina ad Atene. Si mangiava da affamati e dopo si era più affamati di prima. I miei compagni vendettero alcuni loro indumenti per poter acquistare pane ed io cambiai la catenella porta matricola, un porta pettine e due lame per barba per un tozzo di pane formaggio e due arance, tutto ciò a Prevesa. Ad Atene, finalmente, al mattino ci era passato il thé, a mezzogiorno e alla sera rancio consistente in riso o pasta o patate o fagiuoli, e tutto però in razioni scarse, oltre il pane di 6 hg. Tuttavia questa distribuzione valse a rinforzare un po' il nostro stato fisico ed a farci almeno vivere. A kalamata purtroppo, nonostante la razione di rancio più abbondante, dovetti per circa una settimana rinunciare ad esso per la forte acidità del pane ed il cattivo odoro dello olio che ci mettevano nel rancio stesso. Non dico bugia se affermo che quest'ultimo era olio da motore. Abituai lo stomaco a simile roba, e la fame cieca mi fece trangugiare il tutto come se nulla fi anormale si facesse sentire al palato. A Candia invece l'olio che in Grecia viene usato moltissimo in qualunque cibo, era ottimo e potemmo gustare ottimi ranci e ottimo pane, come tutt'ora nel villaggio nel quale mi trovo. Non si creda però che la quantità del rancio distribuitaci potesse bastare per le nostre forze tanto da renderle adatte ai lavori pesanti; esso non ci sazia, ma ci basta, come diciamo noi, a mantenerci in vita nell'ozio forzato di questa prigionia. Ieri 13 aprile, giorno di Pasqua, tanto a mezzodì che alla sera, nel rancio è stato aggiunto qualche pezzetto di carne di capretto. Hanno così voluto darci un po' di polvere negli occhi, i Greci! Se però non ho potuto saziare il corpo in quel giorno, almeno l'anima ho potuto saziarla. La lettura della S.Messa al mattino, descritta particolareggiatamente nel libretto già detto, la recita del Rosario al pomeriggio e quello collettivo alla sera, mi ha fatto chiudere questo santo giorno serenamente. Ho pensato ai miei cari ed ho pregato per loro; così faccio ogni domenica.

Sabato 24

Stamane da Iraklion (Candia) sono arrivati i fornai. Essi hanno raccontato che Iraklion è un mucchio di rovine, tutto è un incendio. I borghesi armati si difendono ed altri scappano. Duemila paracadutisti tedeschi lanciati dagli apparecchi, sono stati in parte uccisi dai borghesi; per vendicarsi apparecchi tedeschi ieri hanno bombardato ed incendiato Iraklon. Oggi continuano i bombardamenti e come tuoni si odono gli scoppi delle bombe portati dal vento fino a noi. Confidiamo in Dio essere prossima la nostra liberazione. Un vento fortissimo confuso col tuono degli scoppi paurosi, fa sembrare addirittura questa giornata la fine del mondo. "Signore salva le nostre anime se non potremo salvare il nostro corpo". Profughi passano sulla strada adiacente. Cibo: un quarto di pane.

Domenica 25

Niente pane e niente rancio; tremila quintali di farina saltati in aria durante il bombardamento di Iraklion. Continuano i bombardamenti.

Lunedì 26

Un quarto di pane senza rancio. La debolezza aumenta e parecchi cadono ammalati. Attendiamo con impazienza la salvezza dai tedeschi che intanto continuano a bombardare la costa e Iraklion. Se manca però il cibo il nostro morale è alto grazie alla preghiera che quotidianamente rivolgiamo a Dio, fiduciosi che esso non vorrà abbandonarci in questo momento decisivo; però personalmente mi sento rassegnato a qualunque sorte.

Martedì 27

Ci è stato distribuito oggi per rancio caldo una gavetta di acqua e farina oltre a un quarto di pane. La provvidenza non ci abbandona. I viveri da Iraklion non arrivano più, segno evidente che la città sta per essere occupata dai tedeschi. Attendiamo con ansia l'arrivo dei salvatori e restiamo fiduciosi nell'aiuto del Signore. Continua il bombardamento e il passaggio dei profughi da Iraklion

Mercoledì 28

Cibo: ceci piccoli e un quarto di pane. La provvidenza non è mancata. All'ora del rancio due bombardieri tedeschi hanno lasciato caedre otto bombe nei paesi che circondavano la nostra vallata. Il nostro morale è sempre alto. Un prigioniero è morto di fame, pace all'anima sua; non non disperiamo, i salvatori non sono distanti da noi che 16 Km.; sono convinto "che la va a strappi" sul serio. I paracadutisti scendono quotidianamente nell'isola. Notizie incerte annunciano lo sbarco degli Italiani in quattro punti dell'isola, e che i greci si sono arresi, mentre gli inglesi scampati erano fuggiti. La gioia è immensa: ci abbracciamo, sono arrivati i nostri fratelli.

Giovedì 29

Radio fante comunica che i tedeschi sono ancora sbarcati a 40 Km. da noi.

Alle ore 13 circa, un apparecchio tedesco sorvolava a bassa quota il campo di concentramento; una mitragliera inglese, di guardia al campo, apriva il fuoco contro l'apparecchio. Questo ritornato, e credendo trattarsi evidentemente di un campo di concentramento nemico, lo bombardava lasciando cadere 12 bombe e lo mitragliava. In questa azione morivano due prigionieri; i feriti furono una trentina. Ritornato nuovamente l'apparecchio uno dei nostri compagni i si mise a fare segnalazioni con bandierine Italo-Tedesche. L'apparecchio smise immediatamente di bombardare e mitragliare e si allontanò mentre il pilota salutava con gesti di mano.

Venerdì 30

Oggi sono arrivati i tedeschi! Scene di vera gioia alla vista delle loro divise che noi conosciamo, divise pulite. Siamo pronti per tornare a casa, siamo pronti per le nostre famiglie e per il Duce.

Cara mamma, cara Dina, amata Rosina, presto ci riabbracceremo. 

FINE 

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