Il segreto degli angeli

By gsalatiello

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Tommaso è un ragazzo di 17 anni la cui vita viene stravolta dal rapimento della sorellina Anna per mano di un... More

Capitolo Uno

Prologo

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By gsalatiello

Il buio avanzava veloce quella sera. Come un cavaliere pronto a tutto per il suo signore, la sera ingoiava tutta la luce arancione del pomeriggio, facendo spazio alla notte. Era una sera d'inverno, quando le giornate durano di meno e il freddo e il silenzio ricoprono le strade. Freddo e silenzioso era anche quel vicoletto fiancheggiato di case e palazzi dalle cui finestre illuminate si capiva che tutti si apprestavano a cenare, dopo una giornata di lavoro o di studio per poi rimettersi a letto e ricaricarsi di energie per il giorno seguente. Intanto, i lampioni si andavano accendendo, uno alla volta, ordinati, con la loro luce calda e talvolta traballante.

Proprio il lampione in fondo alla strada, nonostante avesse da poco subito un intervento di manutenzione, funzionava male, con la luce che andava e veniva e un fastidioso ronzio, come se vi ci fossero intrappolate dentro centinaia di mosche. Anche le luci della villetta dietro al lampione rotto, la mia, erano quasi tutte accese: eccezion fatta per quella della cameretta in cui mi trovavo, che era spenta: ero ancora seduto di fronte al computer quella sera, e la luce fioca e blu della televisione che mi faceva da monitor mi bastava. Ero tutto concentrato a cercare un sito che mi permettesse di guardare in italiano i primi episodi di quella serie di cui parlavano praticamente tutti a scuola; facevo il linguistico e l'inglese lo masticavo abbastanza bene ma non avevo nessuna voglia di applicarmi a tradurre quello che dicevano i personaggi e i sottotitoli non li sopporto per niente: ti concentri a leggere quelle stupide righe bianche che spesso non vanno a tempo con la scena o traducono in modo completamente sbagliato e ti perdi praticamente tutto il resto... E poi avevo bisogno di svago dopo tre ore passate a studiare.

Finalmente lo trovo e aspetto che carichi in modo da non avere nessuna interruzione durante la visione: odio quando si blocca nel bel mezzo di una scena, magari importante.

Ci mette circa 8 minuti a causa della linea Wi-Fi che fa veramente schifo, poi posso schiacciare play e gettarmi sul letto: non è un eufemismo, mi ci getto proprio, come un sacco di patate.

Mi aggiusto il ciuffo castano che si è scombinato durante il volo e mi sistemo per bene sul letto.

Mi guardo un po' intorno mentre sullo schermo iniziano a comparire le prime immagini. Mi piace la mia stanza, me lo dico ogni volta che mi incanto a guardarla. È sempre stata mia e dai 12 anni in poi ho iniziato ad ampliare questo concetto: se era mia potevo farci quello che volevo. Scoprii ben presto che quello che volevo era tappezzarla di poster di serie tv e film e sporadicamente qualche cantante. Nessun calciatore, non è roba che fa per me. Così le pareti grigie erano praticamente scomparse.

Sullo schermo comparve finalmente il titolo della serie ed io ero già pronto con lo smartphone a fare una foto da mandare ai miei amici... Mi sorpresi a domandarmi perché lo stessi facendo: di sicuro di lì a poco sarei stato inondato di messaggi che mi avrebbero disturbato non poco e la risposta era "non lo so": non sapevo perché lo stessi facendo e infondo era una stupidaggine, ma lo feci lo stesso. Poi tolsi la vibrazione al cellulare: l'apoteosi della stupidaggine.

Ora potevo finalmente godermi la serie.

Mi piace quando tutto fila liscio, quando è tutto tranquillo e tu non hai nulla di cui preoccuparti. Quella era una di quelle sere: io tranquillo a guardare la mia serie tv in streaming nella mia camera buia, bella e tappezzata di poster, mia madre in cucina a preparare la cena e Anna, la mia sorellina, in giardino a giocare come sempre sotto l'occhio vigile di mia madre in attesa che tornasse papà da lavoro e che si facesse una doccia per metterci finalmente a tavola.

Sullo schermo, una bella ragazza passeggiava con l'amica dai ricci capelli rossi tra i corridoi di una finta università. Guardavo quella serie con molta attenzione perché mi era stato consigliato fino allo sfinimento di guardarla, eppure fino ad allora non era successo granché: questa tipa si era svegliata, aveva fatto una doccia in un tempo da Show dei Record, aveva mandato a quel paese il povero fidanzato che come unica colpa aveva quella di essersi dimenticato di aggiungere del miele al latte ma poi ci aveva pomiciato sul bancone della cucina perché era mezzo nudo e fanculo il miele nel latte!

Insomma, abbastanza stupida come cosa. Non volevo perdermi l'istante in cui iniziava la vera storia, quella che aveva fatto tanto parlare, quella che aveva tenuto tutti con gli occhi incollati allo schermo perché se era quella la storia, allora ero circondato da idioti patentati.

Quando le due entrarono in un'ampia classe e presero posto per una lezione di spagnolo suonò improvvisamente il telefono di casa. Non avevo nessuna intenzione di alzarmi.

«Mamma! Rispondi tu!» urlo. Lei odia che lo faccia ma di certo non posso mandarle un messaggio sul cellulare. A dire il vero ci ho provato, una volta, ma andò su tutte le furie: iniziò a dire che siamo esseri umani e non le sembrava normale che dovessimo mandarci dei messaggi a nemmeno dieci metri di distanza. Nella mia mente mi dissi che in realtà il mio letto dista molto più di dieci metri della cucina, ma preferii non ripeterlo ad alta voce, non mi sembrava il caso.

Ad ogni modo, con una serie tv che mi faceva dubitare dell'affidabilità dei gusti dei miei amici e un lampione che emanava luce a intermittenza che invece mi faceva mettere in dubbio l'abilità dell'operaio che l'aveva "riparato" poche settimane prima, la mia unica certezza era che per nessun motivo al mondo mi sarei mosso da quel letto e lei se ne sarebbe accorta di lì a poco: il telefono smise di squillare e sentì la voce della mamma debole dietro la porta in un "Pronto" un po' stizzito dal mio comportamento.

Mi preparai a vedermela piombare in camera con le braccia incrociate e un'espressione incredibilmente brutta sul volto e abbassai un po' il volume per sentire la conversazione: c'era una buona probabilità che fosse mio padre e io avevo veramente fame.

Ma non era mio padre, era uno stupido scherzo telefonico, di quelli in cui restano zitti dietro la cornetta e tu rimani lì a ripetere "Pronto?! Chi parla?!" come un deficiente con le vene che ti pulsano sulle tempie. Sbuffai pensando a quanto fosse stupido uno scherzo del genere: personalmente preferisco quelli in cui fingono di essere un operatore telefonico o uno che ti ha prestato dei soldi: almeno lì puoi divertirti un po' stando al gioco fino a non capire più chi sta prendendo per il culo chi.

Dopo qualche piccola imprecazione soffocata mia madre mise giù e io rialzai il volume.

Ma non passò molto tempo prima che sentissi di nuovo la voce di mia madre: stavolta gridava, ma non il mio nome per farmi una ramanzina come mi ero aspettato. Fece solo un urlo. Un urlo lungo e terrificante.

Mi precipitai fuori dalla mia stanza, gettando a terra il telecomando, attraversai il breve corridoio seguendo la luce che proveniva dalla cucina, scivolando un po' per via dei calzini e del pavimento lavato da poco. Appena raggiunsi l'arco della porta scorrevole che dava alla cucina ci svoltai dentro e dovetti aggrapparmi allo stipite per non cadere faccia a terra.

Non c'era. Guardai a destra e sinistra, cercandola, ma non la vidi: poi mi accorsi che la porta che dava al giardino era aperta.

Mi precipitai fuori, il buio e il freddo mi avvolsero e i calzini si bagnarono calpestando l'erba umida: vidi la mamma in ginocchio sull'erba a piangere e gridare, piegata su sé stessa.

«Mamma! Mamma cosa è successo? Perché hai gridato in quel modo?» le chiesi allarmato, inginocchiandomi al suo fianco.

Lei continuava a piangere e singhiozzare e sembrava non riuscire a parlare. Le accarezzavo la schiena nel tentativo di calmarla, le viscere avvolte dal panico, ma lei continuava a dondolare su se stessa e piangere finché non gridò un nome: Anna.

Mi guardai intorno: il giardino buio era vuoto ed il cancelletto che dava alla strada era semi aperto.

Di scatto mi alzai, gridando il nome di mia sorella e mi scaraventai in strada, cercando di scovare un'ombra, una forma, un movimento sospetto che mi svelassero dove si fosse cacciata mia sorella.

La luce dei lampioni era poca e debole e quella maledetta oscurità non mi aiutava.

Faceva freddo e stavo congelando, i piedi bagnati mi facevano male sul duro asfalto consumato dal tempo ma non mi importava. Iniziai a correre disperatamente per la strada, gridando e attirando l'attenzione della gente che viveva lì. Qualcuno si affacciò al balcone ma non disse nulla.

Io gridavo, la chiamavo, ma non rispondeva nessuno. Sembrava che tutto intorno a me fosse deserto.

Improvvisamente mi arrestai, iniziai a girare piano su me stesso e la voce si faceva sempre più debole mentre la consapevolezza di quello che era successo si faceva più forte.

Lì iniziai a piangere: le lacrime mi cadevano calde sul viso e la bocca si riempiva di saliva. Mi portai le mani in testa e affondai le dita nella massa di capelli lisci.

Anna era scomparsa. Che si fosse allontanata e persa o fosse stata rapita, Anna non c'era più.

Tornai lentamente nel giardino di casa mia dove mia mamma era ancora inginocchiata sull'erba a piangere. Mi chiesi perché non si fosse alzata per venire con me a cercarla.

Solo allora mi accorsi che teneva qualcosa in mano: una bambola di pezza con riccioli dorati e un paio di ali. Un segno così innocente, di quei tempi, era la cosa peggiore che ti potesse capitare di vedere.

Era da un po' che in città sparivano bambini. Non si capiva perché, non si capiva in che modo. L'unica cosa certa era quella bambola di pezza: ogni volta che un bambino scompariva al suo posto si trovava questa bambola.

Si temeva il peggio, le ipotesi più strane venivano fuori ogni giorno e la paura avvolgeva la gente. Poi un giorno comparvero dal nulla degli strani manifesti. Furono piazzati per tutta la città in una notte.

Il Sindaco, impacciato e spaventato, fece sapere di non avere niente a che fare con quei manifesti, che non ne aveva autorizzato in nessun modo l'affissione. In realtà sembrava abbastanza logico e tutti si innervosirono all'idea che il Sindaco decidesse di parlare solo per affermare di non sapere niente di quei manifesti.

Ovunque in città spuntavano volantini e cartelli con quella bambola, con l'espressione innocente che solo il peggiore dei diavoli è capace di fare. Semplice, sullo sfondo bianco compariva a grosse lettere maiuscole la scritta "TREMATE" con due piccole righe che spiegavano che il tempo di abusi e cattiverie era finito, che avrebbero portato via ogni bambino maltrattato. Ed era firmato "gli Angeli". Nessuno li aveva mai sentiti nominare ma tutti avrebbero imparato presto a conoscerli bene.

Così, notte dopo notte sparivano sempre più bambini e al loro posto appariva quella bambola. Era un po' come la loro "firma".

Ma allora perché proprio Anna? I nostri genitori alzavano raramente la voce e ancor più raramente le mani. Se rapivano i bambini "vittime di violenza" non si spiegava perché avessero deciso di portare via Anna. Mi sentivo terribilmente confuso e non pretendevo di capirci molto: erano mesi ormai che la polizia brancolava nel buio senza riuscire a darsi una spiegazione con un minimo di logica.

Richiusi in fretta il cancelletto del giardino e tentai di convincere la mamma a rientrare ma sembrava che non mi sentisse, così la lasciai lì, ad abbracciarsi quell'angioletto infernale.

Rientrai e composi immediatamente il numero della polizia. Risposero quasi immediatamente.

«Polizia di Stato, c'è un'emergenza?» rispose una voce femminile con tono meccanico e svogliato.

«Sì, mia sorella, mia sorella di 5 anni è stata rapita!» gridai allarmato.

«Cristo, ancora» fu l'unica, stanca, risposta.

Poco dopo la polizia era a casa e dovetti dare io tutte le spiegazioni necessarie: mamma era troppo scioccata per parlare e papà, che era rientrato da poco, non se la passava meglio.

Insieme alla polizia, arrivarono quasi immediatamente anche i giornalisti. Li vidi accalcarsi intorno a me e riempirmi di domande mentre altri facevano riprese del vialetto e del giardino.

Non parlai con loro. Ci avrebbe pensato un poliziotto, poco dopo, a fornire tutti i dettagli.

Mi chiusi in casa e aspettai che se ne andassero tutti, fermo in piedi dietro la finestra della cucina, con le braccia incrociate: non so se mi videro o se semplicemente non potevano fare più niente in quel posto, ma se ne andarono tutti.

Chiusi le imposte della finestra e mi andai a sedere sul divano in soggiorno. Mamma e papà erano in camera da letto ma dubito che stessero dormendo.

Avevo perso ogni traccia di appetito, così mi accesi la tv e restai lì. Non dormii quella notte.

A mezzanotte il salotto si riempì del motivetto del telegiornale. La signora bionda vestita in maniera elegante leggeva i titoli delle notizie del giorno. Parlarono anche di Anna.

"Ci hanno messo poco" pensai. "Ormai non si sprecano nemmeno più a fare edizioni straordinarie".

Quando ci furono le prime sparizioni il tiggì bloccava tutte le trasmissioni per informare la gente che un altro bambino era sparito. Quando poi divenne routine, si limitarono a montare in fretta i servizi da mandare in onda durante l'edizione più vicina.

«Un'altra sparizione di bambini stasera intorno alle sei. Stavolta è caduta vittima di questo terribile gruppo di maniaci che si fa chiamare "Angeli" una bambina di 5 anni di nome Anna. Ad allertare la polizia è il fratello di 17 anni che però non se la sente di parlare con i giornalisti. Troppo scioccati i genitori che si sono rinchiusi in casa. A trovare la bambola è stata la mamma, nel giardino in cui la piccola Anna stava giocando. Il fratello ci riferisce che prima della sparizione avevano ricevuto una telefonata: alzata la cornetta non si sentiva nessuna risposta. Non era uno stupido scherzo telefonico ma, probabilmente, un diversivo messo in atto dagli Angeli per rapire la bimba. La polizia sta ora cercando di rintracciare la telefonata ma per il momento, così come per le altre sparizioni, le cose sono poco chiare e le indagini molto difficili».

Fu allora che capii. La polizia non sarebbe mai arrivata da nessuna parte, non aveva uno straccio di pista.

Dovevo farlo da solo. Avrei trovato Anna.

Non avevo idea di come fare né da che parte cominciare ma quando finalmente mi misi a letto, alle cinque del mattino, me lo promisi. Lo promisi a me, ai miei e ad Anna.

Promisi che l'avrei trovata.

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