Il ritorno del dio

By paulvern

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In un futuro prossimo, i Krilliani conquistano la terra e, grazie alla loro tecnologia superiore, soggiogano... More

Premessa
Prologo
Capitolo 1
Capitolo 2
Capitolo 4
Capitolo 5
Capitolo 6
Capitolo 7
Capitolo 8
Capitolo 9
Capitolo 10

Capitolo 3

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By paulvern

Lenora

Lenora aveva sempre pensato che un inchino non facesse alcun rumore, ma che il gesto risuonasse come un tamburo di guerra nell'anima di chiunque riconosceva con quell'assurdo rituale la superiorità di un altro essere umano. Lenora Oresten non si era mai dovuta inchinare in vita sua e nessuna delle persone della sua terra si era mai dovuta prostrare di fronte a lei o suo padre. Nell'immensa sala del trono, seicento persone si inchinarono nello stesso istante. Migliaia di vesti, orecchini, collane, monete e spade risuonarono nello stesso momento. Lenora avrebbe ricordato il suono di quel gesto collettivo come l'assordante cacofonia della sottomissione. Per un attimo, l'annuncio delle trombe e l'incredibile reazione istantanea di tutta la folla l'aveva indotta a un impercettibile flessione delle gambe, ma poi, incurante delle conseguenze, aveva teso tutte le membra, drizzato la schiena e le gambe e aveva indossato il sorriso che utilizzava quando riusciva a stipulare un ottimo affare commerciale.

Nessuno pareva avere notato la sua disubbidienza o nessuno sapeva come comportarsi in un evenienza che il protocollo reale non aveva mai dovuto gestire. Persino il potente senatore Flavio e il suo amico Richard, che da lei distavano solo un passo, non parevano essersi accorti che Lenora era ancora in piedi. Sapeva che presto la sua disubbidienza sarebbe stata notata da qualche invisibile osservatore, ma era curiosissima di vedere con quale metodo l'avrebbero obbligata a prostrarsi di fronte a un vecchio re e un falso dio. Fu Richard, qualche istante più tardi, a riportarla alla realtà. Sempre in ginocchio e con lo sguardo fisso al terreno, sussurrò: - Inchinati anche tu o dal colonnato partirà un dardo di balestra che si conficcherà nella tua splendida schiena altezzosa e ti farà inchinare per un po' più di un minuto. Hai gli abiti di una schiava. Qualcuno starà già prendendo la mira senza troppo curarsi della tua prematura dipartita.

Lenora parve realizzare solo allora che dopotutto si trovava in mezzo a un popolo selvaggio. Improvvisamente si rese conto di quanto le dolevano gli arti per la lunga e scomoda cavalcata, del fetore che ammorbava la sala rendendo l'aria praticamente irrespirabile per chi era abituato a un bagno tutti i giorni. Scrutò le mille piccole macchie in quelli che dovevano essere i vestiti più suntuosi, ma rigorosamente non stirati, della nobiltà di tutto il regno di Bravia. Valutò la semplice possibilità di sopportare l'innocuo dardo che si sarebbe vaporizzato a contatto col suo esoscudo, ma concluse che non era nè il momento nè il luogo per rivelare i suoi segreti ai Braviani. Con grazia  e studiata lentezza si inchinò al fianco del console. I suoi occhi rimasero fissi sul trono e quello che stava per accadere. Era moderatamente certa che il suo sguardo irriverente non sarebbe stato notato ora che la sua posa si era uniformata a quella del resto degli invitati. Il suo sorriso rimase spavaldo e compiaciuto.

I trombettieri interruppero la loro fanfara. Anche loro si inchinarono a destra e a sinistra del trono.

Il cerimoniere del re, l'eunuco Palladio Curzio Nimone, uno degli uomini più grassi che Lenora avesse mai visto, si animò dalla suo apparente torpore, comparendo in tutta la sua flaccida maestosità dal retro del grande trono di quarzo. Con una solenne voce da baritono, probabilmente una delle pochissime qualità che era riuscito a mantenere nei lunghi e oziosi anni  di servizio alla corte del re declamò:

- Rendiamo omaggio alle luci dei nostri giorni, ai signori delle nostre terre, al guardiano del nostro regno, al padrone delle nostre vite e al custode delle nostre anime; rendiamo omaggio a Raunat, nostro unico dio e protettore e al suo più fedele servo, il nostro amato re Publio Crasso Giannone.

Lenora non potè fare a meno di notare che nel discorso dell'eunuco, sicuramente a lungo imbastito, non si capiva con certezza se fosse Raunat o piuttosto il vecchio Publio quello che la gente doveva omaggiare come signore, guardiano e custode. Sicuramente Publio si era dovuto sottomettere alla prepotente presenza di Raunat definendosi suo servo, ma al contempo rimaneva una delle luci e dei signori del regno. Un servo, ma praticamente un dio anche lui. Lenora smise di sorridere.

Il cerimoniere, con un rituale che doveva essere del tutto inusuale per la sua enorme mole, si prodigò in una rapida, ridicola e flaccida corsetta verso il fondo della grande sala del trono, sul retro del trono di quarzo. Con un gesto plateale si accinse a tirare il grande portone che conduceva alla sala del trono direttamente dagli appartamenti reali.

Per un attimo, Lenora pensò che l'eunuco non sarebbe mai riuscito ad aprire il portone metallico da solo, ma evidentemente la tecnologia dimenticata con cui erano stati costruiti i cardini del portone rendevano la sua movimentazione ben più semplice di quel che si potesse pensare.

Sulla soglia comparvero due figure curiosamente diverse. Sulla sinistra della platea, in tutto lo splendore del suo esoscheletro metallico modellato come una seconda pelle sul fisico marmoreo di un atleta olimpico, splendente come se le ere non lo avessero minimamente intaccato, immobile e superbo, stava Raunat, il robot. Lenora lo osservò a lungo e si rese conto che gli olofilm visti da bambina non gli rendevano del tutto giustizia. Raunat dal vivo aveva qualcosa di estremamente diverso. Era magnifico. Sì, l'unica parola con cui descriverlo doveva per forza essere quella. Se Raunat fosse stato umano, probabilmente Lenora se ne sarebbe innamorata pazzamente a prima vista. Se non avesse saputo che si trattava semplicemente di un costrutto, sarebbe potuto essere l'uomo più muscoloso ed esteticamente perfetto che lei avesse mai incontrato. Raunat era stato modellato dal suo creatore Raun a sua somiglianza, ma era evidente che nel corso dei millenni il robot aveva apportato un numero significativo di ritocchi al suo aspetto. Si supponeva che le migliorie fossero state attuate a fine puramente funzionali ma qualcuno sospettava che nel corso dei secoli Raunat fosse diventato persino superbo. Ancora prima che muovesse un solo passo, il suo esoscudo si attivò con tutta la sua risplendente e turbinante luminosità azzurra. Doveva essere uno scudo militare a giudicare dalla quantità di riflessi che emetteva. Lenora si sorprese a immaginare quanta energia doveva essere necessaria solo per crearlo. Uno scudo del genere avrebbe retto all'attacco di un'intera batteria a ioni. Era del tutto superfluo in un contesto tanto rozzo come quello in cui si trovavano. L'enorme dispendio di energia doveva essere giustificato unicamente dal tentativo del robot di apparire per quello che non era. Raunat aveva occhi dorati, luminosi e giganteschi, al centro del viso senza rughe, senza nei, omogeneamente perfetto e simmetrico. Nella mano destra, anch'essa coperta dall'esoscheletro metallico, reggeva un bastone di quarzo e ceramica, alla cui sommità una sfera di plasma infuocato levitava mollemente a simulare quasi un piccolo astro incatenato alla volontà di un dio.

La mano sinistra, aperta all'altezza del cuore emetteva un cangiante fascio di deboli laser caleidoscopici. Alla cintura pendeva, senza che alcuna cinghia visibile potesse tenerlo in posizione, un enorme martello chiodato di vetroplastica al cui interno pulsava energia pura. A completare il quadro, i piedi di Raunat erano sollevati dal suolo di una decina di centimetri. Il dio non si accingeva ad entrare camminando nella sala del trono, ma avrebbe levitato. Lenora dovette ammettere che Raunat, per quanto la scelta della sua coreografia personale a lei sembrasse addirittura pacchiana, agli occhi dei Braviani e probabilmente anche del loro re non poteva che apparire come un dio. Uno splendido dio.

Alla sua sinistra, più basso di un buon mezzo metro, l'uomo più importante del regno era quasi invisibile per quanto la sua armatura da battaglia gloriosa e preziosa fosse stata tirata a lucido e per quanto riuscisse a reggere con la sola mano destra l'unico spadone a due mani in vetroceramica del regno. Il vecchio  appariva molto forte ai suoi sudditi, ma Lenora sapeva che l'enorme spadone forgiato nelle sue industrie non pesava che poco più di un chilo e il peso era stato aggiunto unicamente per fornire un po' di forza ai suoi eventuali fendenti nell'eventualità remota che il re stesso fosse dovuto scendere in combattimento. Giannone, il re, si era dato da fare per non apparire esageratamente inferiore al suo dio, e sembrava che avesse cercato di investire nel portamento tutto quello che non poteva giocare nella partita già persa della maestosità e della perfezione. Il re, statuario e solenne, nel clangore della sua armatura, mosse il primo passo nella sala del trono. Raunat doveva avere meditato a lungo su quella possibilità. Era evidente che un dio avrebbe potuto e forse dovuto precedere un re, ma Raunat doveva essere giunto alla conclusione che un re che non mantiene il suo prestigio non è un re a cui i sudditi concedano obbedienza e se si fosse combattuta una guerra la catena di comando del re, oliata da tante battaglie, sarebbe stata sicuramente più utile di una nuova, improvvisata gerarchia militare.

Un dio poteva attendere, ma non più di un passo. Nell'istante in cui il piede del re toccò il suolo, Raunat scomparve e ricomparve a un mezzo metro di distanza, perfettamente di fianco al re, esattamente alla stessa distanza alla quale si era presentato sul grande portone.

Evidentemente fra la folla non tutti erano a capo abbassato come ci si sarebbe aspettato perchè un  roboante 'ohh' riempì l'enorme sala del trono.

Lenora aveva più di un rudimento di ingegneria spaziale e conosceva molto bene le equazioni alla base della teletrasportistica. I calcoli erano estremamente complessi e anche una veloce IA industriale impiegava qualche secondo per calcolare approssimativamente un salto quantistico a centinaia di metri di distanza. Raunat aveva eseguito un perfetto balzo quantico di mezzo metro nella frazione di un secondo. La sua potenza di calcolo doveva rivaleggiare con l'intera rete informatica degli Oresten. Il portone di ferro distava dal trono almeno una cinquantina di passi. Se il re aveva intenzione di camminare sollenamente fino al trono, Raunat avrebbe dovuto eseguire in tempo reale una cinquantina di balzi quantici, scomparire e riapparire ogni mezzo secondo circa. Lenora si chiese quali fossero le riserve di energia del robot. Ovviamente non potevano essere tutte racchiuse nel suo esoscheletro. E mentre dalla sala le esclamazioni andavano aumentando, il re compì altri passi e ad ogni passo Raunat si teletrasportò al suo fianco, senza muovere un muscolo, perfetto. La sfera di plasma sul suo bastone, dapprima piccola e flaccida, acquisiva splendore, volume e rotazione ad ogni rimaterializzazione del robot, incurante dello spropositato dispendio di energia. Al decimo passo Lenora iniziò a percepire l'influenza di un campo telepatico modesto ma insistente. Raunat stava sondando le menti dei seicento umani raccolti nella sala del trono raccogliendo i dati di una matrice telepatica che rielaborava ad ogni salto quantico. Gli umani non sembravano neanche accorgersi della presenza del campo telepatico ma dal punto di vista di Lenora era del tutto intollerabile che un robot scavasse nella mente umana senza permesso. Lei era certa di non volere condividere i propri pensieri con Raunat per nessun motivo. Regolò il suo esoscudo al massimo. In quelle condizioni non aveva energia per più di cinque o sei minuti ed emetteva anche una debole luce azzurra che sperava passasse inosservata. Si augurò che la pagliacciata a cui stava assistendo non durasse più di qualche minuto. Non aveva intenzione di esporsi a inutili pericoli senza alcuna difesa.

Quando il re si trovava quasi a metà strada fra il portone e il trono, il campo telepatico di Raunat la investì in pieno. Non si trattava più di una matrice telepatica, ma di una sonda vera e propria indirizzata a lei e a lei soltanto, per giunta di inusuale potenza. Nel giro di una decina di passi, non più di 5 secondi in tutto, Raunat doveva essersi reso conto prima che uno schema mentale non era stato acquisito, doveva avere riprovato ad acquisirlo forse anche più di una volta e subito dopo aver constatato che nella sala esisteva almeno un umano in grado di nascondere i propri pensieri aveva concentrato le proprie energie su di lei. Formidabile.

Altri cinque passi. Le sonde mentali divennero tre, quattro, cinque. Ora la sfera infuocata non cresceva più di dimensione. Raunat stava convogliando enormi quantità di energia nella sue sonde mentali e non si curava più della coreografia.

Lenora era decisamente sotto attacco. Il suo scudo non avrebbe resistito ad un'altra sonda, la sua mente sarebbe stata violentata, i suoi pensieri e soprattutto i suoi piani svelati.

Doveva agire subito o non sarebbe più stata in grado di farlo.

Un altro passo. Gli occhi di Raunat si mossero. Ora la guardavano, intensi, feroci, spietati.

Lenora si portò rapidamente una mano all'orecchio sinistro, ruotò la perla del suo orecchino d'oro.

L'orecchino non era abbastanza potente per rielaborare all'istante le correzioni al salto quantico che lei desiderava. Era stato programmato per materializzarla a un passo dal trono. Sarebbe stata troppo lontana. Avrebbe fallito. Ma doveva almeno tentare.

Scomparve. Un altro passo di Raunat. Ricomparve. Si orientò. Sentì su di sè l'intera potenza di una decina di sonde telepatiche. Poteva resistere due o tre secondi non di più. Ma lei non aveva un cerimoniale da rispettare. Corse più veloce che potè. Il re ebbe il tempo di girare lo sguardo ma non di modificare la sua andatura. Raunat si bloccò rimanendo indietro di un passo rispetto al re. Errore. Lenora sentì infrangersi le sue difese mentali, sentì la sua mente invasa da migliaia di subroutine di acquisizione telepatica, probabilmente in quel momento i segreti che non aveva il coraggio di rivelare neanche a se stessa diventavano parte integrante della matrice di Raunat.

Si sentì perduta. Poche falcate ancora. Toccò l'orecchino destro. Raunat parlò nella sua mente, sempre immobile:

- Chi sei?

Comunicazione telepatica ma comunque verbale. Perfetto per il tempo di un'altra falcata.

- Cosa pensi di fare, umana?

Ultima falcata. Anche il re si era fermato. Il suono di una balestra. Da qualche parte una guardia zelante e dai riflessi fulminei stava facendo il suo lavoro e cercava di ucciderla perché lei non doveva essere lì. Non importava.

Schiacciò l'orecchino con tutte le forze che aveva, implorando che il legame subspaziale con castel Oresten fosse abbastanza rapido. Affondò la mano sinistra nell'esoscudo azzurro di Raunat. A 400 miglia di distanza tutti i generatori di castel Oresten stavano concentrando la loro potenza in quell'unico gesto di Lenora.

Nella mente di Lenora, Raunat era risoluto e beffardo: -Non sei in grado di farlo!

Nell'istante in cui l'esoscudo del robot collassò, Lenora seppe di avere vinto. Le sue labbra ebbero il tempo di disegnare con un sorriso il suo successo poi Lenora Oresten, l'industriale Abhorianna, e Raunat, il robot o il dio a seconda delle opinioni, scomparvero in un guizzo di luce.

Lenora seppe di essere riuscita a rapire un dio. 

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