Capitolo 3

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Lenora

Lenora aveva sempre pensato che un inchino non facesse alcun rumore, ma che il gesto risuonasse come un tamburo di guerra nell'anima di chiunque riconosceva con quell'assurdo rituale la superiorità di un altro essere umano. Lenora Oresten non si era mai dovuta inchinare in vita sua e nessuna delle persone della sua terra si era mai dovuta prostrare di fronte a lei o suo padre. Nell'immensa sala del trono, seicento persone si inchinarono nello stesso istante. Migliaia di vesti, orecchini, collane, monete e spade risuonarono nello stesso momento. Lenora avrebbe ricordato il suono di quel gesto collettivo come l'assordante cacofonia della sottomissione. Per un attimo, l'annuncio delle trombe e l'incredibile reazione istantanea di tutta la folla l'aveva indotta a un impercettibile flessione delle gambe, ma poi, incurante delle conseguenze, aveva teso tutte le membra, drizzato la schiena e le gambe e aveva indossato il sorriso che utilizzava quando riusciva a stipulare un ottimo affare commerciale.

Nessuno pareva avere notato la sua disubbidienza o nessuno sapeva come comportarsi in un evenienza che il protocollo reale non aveva mai dovuto gestire. Persino il potente senatore Flavio e il suo amico Richard, che da lei distavano solo un passo, non parevano essersi accorti che Lenora era ancora in piedi. Sapeva che presto la sua disubbidienza sarebbe stata notata da qualche invisibile osservatore, ma era curiosissima di vedere con quale metodo l'avrebbero obbligata a prostrarsi di fronte a un vecchio re e un falso dio. Fu Richard, qualche istante più tardi, a riportarla alla realtà. Sempre in ginocchio e con lo sguardo fisso al terreno, sussurrò: - Inchinati anche tu o dal colonnato partirà un dardo di balestra che si conficcherà nella tua splendida schiena altezzosa e ti farà inchinare per un po' più di un minuto. Hai gli abiti di una schiava. Qualcuno starà già prendendo la mira senza troppo curarsi della tua prematura dipartita.

Lenora parve realizzare solo allora che dopotutto si trovava in mezzo a un popolo selvaggio. Improvvisamente si rese conto di quanto le dolevano gli arti per la lunga e scomoda cavalcata, del fetore che ammorbava la sala rendendo l'aria praticamente irrespirabile per chi era abituato a un bagno tutti i giorni. Scrutò le mille piccole macchie in quelli che dovevano essere i vestiti più suntuosi, ma rigorosamente non stirati, della nobiltà di tutto il regno di Bravia. Valutò la semplice possibilità di sopportare l'innocuo dardo che si sarebbe vaporizzato a contatto col suo esoscudo, ma concluse che non era nè il momento nè il luogo per rivelare i suoi segreti ai Braviani. Con grazia  e studiata lentezza si inchinò al fianco del console. I suoi occhi rimasero fissi sul trono e quello che stava per accadere. Era moderatamente certa che il suo sguardo irriverente non sarebbe stato notato ora che la sua posa si era uniformata a quella del resto degli invitati. Il suo sorriso rimase spavaldo e compiaciuto.

I trombettieri interruppero la loro fanfara. Anche loro si inchinarono a destra e a sinistra del trono.

Il cerimoniere del re, l'eunuco Palladio Curzio Nimone, uno degli uomini più grassi che Lenora avesse mai visto, si animò dalla suo apparente torpore, comparendo in tutta la sua flaccida maestosità dal retro del grande trono di quarzo. Con una solenne voce da baritono, probabilmente una delle pochissime qualità che era riuscito a mantenere nei lunghi e oziosi anni  di servizio alla corte del re declamò:

- Rendiamo omaggio alle luci dei nostri giorni, ai signori delle nostre terre, al guardiano del nostro regno, al padrone delle nostre vite e al custode delle nostre anime; rendiamo omaggio a Raunat, nostro unico dio e protettore e al suo più fedele servo, il nostro amato re Publio Crasso Giannone.

Lenora non potè fare a meno di notare che nel discorso dell'eunuco, sicuramente a lungo imbastito, non si capiva con certezza se fosse Raunat o piuttosto il vecchio Publio quello che la gente doveva omaggiare come signore, guardiano e custode. Sicuramente Publio si era dovuto sottomettere alla prepotente presenza di Raunat definendosi suo servo, ma al contempo rimaneva una delle luci e dei signori del regno. Un servo, ma praticamente un dio anche lui. Lenora smise di sorridere.

Il ritorno del dioWhere stories live. Discover now