Canti Notturni.

By Deianyra

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Øynene ulvens - Gli occhi del lupo (Giugno 2017)

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By Deianyra

Genere: Noir / mistero / dark

Titolo: Øynene ulvens – Gli occhi del lupo

Angolo Autrice: Okay, salve. Sono Cata e non so esattamente cosa e come si deve scrivere un angolo autore. Il che è piuttosto palese soprattutto nei miei continui cambi di bio. Non voglio farvi perdere ore – perché sì, ne sarei capace – con le mie inutili chiacchiere, ma so che ci sono un po' di cose che devo dire quindi meglio andare con ordine. Questo è il mio primo tentativo di scrittura noir, mistero, dark; il mio intento era addirittura quello che la mia oneshot avesse tratti horror, ma non credo di esserci riuscita: mi sono tenuta più soft. Per cui, nonostante l'abbia fatta leggere a metà delle persone con cui ho scambiato almeno due parole nella mia vita (hahahah, okay), non sono soddisfatta appieno del risultato: l'avrò riscritta almeno tre volte, ma ogni volta era sempre peggio e i dialoghi più costruiti e poco naturali, quindi ho riesumato la primissima versione ed eccola qui. Una peculiarità della mia scrittura è l'inserimento di alcuni termini nella lingua natale del paese in cui il racconto si svolge, quindi alcune parole in corsivo sono norvegesi. Spero che dal testo si riesca comunque a capire il significato, ma non temete: in fondo ho inserito le parole con la traduzione, ma un mio personale consiglio è di leggere la traduzione solo alla fine, onde evitare spoiler. Vi ho tenuti anche abbastanza, quindi un bacione stellare (?), buona lettura, Cata!






Øynene ulvens – Gli occhi del lupo

Lunette strinse i lacci ghiacciati degli scarponi; poi allungò le dita verso il pavimento di legno scheggiato, prese da terra la tracolla verde felce e se l'appuntò sopra il giaccone pesante.

Si guardò un'ultima volta indietro: l'interno della casa era angusto e stretto, il tetto spiovente opprimeva il luogo e il fuoco, ormai divenuto solo un ammasso di braci ardenti, non bastava nemmeno a scaldare la sala comune dove i bambini la sera si ammassavano l'uno sull'altro alla disperata ricerca di calore.

Vedeva i piedini neri e scalzi di Einar spuntare da sotto la spessa coperta di lana. Era diventato troppo alto per quella pezza mangiucchiata dalle tarme, ma nessuno aveva ancora avuto il coraggio di mandarlo via.

Lunette afferrò la maniglia e la porta di casa sbatacchiò alle sue spalle mentre procedeva muta tra le vie di Røros, un minuscolo paesino norvegese rannicchiato in una valle ondulata e ricoperta di rigogliose foreste sempreverdi.

La neve scricchiolava sotto le suole e il sole faceva timidamente capolino da dietro i bassi cumulonembi dell'alba. Lunette sospirò; l'aria gelata le inondò i polmoni, grattandole voracemente la gola e la ragazza si strinse addosso il pesante giaccone rosso scarlatto.

Lunette, in verità, odiava Røros. Era un paese marcio. Un borgo ingordo di anime avvilite; tagliagole e bracconieri infestavano i boschi e meretrici, sbattute in ogni putrido angolo della cittadina, animavano le serate degli uomini più vili.

Lunette li odiava tutti, dal primo all'ultimo. Dai bambini chiassosi, sudici e innocenti, alle poche famigliole che rimanevano salde agli ideali protestanti e si nascondevano terrorizzate dietro ai loro scuri sprangati. Come se potessero salvarli.

Meschini, pensava. Lasciavano che tutto andasse in malora, che i sovrani svedesi succhiassero via come avide sanguisughe la vita e il denaro da ogni norvegese fino a lasciarli esanimi, senza speranza né virtù da offrire in cambio di un pezzo di pane.

«Lunette!» Un uomo la chiamò dal fondo di una via laterale.

Lei si fermò, lo sguardo cristallizzato dritto innanzi a sé. Aveva paura, ogni giorno era sempre peggio: sentì il cuore trapassarle le costole e le sue mani toccare istintivamente lo stiletto di ferro che teneva appena sotto la giubba di fustagno.

«Lunette, dove diamine stai andando?», grugnì Jeger, emergendo dall'ombra delle abitazioni.

Jeger Modig era una montagna di muscoli, troneggiava su di lei come avrebbe fatto un orso su un giovane cerbiatto. Quando respirava le sue narici si espandevano e il rumore del suo respiro era l'unica cosa che Lunette riusciva a sentire. Era fastidioso, insopportabile, ma il silenzioso patto che si ergeva fra loro le impediva di protestare in alcun modo.

Lunette fece scivolare la mano di nuovo su un fianco. «Nella foresta. Questa mattina, prima dell'alba, sono partite due carovane di mangiamerda svedesi. Vanno a caccia, Jeger.»

Lui si toccò l'ispida barba, lanciandole uno sguardo truce con gli occhi verde selva. «Cosa ci vai a fare lì dentro? Con tuoi inutili atti di coraggio non risolverai nulla. Anzi, ti farai ammazzare! Non pensi a tua madre o ai tuoi fratelli?»

L'espressione della ragazza s'indurì ed una folata di vento gelido fece piroettare in aria i suoi capelli, come fili d'oro scintillante. «Mia madre è una schifosa puttana. I miei fratelli sempliciotti senza cervello. Quello che faccio è necessario. Non ho bisogno della tua protezione. Va' via, Modig.»

Jeger si ritirò di colpo. Fece due passi indietro e percepì il bisogno primordiale di afferrare il fucile Mausen fissato dietro alla schiena. Quella donna lo metteva a disagio, aveva l'impressione che, se non fosse stato pienamente attento, lei lo avrebbe divorato vivo.

Eppure era un pensiero ridicolo, Lunette non era in grado di fare più di qualche piccola trappola per infastidire gli svedesi. Non poteva fargli nulla. Era minuta, molle, senza forze.

Jeger scosse le spalle e umettò il polpastrello dell'indice destro, alzandolo al cielo. «Il vento soffia verso sud. L'inverno sta finendo e tu, piccola Lunette, senza la neve e la nebbia non sei altro che una stupida ragazzina», la ammonì. Poi continuò: «Ulv sarà fuori, porgi attenzione.»

La donna avvertì premere il corpetto contro la gabbia toracica e il cuore fremere al suono di quel nome. «Non ho paura del Lupo, Jeger. Non come ne avete voi altri, non è diverso dagli uomini della città» ribatté prima di voltargli le spalle e ricominciare a macinare metri verso la foresta.

Lui rimase a osservarla sparire, le labbra semiaperte in una smorfia di disappunto e il corpo rigido per il gelo e il nervosismo. «Sei tu che sei diversa», mormorò a vuoto, e sparì tra le viuzze di Røros.

Ulv Rød non era un uomo facile e lo comprendeva egli stesso. Viveva ai margini sia della foresta che della città; appena prima che la valle si facesse erta e scoscesa e gli alberi grossi e frondosi, un luogo di mezzo, né soleggiato né ombroso.

Ulv Rød non era nemmeno un uomo tanto crudele come lo dipingevano tutti al villaggio. Un ritratto scarno e ingannevole, sosteneva, ma, certo, nemmeno lui faceva qualcosa per confutare le maldicenze.

Era cresciuto come tutti a Røros, ma aveva capito fin da giovane che quello non era luogo per lui. Era corrotto, privo di qualsiasi valore etico, di speranza, e la cascina di famiglia gli era sembrata una casa migliore di quella che le mura della città potevano offrirgli.

Ulv setacciò il casolare con occhi severi. Il bancale addossato al muro era sporco di sangue e pelle scuoiata, gli attrezzi sparsi distrattamente e l'ascia era ancora piantata nel legno.

Si sciacquò il viso aguzzo e si asciugò le mani bagnate d'acqua gelata prima sui pantaloni e poi sopra la tinozza, scuotendole con vigore.

Era stata una lunga nottata, Ulv non aveva chiuso occhio. Non che le altre notti il Signore gli riservasse sonni tranquilli, ma quella luna crescente, ormai prossima al plenilunio, lo lasciava in uno stato di completa e assoluta insonnia. Rimaneva impietrito e steso sul giaciglio della stube mentre l'ondata di ansia prendeva possesso di lui e le domande lo assillavano quasi fossero cani affamati che uggiulavano fuori dall'uscio.

Gli graffiavano l'udito, lo rendevano cieco e pazzo, gli facevano correre mezzo miglio su nella tundra più selvaggia e scura e urlare fino a squarciarsi la gola davanti all'albero di bestemor.

Quella notte però Ulv non era uscito, aveva resistito. In preda all'inquietudine aveva iniziato a conciare le ultime pelli di renna e lepre artica che gli erano rimaste. Fare qualcosa di manuale lo salvava sa sé stesso e doveva tirarsi avanti con la merce da barattare se non desiderava vivere di sola carne secca e stoccafisso per tutto l'inverno.

Si massaggiò il collo nerboruto e teso, guardando fisso fuori da una delle finestre della baracca.

Una ragazza pallida e bionda camminava velocemente verso la foresta. Mosse qualche passo verso il vetro e si sporse, aguzzando la vista.

La figlia di Elga, Lunette; constatò. Quanti anni poteva avere? Diciannove, forse venti, ma non di più. Indossava una giubba rossa, di fattura costosa, una gonna spessa e scura e un paio di calze pesanti del colore delle notti d'inverno.

Era bella, bella da morire. Lo aveva sempre pensato e ogni volta che si recava al villaggio e riusciva a scorgerla ne aveva conferma.

Nonostante gli occhi azzurri come lapislazzuli e la pelle bianca come il latte, sua madre era una puttana e, in quanto tale, Lunette era figlia di tutti gli uomini di Røros e di nessuno di loro. Era una creatura partorita da una città che non aveva nulla da offrire se non disperazione e dissolutezza. Non c'era futuro per lei; o almeno non un futuro come avrebbe potuto averlo lui.

Ulv, per quanto burbero e schivo, non veniva da una famiglia povera. Sua madre era una nobildonna decaduta e suo padre un ricco trafficante proveniente da Bergen. Come avessero deciso di tornare a vivere in quel posto abbandonato da Dio nessuno lo sapeva, ma lui era nato lì, dove i genitori di sua madre erano vissuti, dove la ricca e prosperosa casata dei Rød aveva risieduto per secoli prima di cadere in disgrazia e con lei la città stessa. Ulv, però, se n'era andato di casa quando aveva solo ventuno anni, la morte della sua bestemor lo aveva colpito come un dardo avvelenato e lo aveva lasciato vuoto e ansimante.

Bestemor era l'unica a capirlo veramente con quei suoi capelli canuti e sottili, intrecciati e fissati sul capo come una corona di spine e di perle. Sorrise malinconico: di lei voleva ricordare solamente le fossette ai lati del viso, gli occhi grandi che sapevano leggere i vecchi libri di piante medicinali e le ninna nanne dimenticate dalle gente bigotta... Non l'odore della carne imputridita, non gli occhi dei lupi che le strappavano i muscoli dalle ossa, non le mosche sul suo corpo morto e tagliato in pezzi.

Scosse la testa. Via, via, non voleva vedere. Spalancò gli occhi e cercò la figura della ragazzina, ma ormai era solo una chiazza scarlatta tra gli abeti e la neve.

Sospirò. Che ci faceva così sola in mezzo alla foresta? Che andava cercando? Gli era sembrata così sicura e fiera mentre percorreva il sentiero innevato, quasi come se conoscesse la foresta come le sue tasche, ma perché fosse così doveva averla visitata molte volte, tuttavia lui non l'aveva mai vista.

Era vero che non esisteva solo quella strada per entrare, ma Ulv non aveva mai scorto le sue tracce, mai sentito il suo odore, mai intravisto i suoi capelli d'oro colato tra gli alberi.

L'uomo si sedette sullo sgabello, rimuginando. Aveva decine di cose da fare, eppure non riusciva a togliersi dalla testa lo sguardo di Lunette. La foresta, per una donna come lei, era troppo pericolosa. C'erano le bestie, il freddo penetrante, per non parlare dei cacciatori, uomini che se l'avessero trovata l'avrebbero stuprata senza farsi alcuno scrupolo, senza alcuna pietà. O, nel peggiore dei casi, avrebbe incontrato la død, il fantasma della foresta. C'era chi sosteneva fosse un uomo, chi uno spirito vendicativo, altri credevano fosse un gruppo ben formato di dissidenti norvegesi che facevano piazza pulita degli stranieri... La realtà dei fatti era che nessuno conosceva davvero la verità. Eppure la død esisteva e si cibava degli ingenui.

Ulv ebbe un fremito, le nocche si strinsero intorno al legno dello scanno. C'era gente che lo additava come la død giù in città. Era più facile. Non si rendevano nemmeno conto che quel mostro aveva strappato via qualcosa anche a lui. Ed era per questo che la odiava, la odiava con tutto il cuore e non c'erano attenuanti. La sua bestemor non meritava di morire, lei era buona, lei era gentile, lei meritava di vivere.

Quindi perché rischiava così tanto quella donna? Era forse pazza?

Cercò nella sua mente l'immagine di lei, il mento delicato, appena accennato, il collo slanciato ed aggraziato, le dita fredde e screpolate... che tenevano strette una lama. Lunette teneva tra le mani un coltello, Ulv lo avrebbe giurato su Dio.

La sedia crollò all'indietro, turbando l'apparente pace della casa. Ulv afferrò la casacca, strappò l'ascia dal ceppo e guardò fuori dalla finestra un'ultima volta prima di uscire di casa. Voleva solo trovare Lunette e riportarla a casa, lontano dal pericolo, poi sarebbe andato dalla sua bestemor e le avrebbe lasciato un cesto di vimini colmo di bucaneve e aghi di pino.

L'aria della foresta era pungente. Viva ma immobile. Ulv vi si tuffò dentro, inspirò forte. I muscoli irrigiditi si sciolsero e la sua andatura si fece più fluida, quasi liquida. Le impronte impresse nella neve fresca non mentivano e all'uomo non rimase altro che seguirle.

Ulv non si aspettava che Lunette fosse così veloce. Comminava da solo già da mezz'ora eppure di lei nemmeno l'ombra.

All'improvviso un fruscio alle sue spalle. Si fermò, Ulv scacciò tutto il resto e con un balzo si nascose dietro a un tronco, le orecchie tese e gli occhi tirati verso il sentiero.

Un uomo spuntò dalla cima di un colle, guardò a destra e a sinistra e caracollò giù dall'altura. Correva veloce, scappava, e aveva il viso paonazzo, un braccio trafitto da una freccia e l'altro pressato contro la ferita sanguinolenta.

«Aiuto!», ululò. «Una bestia! Una bestia ci ha attaccati!» L'accento svedese era chiaro e lampante, così come i suoi occhi piccoli, chiari e rotondi.

Ulv uscì allo scoperto, la scure tesa a bloccargli il passaggio. «Gli animali non lanciano frecce» disse.

L'uomo impiantò i piedi nella neve per lo spavento e cadde in avanti, rotolando fin nel centro del sentiero. Lo sconosciuto scivolò nel tentativo di rialzarsi e sputò saliva mista a sangue. «Aiuto» ripeté, afferrando un lembo della casacca di Ulv. «Eravamo andati a caccia, ci siamo divisi e poi...», si fermò per respirare, «dagli alberi hanno cominciato a piovere frecce.»

Ulv lo afferrò per le spalle, strattonandolo in piedi. «Chi è stato? Lo hai visto?»

«Gunnar... Gunnar» mugugnò lo svedese, con le pupille che si innalzavano al cielo, quasi a scomparire nella calotta cranica. «Quelle frecce gli hanno trapassato la testa.»

Ulv mollò l'uomo che cadde di nuovo a terra con un rantolo. Lo osservò dall'alto, poi si abbassò sopra di lui, afferrò il legno del dardo e con uno strattone netto e preciso glielo strappò dalle carni.

Stava succedendo ancora, Ulv lo sapeva. Ora non aveva solo una stupida ragazzina arrogante da tentare di salvare, ma anche un branco di ottusi svedesi.

L'uomo guardò il legno della freccia e la punta in metallo. Era incredibilmente tagliente pur avendo una patina di sporco a coprirne la lucentezza. Ne era sicuro: quella freccia apparteneva solo a qualcuno in quella maledetta foresta, e Ulv non vedeva l'ora di trovarlo.

Si assicurò che lo svedese fosse ancora vivo e, dopo avergli intimato di rimanere fermo dov'era, iniziò a risalire il colle.

No, questa volta la død non gli sarebbe sfuggita.

Lunette fece scivolare il filo del coltello sotto il manicotto del giaccone e con una mano spostò della neve sopra il cadavere.

Non si fermò troppo a guardare i tratti del viso di quello schifoso svedese che l'aveva seguita giù tra gli alberi.

Afferrò la testa mozzata, la sollevò e la pesò tra le braccia. Poi, constatando che fosse troppo piccola per i lupi, si alzò e la mise all'interno di un albero cavo: alle larve avrebbe fatto decisamente piacere. Il restante del corpo lo aveva appena ricoperto di neve e messo vicino alle radici e quando il sole avrebbe sciolto il nevischio sarebbe stato troppo tardi sia per l'identificazione, sia per capire il motivo della morte.

Lunette si rivoltava la giacca quando ammazzava, il rosso era troppo vistoso ed essere vista era l'ultima cosa che desiderava; quando uccideva metteva anche una maschera, una di quelle brutte e bitorzolute fatte di legno di faggio e pelo di animale, era spessa e la maggior parte delle volte faticava a respirare, ma ne valeva la pena: essere riconosciuti sarebbe stato anche peggio.

Lunette amava quella parte del suo lavoro, macellare i cadaveri e darli in pasto agli animali della foresta, era rilassante e in certo senso quasi sacro per lei.

Si pulì il viso imbrattato di sangue su una manica e guardò il terreno bianco candido, poi le sue dita sottili e macchiate di vermiglio.

All'improvviso uno scricchiolio di rami infranti.

Lunette si girò di scatto, nascondendo le mani tra le pieghe della giubba.

«Che ci fai qui? È pericoloso per le ragazzine aggirarsi per la foresta da sole», dichiarò Ulv Rød, spuntando da dietro una conifera. Gli occhi nocciola erano caldi e liquefatti, i capelli neri e lucenti gli scendevano sul viso in morbidi ricci ed il fisico possente e statuario dimostrava molti più anni di quanti ne avesse in realtà.

Lunette deglutì. Che l'avesse vista?, pensò subito la ragazza con le pupille iniettate di terrore. Lei scosse il capo impercettibilmente: era impossibile, non poteva essere stato così silenzioso.

«Potrei farti la stessa domanda», rispose. «La skog fa paura anche agli uomini.»

Lui annuì e sorrise, rivelando una sfilza di denti bianchissimi. «Già, ma a te no, donna. Strano, non trovi?»

Lunette fece qualche passo di lato, un piede dietro l'altro, avvicinandosi a lui senza fretta e con le nocche ancora strette attorno alla lama. Ulv Rød era la persona che la metteva più in soggezione. Il motivo era semplice: quello che gli aveva fatto era stato terribile. A Lunette era dispiaciuto ucciderla, ma quella vecchia non voleva aiutarla e lei aveva così disperatamente bisogno di soccorso che irrompere nella sua casupola di legno e sgozzarla le era sembrata la scelta più logica; ma alla fine lei si sentiva tranquilla, Ulv era nel suo territorio, lei aveva ucciso uomini molto più possenti di lui e l'arco e la faretra erano ancora ben nascosti tra la selva, pronti per essere utilizzati. Non c'era pericolo; poteva ancora andarsene senza alcuna conseguenza.

«Io volevo solo...», iniziò, tentennando appena, «...stavo solo cercando un posto dove stare. Mia madre ormai non fa altro che sfornare nuovi bambini ed io non ce la faccio più ad essere usata. Pensavo che nella foresta avrei trovato un posto dove vivere, per ricominciare; e tu?», mentì.

L'uomo di fronte a lei inclinò il viso ed osservò il cesto di vimini che teneva da una parte. «Vado da mia nonna» disse.

«E credi che lei potrà aiutarmi? Mostrami la strada per arrivare alla sua casa.» Lunette batté le braccia sulle cosce per simulare della falsa gioia.

Lui non rispose, ma guardò oltre Lunette, con gli occhi strani e l'ascia alzata verso di lei. «Mostrami le mani.»

Lunette strabuzzò gli occhi. Il terrore di aver sbagliato qualcosa alla gola. «Puoi ripetere?»

«Ho detto: mostrami le mani!», ripeté, facendo un passo verso Lunette.

La ragazza abbassò lo sguardo e vide le sue dita ancora colpevoli del male che aveva appena compiuto. Un tremore anomalo la colse d'improvviso.

Se Ulv sapeva, allora Ulv doveva morire.

Puntò di nuovo le iridi cristalline su di lui e lo vide in fremito con l'accetta stretta tra le mani, pronto a colpire. Non era saggio attaccarlo ora, sarebbe morta sotto i fendenti della sua scure. Lunette era furba, Lunette era acuta, e si voltò di scatto, balzando su una radice grande e grossa e poi su nella skog più selvaggia. Acciuffò l'arco e le frecce da un ramo sporgente e si girò un'ultima volta per cercare Ulv, ma lui non c'era.

Lunette non rallentò, l'adrenalina le scosse i muscoli delle gambe e lei saettò su tra la neve e le piante. Doveva catturarlo, Ulv era come una preda, la più succulenta; ed infine la trappola perfetta arrivò.

Aveva il fiatone ma non le importava, arrivò all'albero cavo che era stata la casa della vecchia, la bestemor di Ulv, e aprì l'uscio con uno spintone.

Era ancora tutto lì, gli averi della donna, il suo odore, i suoi abiti. Lunette aprì il guardaroba con foga, ne tirò fuori una camicia da notte lunga e fiorata e l'indossò con sotto ancora tutti i vestiti: voleva fargli paura, sì.

Poi si nascose dietro ad un telo, la sua ombra proiettata dal sole che la faceva somigliare così tanto alla vecchia.

La porta si spalancò, la gabbia toracica di Ulv si mosse con forza, sputando aria e bile. «Dove sei?», urlò. «So che sei qui!» Lunette non fiatò, ma seppe che lui l'aveva vista quando non lo sentì più respirare. «Perché stai facendo tutto questo, bestia?!»

Lunette strinse le palpebre. «Non lo capisci? Là fuori il mondo va in pezzi. Gli uomini sono i veri animali, non io, loro sono i lupi pronti a sbranare la terra che li ha creati. Vanno uccisi tutti. Sterminati prima che sia troppo tardi!»

Ulv sbatté l'ascia sul tavolo. «Ma non così! Tu non hai alcun diritto di togliere la vita! Sei solo un minuscolo granello di sabbia fra migliaia!»

«No! Io sono diversa! Tu non capisci!» Lunette fece silenzio e alla fine sorrise, una mezzaluna impregnata di veleno. «Giochiamo» ed Ulv rabbrividì.

«Per questo ti sei travestita da lei? Che diavolo credi di fare?» La sua voce era potente, carica di odio, ma lui indugiava ancora.

«Per svariati motivi», disse, poi si voltò e da dietro la tendina l'osservò con gli occhi chiari e ferini. «Ho due occhi grandi per guardarti meglio», iniziò, cantilenando.

Ulv smise di scalpitare.

«Ho due mani grandi per stringerti meglio», continuò, intonando e spostandosi piano verso di lui.

Ulv saltò sul posto. «Smettila! Non cantarla!», si tappò le orecchie nel tentativo di fermare i ricordi, ma fece solo peggio: si vide con la sua bestemor proprio lì, mentre lei gli carezzava i capelli nel tentativo di farlo addormentare, e cadde in ginocchio.

«Ho due orecchie grandi per sentirti meglio.»

Ho una bocca grande per baciarti meglio, pensò Ulv.

«Ho una bocca grande per mangiarti meglio», disse Lunette.

E di rosso infine ci fu solo il sangue carminio sulle tavole di legno scuro.

Jeger tirò il nodo con forza e con un coltelletto tagliò il filo sporco di budella. Il ventre gonfio era stato riempito di sassi ed ora erano lì: lui, un cadavere ed un Lupo Solitario.

Ulv Rød si chinò e afferrò il corpo di Lunette per le spalle. «Pronto?»

Il cacciatore fece un sospiro, guardando un'ultima volta quella donna che aveva creduto di poter cambiare il mondo, ma l'aveva fatto nel modo più sbagliato. «Sì» e la fecero colare a picco nel piccolo lago della skog. I suoi capelli brillarono e si sparsero come un'aureola splendente; furono l'ultima cosa che Jeger vide prima di voltarsi verso Ulv.

Lui se ne stava appoggiato alla sua accetta, lo sguardo perso nel vuoto e sul viso un taglio di stiletto preciso e profondo. «L'avrà capito?»

Jeger non comprese.

«Avrà capito che alla fine i lupi non erano gli altri, ma solo lei?»

Il cacciatore afferrò il suo Winchester e fece qualche passo verso il folto della foresta. «Non lo so», confessò. «Ma lo spero. Un tempo non era così malvagia, credimi.» Poi si voltò di nuovo verso lo specchio d'acqua. «Andiamo, prima che qualcuno ci trovi qui.»

Ulv annuì. Era stanco e, anche se la død era morta, si ritrovava ancora inquieto. Se solo Jeger Modig non avesse sentito le urla, ora probabilmente sarebbe stato lui quello in pasto alle bestie. Lunette era figlia della foresta selvaggia, di sogni irrealizzabili e la skog avrebbe continuato ad essere crudele anche senza una ragazzina a farne le veci.

Si sollevò da terra, guardò Jeger ormai distante, ed alzò gli occhi al cielo. Nevicava, come a pulire i troppi peccati che si erano compiuti quel giorno di febbraio. Lasciò che i cristalli gli lavassero via il sangue secco dal viso e poi, senza dire una parola, si tirò su il cappuccio della casacca.

Ed era un regalo della sua bestemor.

Ed era rosso, rosso come le fiamme dell'inferno.

boots; scarponi
skog; foresta
drittsekker; mangia merda
bestemor; nonna
død; morte
Jeger Modig; letteralmente CacciatoreCoraggioso
Dyret (il cognome di Lunette); bestia
Ulv Rød; letteralmente Lupo Rosso

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