Wilkommen in Krakow!
La settimana prima della partenza era passata pressoché uguale a tutte le altre, con la sola ed unica eccezione del gran movimento nel preparare i bagagli e nel riordinare tutta la casa per non lasciarla in disordine.
Non mi dispiaceva trasferirmi altrove. Questa casa non era più la stessa da quando la mamma e la nonna se ne erano andate. Non sarebbe stato così traumatico. Forse mi sarebbe mancata la mia camera e la scuola, ma non sarebbe stato difficile per me ambientarmi nuovamente in una nuova città. L'idea di raggiungere entro un paio di mesi la mamma non mi faceva pensare a nient'altro.
Mentre per Charlotte ed Hanna la questione era più complicata. Mia sorella non aveva nessuna intenzione di lasciare le sue amiche ed Hanna non aveva voglia di trasferirsi in Polonia e lasciare le comodità e il lusso che offriva una città come Berlino nel pieno del suo massimo splendore.
«Troppo fredda e antiquata!» Ripeteva in continuazione fino all'esasperazione.
In seguito ricordava la telefonata di Himmler e si ammutoliva all'improvviso. Aveva paura delle occhiate furiose di papà. D'altra parte Hanna cercava gloria e ricchezza. Amava essere riconosciuta per le strade come la moglie dello Standartenführer Von Falk. Adorava essere al centro dell'attenzione. Non è un caso che abbia sposato papà - membro del più famoso e rispettato corpo militare della Germania - dopo la morte del suo povero marito.
Vi era sempre un secondo fine nei suoi patetici piani. Friedhelm è riuscito a diventare Tenente grazie anche all'influenza positiva di papà nel Reich.
Era una donna meschina ed ipocrita. Non sarebbe mai potuta andare d'accordo con me.
Friedhelm, invece, aveva trascorso l'intera settimana a riordinare i suoi innumerevoli libri e ad esercitarsi instancabilmente ad una composizione al pianoforte di Chopin, uno dei suoi musicisti e compositori preferiti. Passava gran parte del tempo in camera sua, non avevamo conversato quasi per niente. Non riuscivo a capire il suo cambio d'umore improvviso.
Lui era un ragazzo solare e gioioso, sempre pronto a far sorridere tutti e a risollevare gli animi.
Ora, invece, era freddo e scostante. Si era chiuso in un silenzio cupo e profondo.
Avevo provato svariate volte ad avvicinarmi a lui per chiedergli cosa lo avesse turbato da quando papà aveva ricevuto quella dannata telefonata, ma appena notava la mia presenza, semplicemente mi evitava. Qualcosa non andava di sicuro...
«Allora, avete preparato tutto?» Chiese papà, a cena.
Asserimmo prontamente alla sua domanda.
«Bene, domani mattina dovremmo alzarci tutti molto presto. Il nostro treno parte alle sette e trenta. Dobbiamo essere a Cracovia il prima possibile per sistemare la casa.» Continuò papà, squadrandoci con i suoi occhi attenti ed asettici.
Annuimmo indifferenti, rivolgendo la nostra attenzione al piatto di zuppa.
«Voi due!» Urlò papà ad Olga e Claudia.
Le due domestiche si avvicinarono frettolosamente a papà aspettando ordini. «Ja, Herr?»
«Il vostro treno ci seguirà nel pomeriggio alle quindici. Mi raccomando ai mobili, ci sono oggetti fragili. Se romperete qualcosa, dovrete risarcirmi sino all'ultimo Reichsmark.»
Severo, conciso e rigido. Certamente mio padre non si perdeva in chiacchiere inutili e frivole.
Parlare con le domestiche lo spazientiva e anche tanto. D'altronde si sentiva potente nel dare ordini a tutti. La veste del soldato e del padre padrone gli calzava a pennello.
Le due donne annuirono entrambe all'unisono, continuando a tenere lo sguardo basso. Papà indicò ad entrambe la cucina con la mano, cacciandole malamente.
Esse si dileguarono, richiudendosi la porta alle loro spalle.
«E' proprio necessario trattarle così?» Domandai, guardando la porta della sala da pranzo che veniva chiusa da Olga e Claudia.
«Sono domestiche Annelies, hanno bisogno di fermezza e severità.» Rispose papà, stranamente non lanciandomi la sua solita occhiata ammonitrice.
Scossi la testa, chiudendo lì la conversazione. L'ultima cosa che avrei voluto ottenere era discutere ancora. Ne avevo abbastanza.
La cena finì dopo una buona mezz'ora. Charlotte, io e Friedhelm ci alzammo da tavola e ci dirigemmo verso le rispettive stanze. Papà e Hanna si accomodarono abbracciati sul divano, in soggiorno. Egli accese la radio come di suo solito e sintonizzò la frequenza su Radio Berlino in attesa delle notizie dal fronte.
Noi salimmo silenziosamente le scale sino a raggiungere il piano superiore, dove erano situate le camere da letto. La prima porta a destra era quella di Charlotte e la salutammo entrambi con un timido cenno del capo.
Lei ricambiò, richiudendosi la porta alle sue spalle.
Friedhelm proseguì sino a quando non raggiunse la sua stanza, situata accanto a quella di Charlotte. Prima che avesse potuto afferrare la maniglia in ottone, lo fermai, richiamandolo: «C'è qualcosa che non va, Fried? Forse non hai voglia di trasferirti in Polonia?»
Lui ricambiò il mio sguardo, scuotendo poi la testa. «Non è quello Anne. Per me è indifferente. Qui o dovunque è la medesima cosa.» Rispose, schivo.
«Sei arrabbiato con me?» Continuai, guardandolo timidamente in viso.
Abbassò lo sguardo, scuotendo ancora il capo. «Perché dovrei essere arrabbiato? Non mi hai fatto niente.»
Mi morsi il labbro, sospirando.
Non aveva voglia di parlare con me. Era fin troppo chiaro il suo comportamento.
«Va bene... allora buonanotte.»
«'Notte.» Disse, aprendo la porta della sua camera e scomparendo all'interno di essa.
***
La notte passò altrettanto velocemente; caddi nelle braccia di Morfeo quasi subito. Non ebbi neanche il mio consueto incubo, il che mi consentì di riposare decentemente. Fui svegliata da Olga alle sei del mattino.
Era una mattinata particolarmente fredda e umida. Era il 13 dicembre del 1942. L'aria frizzantina del primo mattino penetrava fin dentro le ossa, immobilizzando ogni arto.
Una vocina nella mia testa si rifiutò categoricamente di abbandonare il tepore del piumone.
La scacciai, alzandomi controvoglia dal letto caldo ed accogliente. Sbadigliai più volte ancora mezza addormentata e mi recai in bagno, ritrovando il solito tepore con l'acqua calda.
Mi lavai e mi vestii abbastanza velocemente. Successivamente scesi di sotto a fare colazione, riempiendo il mio stomaco brontolante con una buona brioche e un bicchiere di latte.
Alcuni minuti dopo mio padre intimò a tutti noi di alzarci. Era arrivato il momento di partire.
Afferrai i miei due bagagli e raggiunsi il corridoio principale. Fortunatamente avevo radunato tutto ciò che mi sarebbe servito in due semplici valigie. Hanna si era portata quasi tutta la casa. Vi erano bagagli di tutte le forme e dimensioni poggiati sul pavimento in attesa di essere trasportati.
Friedhelm portava una valigia abbastanza grande e in spalla uno zaino militare.
I domestici caricarono in fretta tutti i bagagli nel cofano. L'autista di papà ci stava già aspettando nell'autovettura.
Prima di uscire, diedi un ultimo sguardo alla casa in cui ero nata e cresciuta. I ricordi, adesso, riempivano tutta la mia testa, lasciandomi un senso crescente di malinconia ed inquietudine.
Fu papà a destarmi e a farmi ritornare violentemente alla realtà. Mi posò gentilmente una mano sulla spalla, scuotendola appena. «E' ora di andare, Anne. Vedrai, ti troverai bene nella nuova casa.»
Sussultai per quel gesto inaspettato e gentile da parte sua. Aveva cambiato drasticamente comportamento nei miei riguardi e non riuscivo a capire il perché. «Sì, andiamo.» Risposi, raggiungendolo alla macchina.
I domestici chiusero il cancello ed io salii nell'automobile, prendendo posto con Hanna, Charlotte e Friedhelm sui sedili posteriori.
Dopo dieci minuti circa arrivammo alla stazione centrale di Berlino. Le persone intente ad aspettare il treno indietreggiarono di qualche passo vedendo papà e Friedhelm con la divisa da SS che fasciava perfettamente i loro corpi.
Quella divisa militare era simbolo di grandezza e supremazia in Germania. Chiunque la indossava veniva rispettato e onorato da tutti. Chi serviva ciecamente il Führer, veniva venerato dai cittadini, esattamente come un eroe.
Il nostro treno non si fece attendere molto e sferragliò sui binari con un rumore secco e stridulo. Quando le porte si aprirono, ci accingemmo a salire, e papà ci scortò nella nostra cabina personale in prima classe, quella che aveva prenotato dopo aver ricevuto la telefonata da Himmler.
La cabina era abbastanza spaziosa: i sedili erano comodi, di velluto rosso e bianco, e nell'aria aleggiava un buon profumo di fresco e di pulito.
Mi accomodai sul sedile accanto al finestrino ed appoggiai le due valigie nello scompartimento sopra le nostre teste. Quando mi capitava di affrontare lunghi viaggi, mi piaceva osservare il panorama attraverso le grandi vetrate del treno. Mi piaceva guardare il cielo e fantasticavo come di mio solito, lasciandomi ammaliare da tutto ciò che i miei occhi riuscivano a scorgere.
Friedhelm si sedette accanto a me, gli altri tre posti rimanenti erano stati già occupati da papà, Hanna e Charlotte.
Il treno dopo alcuni minuti si mosse, lasciando pian piano Berlino.
Ci sarei mai ritornata? Mi sarebbe mancata? Sì, mi sarebbe mancata. In quella casa avevo lasciato le cose più importanti, non oggetti materiali, semplicemente i più bei ricordi della mia infanzia.
Il viaggio durò parecchio tempo. Arrivammo alla stazione di Cracovia alle otto di sera.
In questo lasso di tempo notai, appena arrivati in Polonia: la neve. Tanta neve pura e candida che cadeva silenziosamente dal cielo muto e grigio. Si posava con leggerezza sui campi, imbiancando ogni cosa.
Papà e Charlotte, nel frattempo, intavolarono una conversazione. Charlie chiedeva a papà della nuova casa, della sua nuova camera e come sarebbe stato vivere in una nuova città e papà altamente scocciato le rispondeva, cercando di non perdere la pazienza.
Hanna, invece, non aveva fatto altro che lamentarsi per tutta la durata del viaggio. «Questa neve renderà la mia pelle secca e ruvida!» Ripeteva a papà, con voce stridula.
La stanchezza del viaggio quasi concluso arrivò, facendomi cadere in un sonno ristoratore.
Senza accorgermene, la mia testa si posò sulla spalla sinistra di Friedhelm.
Avvertii il suo buonissimo profumo di menta e liquirizia che invase completamente le mie narici. Il battito del suo cuore era aumentato e il suo respiro diventò irregolare e frenetico. Rilassai il mio corpo e i miei occhi si arresero alla stanchezza accumulata, chiudendosi. Friedhelm non mi svegliò e cominciò, senza farsi notare da mio padre e sua madre, ad accarezzarmi piacevolmente la schiena.
Quando il treno si fermò, fu proprio Friedhelm a destarmi, sfiorandomi la guancia e sussurrando accanto al mio orecchio: «Anne, siamo arrivati. Svegliati.»
Mi svegliai di soprassalto percependo il tocco della sua mano contro la mia guancia. Ricevetti una scossa decisa che attraversò interamente la mia schiena e le mie gote si arrossarono a causa della sua vicinanza.
Annuii imbarazzata a Friedhelm e mi alzai, seguendo gli altri fuori dalla cabina. Scendemmo dal treno e fummo invasi bruscamente da un freddo secco e rigido. Mi strinsi infreddolita nel mio cappotto, avvolgendo meglio sul mio collo la grande sciarpa di lana.
C'era neve dappertutto. All'uscita della stazione trovammo un auto parcheggiata accanto al marciapiede, pronta per condurci alla nuova casa. La gente che attendeva l'arrivo del prossimo trasporto ci osservò con astio e ostilità, commentando in polacco il nostro arrivo.
Alcuni uomini, come era capitato anche a Berlino, urlarono: «Heil Hitler!» Molti altri, invece, si dileguarono velocemente, lanciandoci occhiate di fuoco.
Papà e Friedhelm salutarono alcuni ragazzi con un gesto del capo, continuando a camminare.
Ben presto salimmo in auto e lasciammo alle nostre spalle la stazione polacca che ci aveva ospitati solo qualche istante.
Davanti a noi avevamo solamente alberi imbiancati e una strada rettilinea che ci avrebbe condotto nella nostra nuova casa.
La foresta polacca era di una vastità impressionante ed incuteva anche un certo timore.
Dopo un quarto d'ora circa vedemmo in lontananza una grande casa scura farsi sempre più ingombrante.
I cancelli furono aperti da alcuni soldati e l'autista parcheggiò, facendoci scendere.
Ad attenderci in giardino vi erano quattro graduati nazisti. Si avvicinarono a papà e a Friedhelm ed eseguirono il saluto romano, gridando come sempre: «Heil Hitler!»
I quattro soldati dopo aver salutato Hitler si avvicinarono verso le donne ed eseguirono un baciamano frettoloso e distaccato.
Sicuramente la loro prima impressione non fu delle migliori. Non mi erano per niente simpatici ed avevano uno sguardo che avrebbe fatto accapponare la pelle persino ad un leone affamato. Erano alti e robusti, ci superavano abbondantemente in altezza. I loro occhi chiari erano freddi ed asettici, di una tonalità simile al ghiaccio. La loro divisa, in contrasto con la neve e il buio della sera, li rendeva tetri e tenebrosi. Emanavano negatività ed inquietudine.
«Willkommen in Krakow*! Herr Standartenführer Von Falk!» Dissero in coro le quattro SS, rivolgendosi amichevolmente a papà e stringendogli la mano.
Wilkommen in Krakow*: "Benvenuti a Cracovia"
Disclaimer: La storia che vi apprestate a leggere è di proprietà della rispettiva autrice, così come i personaggi in essa contenuti, eccetto quelli noti storicamente.
I fatti narrati sono frutto della mia immaginazione, pertanto ogni riferimento a fatti o persone realmente esistenti è puramente casuale, non voluto e senza alcuno scopo di lucro.