La Rosa Eterna

By AretusaSkyler

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[VINCITRICE contest - Gli Oscar Wattpadiani 2018 - in *MIGLIOR MONTAGGIO* e *PREMIO SPECIALE SUSPENCE*] Una d... More

Electrical Storm
22 novembre 2016.
22 Novembre. Parte II.
23 Novembre 2016
23 Novembre. Parte II.
24 Novembre 2016.
24 novembre. Parte II.
25 Novembre 2016.
25 Novembre 2016. Parte II.
26 Novembre 2016.
26 Novembre 2016. Parte II.
CREDIT🌹
28 Novembre 2016.
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29 Novembre 2016.
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30 Novembre 2016.
1 Dicembre 2016.
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2 Dicembre 2016.
2 Dicembre. Parte II.
3 Dicembre 2016.
3 Dicembre 2016. Parte II.
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4 Dicembre 2016.
4 Dicembre.Parte II.
5 Dicembre 2016.
5 Dicembre. Parte II.
6 Dicembre 2016.
6 Dicembre. Parte II.
6 Dicembre. Parte III.
6 Dicembre. Parte IV.
7 Dicembre 2016.
7 Dicembre. Parte II.
7 Dicembre. Parte III.
7 Dicembre. Parte IV.
8 Dicembre 2016.
8 Dicembre. Parte II.
Credit happy birthday🌹
8 Dicembre. Parte III.
8 Dicembre. Parte IV.
Tempesta elettrica.
9 Dicembre 2016.
9 Dicembre. Parte II.
9 Dicembre.Parte III.
🌹Epilogo🌹
Ringraziamenti 🌹
• Post credit •

30 Novembre. Parte II.

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By AretusaSkyler

• Agata •

Stava sdraiata sul letto, sotto il piumone, con il tablet tra le mani. Leggeva distrattamente su Wattpad, mentre pensava ai suoi genitori; di come l'avessero bevuta sulla storia che lei aveva raccontato.

La scusa che era caduta malamente per rincorrere il pullman della scuola l'aveva arricchita talmente di dettagli, da sembrare abbastanza verosimile.

Non avevano fatto tante domande e lei non aveva dato troppe risposte a quelle poche che le avevano rivolto. Sua madre l'aveva trovata già sotto le coperte, dolorante, al rientro dalla spesa del mercato, e quel poco che aveva saputo da Agata se l'era fatto bastare, come sempre, per non farla innervosire ulteriormente.

Non amava litigare con sua figlia e questa sua remissività provocava in Agata una profonda frustrazione.
Nel suo evitare lo scontro, lei non sentiva addosso le attenzioni che sua madre riversava nei suoi fratelli.
Capiva perfettamente che non era più una bambina, ma non c'era un limite d'età oltre il quale non si sentisse il bisogno di un abbraccio o di sentirsi dire ti voglio bene.
Aveva tanto bisogno di sentirsi amata.
Aveva tanto bisogno di sua madre.

Sentì suonare alla porta. Uscì da sotto il piumone e, solo con i calzini, si precipitò a scendere le scale per evitare che un ulteriore trillo avrebbe svegliato i gemelli. Li aveva messi a letto da un'oretta, dopo avergli letto la loro fiaba preferita:Biancaneve e i sette nani.

L'orologio della parete segnava le ventitrè.

Chi poteva mai essere a quell'ora  tarda? Strano. Il mercoledì sua madre non smontava così presto dal turno serale.

Forse avrà dimenticato le chiavi.

Guardò dallo spioncino e vide una massa di riccioli biondi che facevano capolino dall'occhio magico della porta.

Tito?

Non aveva mai osato bussare, nè tantomeno oltrepassare il vialetto d'ingresso.

Preoccupatissima aprì la porta, trovandoselo di fronte.

La prima cosa che la fece subito preoccupare era vederlo stare male, malissimo: tremava come una foglia, agitava spasmodicamente le mani e gli occhi rincorrevano qualcosa di sfuggente e invisibile.

«Tito... Tito... Dio santo...» disse a bassa voce, per non farlo agitare ulteriormente, «perché stai così? È successo qualcosa? Dimmelo!»

Uscì fuori, accostando la porta. Il freddo della notte oltrepassava la sua felpa, con impressa l'immagine di Justin Bieber, che indossava per dormire come suo vecchio ricordo adolescenziale.
I suoi piedi erano diventati due monoblocchi di ghiaccio, ma non voleva pensarci.

Tito aveva bisogno di lei. E vaffanculo al freddo.

«Vuoi entrare? Ti preparo la cioccolata calda che ti piace tanto?»

Il ragazzo le fece un segno forte di diniego con la testa, guardandosi con fare circospetto attorno.

«Prendili» disse, con la sua voce piatta e metallica, porgendogli un rotolo di carta tenuto stretto da un nastro, «e nascondili. Non li deve vedere nessuno. Promettimelo.»

«Okay, okay... Te lo prometto, Tito. Ma calmati, adesso!»

I fari di un'auto che imboccarono la stretta strada di campagna squarciarono l'oscurità che li circondava. La grande e costosa automobile rallentò, fino a fermarsi, davanti al suo cancello. Riconobbe la sua vicina, che abitava a cento metri di distanza abbassare il finestrino.

Si voltò per cercare Tito con lo sguardo, ma era sparito.

«Agata, tutto bene?»

«Sì ... Grazie, Dottoressa La Mantia. Ho sentito un cagnolino piangere, e sono uscita a controllare.»

Perché sto mentendo?

«Sarà scappato sentendo la macchina. Ma cerca di rientrare che fa un freddo cane. Buonanotte, Agata.»

Le fece un cenno di saluto con la mano, rimettendo la marcia e scendendo verso casa.

Appena il tempo di veder scendere la macchina per la buia e stretta strada e cominciò a chiamare il suo amico, letteralmente inghiottito dalla notte.

«Tito?... Tito ?... Dove sei andato a finire?»

Fece un salto in aria quando se lo vide spuntare dall'oscurità del giardino. Aveva il viso stravolto e due occhi colmi di una paura profonda, atavica e oscura.

«Nascondi i disegni e non farli vedere a nessuno! Nemmeno tu. Promettimelo!»

Parlava a fatica, con sguardo allucinato e il viso alterato da un'emozione che Agata non riusciva a decifrare.

«Ok, te lo prometto. Ma per favo...»

Si allontanò prima ancora di farle finire la frase e trattenendosi dall'istinto di rincorrerlo. Lui odiava essere toccato.

Una volta in camera, non riuscì a prendere sonno per la curiosità.

Cosa c'era disegnato in quei fogli?
Perché erano così importanti da farglieli nascondere? Perché ne aveva tanta paura?

Lui amava disegnare in maniera astratta e senza tecnica; solo quello che la sua mente, in quel momento, evocava, lo imprimeva in rapide pennellate nervose e vibranti.
Come averla impressa, con pochi tratti, su un telo bianco, tre giorni prima, rendendo il suo dipinto molto personale e unico.

Perché è arrivato al punto di suonarmi fino a casa, di notte, per consegnarmeli?

Troppo inquietante.

Con un calcio tirò via la coperta e prese i fogli. Li osservò bene, sentendo montare veloce un pesante senso di colpa. Non emanavano odore di pittura fresca. Non erano recenti.

Sciolse, con leggera esitazione, il nastro che li avvolgeva. Un forte senso di tradimento le corrodeva la coscienza. 

Li aprì sulla scrivania, accendendo e posizionando la lampada sopra i fogli.
Sentiva i suoi battiti impetuosi galoppare veloci come cavalli indomiti.

Cristo santo.

Diversi disegni, messi giù con tratto veloce e nervoso, rappresentavano degli avvenimenti, in maniera nitida e chiara.

Primo foglio:

dentro una stanza, sul pavimento, una ragazza. Bionda. Con una pozza di sangue sotto la testa e con diverse figure che le stavano attorno.

Secondo foglio:

riconobbe Tito. Accanto ad una porta, che osservava. Un ragazzo con corti riccioli scuri gli stava accanto e guardavano quello che stava succedendo, davanti ai loro occhi.
Uno stupro. La ragazza bionda aveva i polsi bloccati da una figura alle sue spalle e l'altra, inginocchiata davanti le sue gambe aperte, teneva i pantaloni abbassati.

Devo vomitare.

La nausea era salita fino all'esofago e pensò che non sarebbe riuscita a trattenersi ancora per molto. Bloccò il conato con una mano, mentre con l'altra premeva all'altezza del diaframma.

Decise di continuare a guardare.

Terzo foglio:

non capiva se era una stanza; l'ambiente sotto era molto sfumato, con i contorni evanescenti.
Una ragazza dai lunghi capelli neri era avvinghiata ad un uomo. Lui le teneva una coscia sul suo fianco mentre lei si aggrappava alle sue braccia, appoggiati ad una parete.
In disparte, sempre quel ragazzo visto nel foglio precedente, osservava la scena.

Tutto erano immortalato in maniera talmente perfetta da sembrare una fotografia : i vestiti, i colori , le magliette dei ragazzi, la collana al collo della ragazza. Tutti i dettagli impressi.

Ommioddio.
Sto guardando quello ha visto Tito.
Sto guardando quello che è successo quella notte di dieci anni fa.

Prese l'altro foglio.

Il quarto.

Il fischio nelle sue orecchie divenne insopportabile e il cuore in tumulto stava per spaccarle la cassa toracica.

Lo alzò, portandoselo all'altezza degli occhi, avvicinandoselo fino alla punta del naso.

Non è possibile. Non è vero.

L'uomo baciava la ragazza con i capelli neri. Appassionatamente.
Occupavano tutto lo spazio bianco, come il ritratto di due innamorati.
Ma non era così.
Era orribile.
Vedeva un uomo brizzolato baciare una ragazzina.
Vedeva un uomo che poteva essere il padre, vista la notevole differenza d'età.

Chi erano?

Prese lo sgabello, lasciandosi cadere priva d'inerzia, tirando fuori un pesante sospiro di sollievo.
Una sensazione di euforia, mista a eccitazione, la pervase, penetrando fino in fondo al suo animo.

Per quello che non aveva visto.

Diego

Il garage dello zio di Seba era rimasto identico a come se lo ricordava. Un deposito di un appassionato meccanico dove loro, anni addietro, si ritrovavano, per riparare i loro scooter.

L'odore di oli e vernici era rimasto sempre lo stesso, come il vecchio e logoro banco di lavoro dove si trovava seduto.
Tutto uguale e tutto diverso.
Non erano più i ragazzi spensierati di dieci anni prima. Adesso l'atmosfera era d'imbarazzo e di disagio, e lui non riusciva a farsi coinvolgere dalle risate e dai ricordi. Gli sembrava tutto troppo forzato.

Si era sorpreso della telefonata di Seba, quel pomeriggio. Lo invitava a bere delle birre, nel loro consueto ritrovo, assieme ad Enea e altri due che conosceva di vista. Aveva tentennato un po', ma alla fine aveva ceduto all'insistenza del vecchio amico.

Parlavano di loro, delle loro vite, ognuno con una lattina in mano.

Enea lavorava nell'impresa edile del padre, si era molto appesantito nel fisico nel corso degli anni, soprattutto per colpa dell'alcol.
Seba, invece, era rimasto sempre uguale, asciutto e slanciato, solo con meno capelli.

«Ma sapete che fine ha fatto Augusto?» chiese Diego, nel bel mezzo di un racconto della loro adolescenza.

«È ricco sfondato. Lavora per una società che gestisce resorts di lusso, vive a Montecarlo e nessuno lo vede più da un sacco di anni. Se non fosse per sua madre che dice qualcosa ...» spiegò Seba.

Diego si sorprese della notizia. Non era questo quello che Augusto voleva fare. «Pensavo che fosse diventato veterinario. Era il suo sogno... da sempre.»

I ricordi che lo legavano al suo migliore amico gli invasarono la mente, provando al tempo stesso una fitta di dolore per la sua mancanza. Non aveva avuto più modo nè di vederlo, nè di salutarlo da quella maledetta sera.

«Neanch'io volevo fare il muratore» gli ribattè Enea, aprendo un'altra lattina di birra, «ma il servizio militare non l'ho fatto, e nemmeno ho continuato gli studi. Qualche mestiere dovevo imparare.»

«Dopo un incidente, ho dovuto rinunciare alle corse in moto e al mio sogno di correre nella moto gp» aggiunse pensieroso Seba, «e mettermi a lavorare alla tavernetta di mia sorella. L'hai saputo che si è sposata con Piero, il cuoco che lavorava nel vostro ristorante?»

«Sì ... l'ho saputo» rispose Diego.

«Come vedi, nessuno di noi fa quello che sognava di fare a vent'anni» aggiunse l'amico, bevendo un lungo sorso di birra.

«Beh ragazzi... io volevo fare il fisico e invece ho preso un attestato di falegname in carcere.»

L'attimo si dilatò, ingoiando lo scandire del tempo, cristallizzando l'istante sospeso.
Silenzio.
Dopo qualche minuto, le fragorose risate allentarono la situazione diventata imbarazzante.

Si erano finalmente ritrovati.

«Solo Diana ce l'ha fatta. È sempre stata sempre ambiziosa e determinata ed è arrivata dove voleva arrivare» ricordò Seba, guardando Diego e diventando serio, di colpo. «Senti Diego... volevo dirti che mi dispiace di aver detto agli sbirri di come ti abbiamo visto quella notte» aggiunse, esitando appena.

«Hai detto quello che hai visto... e ormai è acqua passata. Mi fa piacere che, almeno voi due, non mi evitate, come tutti gli altri.»

L'amico gli battè una mano sulla spalla,  facendo svanire la sensazione d'incagliamento emotivo che li tratteneva dal rilassarsi e godersi il loro stare assieme, dopo tanto tempo.

«Siamo qui, Diego, dove ci hai lasciato.»

Come una massa liquida impetuosa, la corrente dei ricordi li travolse, rompendo gli argini del tempo. Cominciarono a
parlare tutti insieme, accavallandosi le voci e le risate: «Oh... ma vi ricordate la festa della Luna e tutte le tipe ubriache ci siamo sbattute in spiaggia? Minchia... che bei tempi erano quelli!... E la festa dei diciott'anni di Augusto, con le ragazze della classe rimaste in reggiseno e slip nella sua piscina? Minchia, 'mbare... quanto ci siamo sballati quella volta... dio santo!... e il festino sospeso a casa mia, ve lo ricordate? L'erba nascosta dentro le mutande quando è arrivato mio padre! E chi se li scorda tutti i danni che abbiamo combinato in giro per il paese

Seba non la smetteva di raccontare i vari aneddoti, mentre gli altri non riuscivano a frenare le risate. Prese un tovagliolo, asciugandosi gli occhi umidi dalle lacrime.

«Picciotti, questa per forza la dovete ricordare! Quella sera che ho rubato la macchina di mio padre, senza patente, e siamo andati al capannone abbandonato, quello lì della zona industriale, per andare a fare la gara di rally! Cazzo... che flash ci siamo fatti sa notte!»

Andrea

Entrò in casa cercando di non fare rumore. L'ora era tarda e non voleva svegliare la figlia e soprattutto, guardare in faccia sua moglie. Chiuse la porta, accompagnandola con la mano e si diresse in cucina, per poter mangiare qualcosa. Era rimasto in ufficio fino a quell'ora, lavorando su incartamenti arretrati, impegnando la mente per non pensare.

Si fermò di botto, guardando il divano. Virginia era lì, che dormiva, con la testa appoggiata allo schienale. Sul suo petto, aperto e scomposto, il libro che stava leggendo.

La voglia di avvicinarsi a lei, di svegliarla con un bacio, di accarezzarla e possederla, su quel divano, furiosamente, balenò improvvisa nei suoi pensieri, ma fu sopraffatto dal sospetto insidioso del tradimento, che gli stava rodendo la coscienza.

La voleva afferrare, scuotere, gridarle in faccia che sapeva dei suoi spostamenti; sbatterle in pieno viso le carte dei tabulati.

Ma non lo fece.

La paura di spaccare la famiglia, di perdere la bambina, di restare solo in un triste monolocale, lo paralizzò fin dentro le viscere. La paura di sentirsi dire una verità che avrebbe invertito, in modo definitivo, il tranquillo senso della sua vita.

La paura di perdere il suo tutto, di veder svanire il suo mondo perfetto, come un anello di fumo sospeso a un filo sottilissimo evanescente.

Allontanò lo sguardo e si voltò, diretto in cucina.

Mentre prendeva una ciotola di insalata pronta, Virginia arrivò alle sue spalle.

«Andrea, perché così tardi? Mi sono addormentata mentre leggevo, e non ti ho sentito entrare.»

Lei parlava e lui condiva l'insalata, la mescolava, con finta attenzione,
sbirciando sua moglie di nascosto. Non poteva negare l'attrazione che ancora avvertiva forte, nei suoi confronti. Come
la fibrillazione che lo scuoteva, guardandola così bella e sensuale, in quel momento, accanto a lui.

«Perché oggi non mi hai chiamato nel cell? Francesca mi ha detto della tua chiamata in ufficio» chiese lei, in maniera distratta, mentre gli passava davanti per andare ad aprire il frigo.

«Non era niente di importante» – i tabulati... volevo dirti dei tabulati ... – «ho avuto poi molto lavoro arretrato e non c'ho più pensato."

«Ero andata a ritirare il vestitino di Diletta» spiegò, prendendo il latte e chiudendo il frigo.

L'istinto lo fece muovere, fino ad arrivare a un passo da lei.

Sentì il calore della sua schiena, appoggiata sul suo torace. Andrea l'aveva raggiunta senza farsi sentire, con passo felpato, bloccandola alle spalle. Il liquido bianco, dentro la bottiglia, ebbe una lieve oscillazione mentre lui posava il suo respiro tra i suoi capelli, spostandoli in maniera impercettibile con la punta del naso.

Virginia gli offrì il collo, appoggiando la testa sulla sua spalla. Andrea ne seguì la dolce curva, aspirando forte il suo odore floreale.

Lei teneva stretta la bottiglia, e la mano cominciò a tremare,
il respiro farsi più corto nel sentire la lingua di lui tracciare punti ardenti sotto l'orecchio; spostandole i capelli con la mano.

Gli cinse la vita con un braccio, stringendola stretta contro il suo petto, sentendo, furioso, il rimbombare del suo cuore attraversare la camicia. Continuò a baciarla sulla nuca, sul collo, per scendere fino alla spalla. Fino a  quando il respiro di Virginia divenne affanno, fino a trasformarlo in ansimi soffocati.

c'è un altro

All'improvviso, fece un passo indietro, allontanandosi di colpo da lei.

Virginia si voltò di scatto, reggendo tremante ancora la bottiglia di vetro tra le mani. Lo guardò sgomenta e incredula mentre lui, con occhi spenti, usciva dalla cucina, lasciandola sola.

Gli occhi afflitti e silenziosi di sua moglie furono l'ultima cosa che vide, prima di uscire nuovamente da casa.

c'è un altro

Salì veloce dentro la macchina, catapultandosi all'interno dell'abitacolo.

Lacrime di frustrazione riempirono i suoi occhi di rabbia trasparente, fluida, cristallina, dal sapore salato e la pesantezza di gocce di piombo. Non voleva possederla con l'inganno, anche se il corpo di lei aveva risposto alle sue carezze, ai suoi baci.

Non poteva.

Mise in moto, inserendo la marcia e facendo stridere i pneumatici.
Senza una destinazione.

Capì in quel momento che, qualsiasi cosa avrebbe detto o fatto, non sarebbe più riuscito a credere in lei.
Non sarebbe più riuscito a fidarsi di sua moglie.

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