Criminal

By amorevanescit

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Quando la crudeltà rapisce l'intelligenza, non si può far altro che sperare di uscirne illesi. Sperare che la... More

Capitolo 2
Capitolo 3
Capitolo 4
Capitolo 5

Capitolo 1

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By amorevanescit

Capitolo 1

Si sentì lo stridio delle rotaie in lontananza.

La metropolitana era arrivata, puntuale come l'orologio svizzero che il suo capo lo aveva costretto ad indossare, per fare in modo che arrivasse puntuale in ufficio, senza poter usufruire delle sue scuse giornaliere.

Le porte di vetro si spalancarono davanti ai suoi occhi ancora spenti. Fu costretto a salire in fretta, strattonato dalla massa di persone impazienti di arrivare ognuno al proprio ufficio. Perché, sì, quello era il quartiere 'degli uffici' per eccellenza, dove gli uomini d'affari si riunivano per svolgere i propri doveri, strettamente legati al denaro.

E avrebbe voluto avere anche lui tutta quella frenesia, senza il bisogno di sentirsi oppresso dallo scorrere del tempo, oltre che dall'imponenza di un tale schiacciato contro il suo gracile corpo.

Quella giornata gli pareva più angosciante delle altre. Mentre il suo respiro cercava di farsi spazio tra le figure presenti nel vagone, il ragazzo teneva stretta a sé la sua ventiquattrore carica di fogli compilati da consegnare al suo capo entro la fine della mattinata.

In quel posto regnava un inquietante silenzio, rotto soltanto dal fastidioso ticchettio dei diversi orologi, o dal trillo di qualche telefono ricevente un messaggio; il rumore assordante delle urla del suo superiore gli rimbombavano nella mente: le avrebbe ricevute lui se non avesse completato il lavoro quella notte.

Sbadigliò al pensiero, sperando di non doversi ritrovare al posto della povera Margaret, derisa e licenziata davanti all'intera azienda per il semplice fatto di aver sbagliato ad inviare dei fax... per la quarta volta.

La metropolitana si fermò improvvisamente, facendo sobbalzare la metà delle anime vestite color grigio topo; non ci fu neanche bisogno di sorreggersi agli appositi pali blu, tanto erano ammassati tra loro quei corpi.

Finalmente le porte di vetro si riaprirono, permettendo agli individui in divisa di uscire ed intraprendere una nuova giornata lavorativa.

Quelragazzo riuscì a scendere solo quando il vagone si fu svuotato del tutto.

Oltrepassata la linea gialla, diede una nuova occhiata all'orologio, realizzando che anche quella mattina sarebbe arrivato in ritardo.

Cercando di architettare una delle sue solite scuse degne di una mente criminale, si diresse lentamente verso l'uscita della stazione.

Non essendo il Sole sorto ancora completamente, quella frazione del quartiere di Manhattan era poco popolata.

Egliera solito definire - come la maggior parte delle persone, del resto - New York come "la città che non dorme mai", ma la sensazione di stanchezza che si impadroniva sempre più spesso del suo corpo gli faceva spostare il pensiero su sé stesso, arrivando a definirsi il 'tipico cittadino che non dorme mai'.

Giunto all'interno di uno dei tanti grattacieli grigiastri - il secondo sul marciapiede sinistro, dalla sua prospettiva -, il ragazzo prese il solito ascensore che da due anni lo portava al suo studio, con la sua solita scrivania e la solita aria di chiuso da dover condividere con un'altra ventina di persone.

Gli venne una morsa allo stomaco - che egli confuse con un attacco di fame - quando si accinse a guardare il panorama - apprezato dalla maggior parte delle persone aventi un posto di lavoro in quel quartiere -, preso da un attacco di vertigini.

Strinse con maggior forza il manico della ventiquattrore, chiudendo gli occhi: dopo tre anni di lavoro non era ancora riuscito a sconfiggere quella paura delle altezze, e questo diventa un problema se si lavora al quarantottesimo piano di un grattacielo.

Le porte si aprirono dietro di lui, mostrandogli il grigio corridoio che collegava i diversi uffici, ancora deserti.

Camminò fino ad arrivare all'ultima stanza, dove poté accomodarsi sulla rossa poltrona dietro alla scrivania. Alle sue spalle erano presenti delle enormi vetrate che permettevano una vista quasi completa di Central Park, con tanto di laghetti e alberi che variavano la loro tonalità di verde a seconda dell'area in cui si trovavano.

Un po' come i suoi occhi, che si soffermarono ad osservare l'immensa distesa di palazzi, industrie e grattacieli ancor più cupi dei suoi stessi abiti.

L'insolita tranquillità del quartiere a quell'ora del mattino e l'aria riscaldata dell'ufficio lo portarono a compiere pensieri fin troppo filosofici per il suo solito.

Si domandò che bisogno avesse l'uomo di costruire e possedere tutta quella "roba" - come la definì Verga in una famosa novella, che lui aveva letto e riletto negli anni passati-, togliendo spazio a ciò che la natura gli aveva offerto.

Perfino Central Park, pur essendo un parco, pareva tutto meno che naturale.

Controllando l'orologio per la terza volta in quella mattina, si rese conto che da lì a poco sarebbero comparsi degli uomini con delle improbabili tenute blu elettrico che si sarebbero impegnati a lavare i vetri di quelle finestre, ma non diede altrettanta importanza all'arrivodi una persona ben più autorevole.

«Signor Smith

Ridestatosi dai propri ragionamenti, il giovane fece girare teatralmente la grande poltrona, rivolgendo uno sguardo scherzosamente ammaliante al suo datore di lavoro.

«Signor Payne.»ricambiò il saluto.

«Noto con poco piacere come la sua attività preferita in orario di lavoro sia crogiolarsi su una poltrona...» ripose le chiavi che teneva nella tasca dei pantaloni - rigorosamente grigi- accanto al fermacarte di cristallo, prima di fissarlo con occhi gelidi «la mia poltrona.»

Ad Edward aveva sempre divertito il fatto di poter stuzzicare il proprio capo, evitando un licenziamento immediato solo grazie all'eccellente lavoro svolto giornalmente.

Gli rivolse appunto un sorriso furbo, di chi la sapeva lunga.

«Esistono un lavoro visibile ed uno invisibile, capo.» gli cedette il posto, camminando verso il centro dello studio «Una persona non è pigra, se assorta nei propri pensieri.»

Ora i due personaggi si stavano osservando.

«Rimarrei delle ore ad ascoltare le citazioni di Hugo, ma ho del vero lavoro da svolgere. E affido anche a te un visibile compito.» Edward si diresse verso la porta dello studio, in attesa di ordini. «Vai a prendermi un caffè, non ho avuto il tempo di fare colazione stamani.» e con un sospiro, il suo assistente uscì.

«Nemmeno io, capo.»

«Smith, ho un altro compito da affidarti.»

"Oh, e quando mai." si limitò a pensare, per non perdere il posto di lavoro.

Rimase in silenzio, in attesa di nuovi ordini.

«Ho bisogno di soldi-

"Sono l'ultima persona in grado di procurarglieli, cosa..." i pensieri del ragazzo interruppero il suo ascolto.

«Può ripetere?»

Il signor Payne lo guardò severo.

«Ti ho appena chiesto di andare a prelevare dei contanti al posto mio. Troppo complicato?»

«No, certo...» si rese conto.

«Molto bene, sai già le procedure e il codice.»

«Certo, capo.» fece un piccolo inchino e fece per uscire dalla porta per la seconda volta.

«E, Smith...- richiamò la sua attenzione -mi raccomando, mi fido.»

Edward scosse la testa: «Non arriverei mai a quei livelli, ho una dignità anch'io.» si congedò.

"Peccato che la sua banca di fiducia sia dall'altra parte del quartiere."

Cercando di mantenere un passo costante ma non troppo svelto, il ragazzo non si rese conto nemmeno del telefono che squillava insistentemente.

«Il direttore Payne non è raggiungibile, riprovi più tardi.»

«Sei diventato una segreteria telefonica adesso?» una risata metallica risuonò nelle sue orecchie.

Sorrise anche lui.

«Stan.»

«Allora, come te la passi nella nuova azienda?» la curiosità dell'amico lo insospettì.

«Ci lavoro da tre anni, penso vada bene. Senti, proprio ora sto svolgendo una commissione, quindi penso che...»

«Aspetta, aspetta. Volevo soltanto chiederti una cosuccia...»

Come un'apparizione divina, Edward intravide la banca da lontano.

"JP Morgan Chase"

Camminò velocemente in quella direzione, senza staccare il telefono dall'orecchio.

«Non ho molto tempo, spara.»

E potrebbe aver giurato di aver sentito il rumore assordante di un'arma da fuoco.

"Ma che diavolo..."

Mai avrebbe immaginato di vedere una scena simile con i propri occhi.

«Si, penso che ti richiamerò.» interruppe immediatamente la chiamata, per rendersi meglio conto di cosa stesse accadendo.

Ma non bastava pensare, non ce n'era tempo.

"911"

Compose il più in fretta possibile il numero del New York City Police Department, sperando in una risposta immediata.

-Dipartimento di Polizia di New York, posso esserle utile?-

«Finalmente... m-mi trovo davanti alla Morgan Chase e...» gli occhi verdi si posarono sui due uomini dal volto nascosto e le armi ben salde puntate verso il cielo.

Corse.

Iniziò a correre per mettersi in salvo, per evitare quegli sguardi, per evitare di ricevere una pallottola in testa, al petto, o in qualsiasi parte del corpo.

Si rifugiò in un vicolo poco distante, senza essersi preoccupato di essere visto, o seguito. Voleva solo scappare.

-Signore, cortesemente, mi deve spieg...- la donna dall'altro capo del telefono non sembrava capire.

«C'è una rapina.» sputò con voce ansimante.

-Mandiamo subito una volante. Lei dove si trova?-

«S-sono fuori.» riuscì a balbettare con le poche forze rimaste.

«Ti sbagli.»

Chiuse gli occhi, non trovando il coraggio di voltarsi.

Oppure di muoversi.

O di respirare.

«Tu sei in pericolo ora.»

E con i palmi che tremavano, lasciò scivolare il costoso e delicato cellulare dalle mani, lasciando che si infrangesse al suolo.

Sollevò quelle mani sudate, esponendo arrendevolezza.

Non sentì nemmeno i passi del suo aguzzino farsi sempre più vicini, costanti. Il suo respiro pesante gli era ora sul collo.

Quella vicinanza scatenò in lui un intenso tremore.

«Ora hai paura, eh?» il tono furioso del ladro arrivò alle orecchie di Edward con la stessa velocità con cui la pistola gli venne puntata alla gola.

Alla gola, semplicemente perché Edward era troppo alto per essere minacciato alle tempie dal malvivente.

Si dovette alzare sulle punte dei piedi per intrappolargli il collo con un braccio, per impedirgli di respirare, per bloccargli ogni via di fuga, o semplicemente per renderlo prigioniero, una sua preda.

«Sembri un ragazzo benestante, in questi stracci firmati.» alluse alla giacca nera Giorgio Armani, o magari ai suoi pantaloni scuri quasi aderenti alle gambe magre.

«Veramente io...»

«Taci» lo ammonì alzando la voce «non ti ho autorizzato a parlare.»

Edward deglutì ancora, silenziosamente. Quella situazione era decisamente troppo per lui, ragazzo ventitreenne, gay.

«Oh povero ragazzino.» lo schernì «Non avere paura...» abbassò la pistola, facendo riprendere al ragazzo un'attività respiratoria.

«Tra poco sarà tutto finito» un ghigno.

L'ultimo suono che riuscì a sentire fu il sospiro del suo aguzzino.

L'ultima immagine che riuscì a vedere fu la grigia parete che chiudeva il vicolo.

L'ultima sensazione fu un improvviso dolore lancinante alla schiena.

E poi, buio.

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