Celeste - Lasciati trovare [S...

By Ritaska99

176K 7.9K 2.4K

[SEGUITO DI "CELESTE - LA MIGLIOR COSA CHE NON HO MAI AVUTO". È CONSIGLIABILE LEGGERE QUELLA, PRIMA DI QUESTA... More

Prologo
0.1 Celeste
0.2 Peter
0.3 Celeste
0.4 Peter
0.5 Celeste
0.6 Peter
0.8 Peter
0.9 Celeste
1.0 Peter
1. Ruin
2. The Scientist
3. The One That Got Away
4. Always hate me
5. Drunk
6. When We Were Young
7. Friends
8. What Happened To Perfect
9. Places Where We Are

0.7 Celeste

8.8K 392 68
By Ritaska99

"I was already missing before the
Night I left. Just me and my shadow
And all of my regrets. Who am I?
Who am I, when I don't know myself?".

Philadelphia; 2015

Io credo che l'amore non si possa definire. Anche perché, andiamo, che si può mai dire? Quando ci si interroga su cosa sia l'amore, quale sarebbe la risposta giusta da darsi? Beati quelli che non si perdono a fissare il vuoto per una buona manciata di minuti, dopo un quesito del genere. Semmai l'unica spiegazione - o sedicente tale - che può essere considerata autentica e veritiera è quella che ne danno i bambini. Perché noi non possiamo saperlo. I bambini hanno sviluppato un sesto senso, che è proprio soltanto dei primi anni infantili e che si perde irreversibilmente quando si cresce: una tenera ingenuità che permette loro di vedere il mondo con occhi diversi, più bello di quanto in realtà non sia. Ai bimbi non importa del domani. Per loro la parola stessa non ha l'accezione inflessibile che le attribuiamo noi. Quando un bambino dice: "a domani", oppure "però domani torni?" include nell'arco di tempo tra il momento in cui pronuncia la frase e quell'"a domani" un ammontare infinito di secondi e altri momenti, fregandosene del fatto che l'individuo a cui lo ribadisce se ne stia effettivamente andando, ma confidando nella certezza che, prima o poi (non importa dopo quanti giorni, mesi, anni), tornerà. Per loro non c'è nulla di più rilevante dell'aver tenuto fede a quella tacita promessa. Sono fantastici; non portano rancore. Non sanno neanche cosa siano il risentimento e il rancore. Certe volte vorrei che noi "grandi" fossimo un po' più innocenti, meno razionali. Meno rigorosi, più spontanei. Più bambini. Un po' come mi sto comportando io adesso, in pratica. Normalmente quando si decide di intraprendere un viaggio ci si preoccupa quantomeno di buttar giù una sottospecie di programma, di piano, in modo da delineare almeno un itinerario; da darsi un'idea del tipo di vestiario da portare con sé; da sapere quanti soldi dover prelevare per non rischiare di rimanere improvvisamente al verde; da stabilire una destinazione - un punto d'arrivo - e un punto di partenza; da scegliere un mezzo di trasporto e un albergo, un motel dove alloggiare. Beh, normalmente, sì, perché questa lista racchiude in sé tutte le cose che sono stata capace di non fare, prima di partire per l'ignoto. Una meta non ce l'ho. Tantomeno un itinerario. Non mi è nemmeno passato per l'anticamera del cervello il pensiero di stendere un programma. Mi sto affidando al caso. Completamente e senza riserve. Il bello è che non m'importa. Non m'importa perché il gioco vale la candela, stavolta, e perché sono assolutamente determinata a compiere questa follia. Le mani mi tremano, mentre appallottolo una maglietta dopo l'altra in fretta e furia e le ficco in valigia. Sto facendo tutto meccanicamente, e non ho la più pallida idea di cosa io stia concretamente infilando nel bagaglio. Ho un nodo allo stomaco e il respiro irregolare. La puzza di fritto della friggitoria sotto il mio palazzo mi pizzica le narici, propagandosi nell'ambiente a causa della finestra aperta a vasistas. La musica a tutto volume della discoteca qui di fronte mi sta a dir poco stordendo i timpani. Ma tutto ciò che riesco a percepire non è altro che il battito del mio cuore - notevolmente più accelerato del consono - rimbombarmi nelle orecchie al suono di mille cannoni da fuoco. Tremo così tanto che, a un certo punto, esaurita, butto con foga la scarpa che avevo in mano a terra e mi getto di schiena sul letto, sbuffando, sconsolata, ed emettendo un verso di lamento, mentre mi porto entrambe le mani sul viso. A occhi chiusi ho la possibilità di fermarmi un attimo a riflettere - accarezzata dolcemente sul viso e sulle braccia scoperte da una fresca e leggera folata d'aria serale che proviene dall'esterno -, ma non ho bisogno di riflettere, in verità, perché io una scelta già l'ho fatta. Quella è e quella rimane, non ci sono scusanti. Al diavolo il dannato discorso che mi ha fatto Colin qualche giorno fa e che continua ripetutamente a frenarmi. Al diavolo l'etica e la morale, che mi fanno sentire una merda per aver chiesto una pausa a quello che era il mio ragazzo proprio il giorno del suo compleanno. Sì, perché ho già perso troppo tempo; non potevo aspettare ancora. Questa è una cosa mia. Tra me e Peter. Non devono entrarci terzi. Perché non avrei raccontato nulla a Evan di noi due, altrimenti? Colin la deve smettere di fare il filosofo, perché lui non si è mai trovato in una situazione come la mia. Tralasciando il paradosso assurdo della storia che lega me e Peter. Ma non è la mia storia a essere concatenata a lui. È la mia mente, il mio cuore, e la mia anima che è rimasta impigliata nella sua. Non lo so, se provo ancora qualcosa per lui. Sarei ipocrita a sostenere una cosa così. Però lo so, che non mi è indifferente. Non lo è mai stato e mai lo sarà. Vorrei solo sapere se sta bene. Vorrei solo dirgli che mi dispiace; che mi dispiace perché è per colpa mia che è andata così. Che mi dispiace perché, no, non era questo che volevo, e mi piacerebbe farglielo presente. Che mi dispiace perché sono sempre stata un'orgogliosa del cazzo, e che se non fosse stato così ora le cose sarebbero diverse. Quante volte mi sono chiesta cosa sarebbe successo, cosa ne sarebbe di me ora, se io quel giorno gli avessi confidato che lo amavo oltre ogni misura? Che per lui avrei rinunciato a Parigi e avrei seguitato a frequentare quel college che non mi piaceva manco un po'? Che avrei messo da parte i miei sogni e le mie ambizioni, per lui? Eppure non sono riuscita a mettere da parte il mio orgoglio, per lui. Mi sono sempre detta che forse era così che era destinata a finire, qualunque cosa ci fosse tra di noi. Che forse non era il tempo giusto per noi, perché esistessimo insieme, perché ci amassimo. Ma non era amore, quello che provavo per lui. Se così fosse stato, non gli avrei mai urlato contro tutto quello che gli ho detto quel fatidico giorno, e non l'avrei aggredito in quel modo. Mi sono lasciata guidare dal risentimento e dall'astio e l'ho perso. Prima di farmi prendere dall'angoscia e dallo sconforto, mi sollevo a sedere, raggruppo ai piedi del letto le ultime paia di scarpe che ancora dovevo sistemare, e ammucchio i panni restanti sul materasso. Mi alzo e lancio tutto nel borsone senza un minimo senso logico. Recupero dal bagno l'astuccio delle medicine e il beauty-case e metto il primo nella valigia, per poi chiuderla, issare la maniglia e farvi scivolare il beauty sopra grazie all'apposita fascetta. Risistemo il copriletto alla bell'e meglio e, frettolosamente e affannosamente, do uno sguardo d'insieme alla stanza, accosto la finestra aperta, afferro il trolley e me lo trascino dietro. Arraffo dall'attaccapanni nell'ingresso il mio zainetto portafortuna e lo svuoto sul divano. Lascio lì le carte di caramelle o i vecchi scontrini, e rimetto dentro i pacchetti di fazzoletti e salviette multiuso e il portafogli. Lo riempio con qualche snack del quale mi munisco dalla dispensa in cucina, una bottiglietta d'acqua, la busta da lettere con i risparmi che ho preso prima dal nascondiglio apposito sotto i cuscini del divano, il caricabatteria del cellulare e gli auricolari e, con l'impellente sensazione di aver dimenticato sicuramente qualcosa, lo richiudo velocemente. Vedo un rigonfiamento nella tasca superiore e apro la cerniera, ritrovandomi tra le mani la bandana verde che Peter mi aveva regalato quel giorno... Il cuore prende a battere - se possibile - ancora più rapidamente, e io lo interpreto come una sottospecie di segno divino o qualcosa di simile, per cui, dopo essermela legata al polso, mi metto lo zaino in spalla e mi precipito alla porta, rischiando di inciampare su un cuscino che, per l'urgenza, ho fatto cadere dal sofà. Lo schivo e, ghermiti un giubbino leggero e le chiavi di casa e della macchina, esco e mi sbatto violentemente la porta alle spalle, chiudendo a chiave a più mandate e volando quasi per le scale. Spero solo che ci sarà qualcosa o qualcuno pronto a fare da airbag e ad ammortizzare l'urto, nel caso in cui il paracadute non si slacciasse durante la caduta libera che sto intraprendendo verso il niente più assoluto, alla ricerca di qualcosa e qualcuno che, quasi certamente, non sarà di sicuro lì, impaziente, ad attendermi a braccia aperte.

×××

Mi porto alle labbra la tazza di caffè che sorreggo con entrambe le mani, mentre osservo il vuoto, senza minimamente prestare attenzione a tutto quello che sta accadendo attorno a me, persa nei miei pensieri, nella stanchezza dovuta alle innumerevoli ore insonni e in me stessa. È la seconda che bevo, ma non posso rischiare di addormentarmi mentre guido. Il profumo di caffeina si dissipa nell'aria ma si incastra nei miei polmoni, rigenerandomi, assieme al sapore rinvigorente della bevanda calda che mi sta scaldando le mani. Come se già non stessi morendo di caldo di mio. Per fortuna in quest'area di servizio sono accesi i condizionatori: in quella in cui mi sono fermata un'oretta fa per fare benzina e andare in bagno non lo erano, e per poco non si soffocava. Si respira profumo di cornetti caldi e cibo di ogni genere, nell'area ristoro. Sono seduta su uno sgabello particolarmente alto, a un tavolino rosso altrettanto soprelevato, con i gomiti poggiati sulla superficie di plastica. Fino a qualche minuto fa ero tutta intenta a guardarmi attorno, a osservare la gente che popola questo posto svolgere le mansioni più disparate. Ma ora non c'è più nessuno, a parte me e una cassiera abbastanza annoiata, che non fa altro che mangiucchiarsi le unghie di una mano e scorrere il pollice dell'altra sulla schermata principale del cellulare. E non è che posso pretendere chissà che affluenza, alle tre e mezza di mattina. La gente normale dorme. Sono io l'unica folle che ha stabilito di partire immediatamente. Termino il caffè e scendo dal rialzo, per poi riportare la tazza di ceramica alla suddetta cassiera, che, irritata, borbotta una sorta di ringraziamento, e ritornare in macchina. Quella che si prospettava come una serata arieggiata si è rivelata essere una notte afosa, non so tramite quale incomprensibile corso. Sospiro e rientro in auto, azionando l'aria condizionata e la radio, per evitare di rimanere sola con le mie riflessioni. Sospiro quando il canale su cui sono sintonizzata fa partire la riproduzione di una canzone che mi risulta più che familiare, e solo dopo qualche minuto il mio cervello metabolizza il tutto e mi fa rendere conto che è la canzone che Peter stava suonando quella sera in cui io avevo bevuto più del necessario, e della quale non ricordavo nulla fino al momento in cui mi sono ritrovata a raccontare tutto a zia Flo, e ogni ricordo è improvvisamente riaffiorato alla mia mente. Palpabile e vicinissimo, come se non fosse mai andato via.

Just like Philadelphia
Freedom means a lot to me.
In between the place I've been
And where I'm goin'.

E trovo ironico come si adatti perfettamente a questo istante. Proprio questo istante. In cui sto lasciando Filadelfia per andare alla ricerca di una libertà che credevo di aver acquisito, ma che in realtà ho perso sei anni fa. E sono al centro tra il posto in cui sono stata e quello in cui sto andando, perché sono a metà strada. Ma non provo rimorso, perché io sono veramente convinta di quello che sto facendo. Perché è quello di cui ho bisogno. Perché è quello che voglio.

But it's much too late for now
To be like yesterday.

And the time is running out
And we still have to say
Goodbye.

E, sì, forse è troppo tardi perché torni esattamente tutto come prima. Ma non è certo questo che pretendo da lui, da me stessa o dalla situazione. Il tempo passa, ma io intanto ho ancora tante, troppe cose da dirgli. E non troverò pace finché non l'avrò fatto. Dopo può capitare qualsiasi cosa. Mi basta sapere di poter vivere senza rimpianti, senza rimorsi e senza pentimenti. Ma non senza lui, preferibilmente.

×××

Ho lasciato zaino e valigia in macchina. Ho solo il cellulare con me - in una delle tasche della giacca leggera che indosso, siccome non mi sono ancora cambiata da ieri sera, e questo dannato vestitino non ha tasche - e le chiavi della mia auto nella mano sinistra, mentre con la destra suono il campanello, timorosamente e con l'ansia. Ho sentito la pressante urgenza di fare una tappa qui, prima di partire definitivamente, eppure non ho per niente pensato a come e cosa dire. Come al solito faccio le cose d'impulso e poi ne pago le conseguenze. Giustamente. Sbadiglio e mi stropiccio gli occhi stanchi e affaticati - rovinando senz'altro il trucco ormai già colato, che si sarà indubbiamente fuso con le mie occhiaie da panda. Poso le chiavi nell'altra tasca del giubbottino e attendo. Mi sento completamente privata di ogni energia. Forse non è stata un'idea geniale, quella di guidare per ben cinque ore, a notte fonda, con il peso di altre numerose ore in cui non ho chiuso occhio sulle spalle e con solo due caffè a ricaricarmi. Sono quasi le sette di mattina, e il sole sta appena facendo capolino all'orizzonte, irradiando con i suoi deboli raggi il cielo delle più svariate screziature, che passano dal rosa all'arancio, creando un miscuglio di luci, ombre e colori da mozzare il fiato. C'è profumo di gelsomini in fiore e di primavera. Fa meno caldo di qualche ora fa, per questo riesco a sopportare il giubbotto addosso.

"No, Bob, lascia stare: sai di essere del tutto negato in cucina! Non rischiare di mandarla a fuoco con uno dei tuoi soliti esperimenti a prima mattina! - esclama, mentre spalanca gradualmente la porta, con il viso rivolto in direzione della cucina - Oh, cavolo, Celeste! Ma che... Cosa... Tutto a posto, tesoro?" si informa poi, rivolgendosi a me.

Ha il corpo fasciato dalla sua storica vestaglia di seta rosa, ma è parzialmente nascosta dietro la porta d'ingresso - probabilmente per non farsi vedere in pigiama da tutto il vicinato. Ha gli occhi provati - dalla stanchezza e dagli anni -ma rilassati, e i capelli raccolti in una coda alta tutta sfatta, però è pur sempre bellissima. Mi fissa circospetta, con l'accenno di un sorriso incerto. Si starà chiedendo perché mi sia presentata da loro senza alcun preavviso e, soprattutto, a quest'ora. E non posso biasimarla. Poi non devo avere il migliore degli aspetti, perché mi squadra dall'alto in basso allarmata, con quei suoi profondi occhi scuri che mai come ora hanno l'aroma di casa.

"Posso... Posso entrare?" domando, titubante, dondolandomi prima su una gamba e poi sull'altra, con queste orrende e scomodissime ballerine che mi stanno uccidendo i piedi.

"Ma che domande sono! Certo, amore mio, accomodati - mi esorta a entrare aprendo un po' di più la porta e sorridendomi calorosamente - Bob! Indovina chi c'è" dopodiché si dedica a papà, girandosi e gridando verso la cucina.

Sorrido anch'io e mi tolgo il soprabito, che lei si preoccupa di sistemare accuratamente sull'attaccapanni. Successivamente mi poggia le mani sulle spalle e scende ad accarezzarmi le braccia, per poi attrarmi più vicina e stamparmi un lungo bacio sulla fronte. Io la abbraccio istintivamente e forse con un po' troppo trasporto, sottintendendo fin troppe cose. In un primo momento, infatti, si irrigidisce, colta alla sprovvista. Ma dopo ricambia la stretta e muove circolarmente il palmo della mano destra sulla mia schiena, mentre con l'altra mi stringe a sé. Sentendosi chiamato in causa, papà sopraggiunge dalla cucina, con la punta del naso macchiata di farina, i capelli ingrigiti scombussolati, imberbe, mentre si pulisce le mani imbiancate con uno strofinaccio. Io ridacchio per la scena che mi si prospetta davanti agli occhi, e lui sgrana i suoi, incredulo, e ci si avvicina a grandi falcate.

"E tu che ci fai qui, eh?" indaga, spettinandomi affettuosamente i capelli con una mano ancora impolverata e ponendomi attorno alle spalle quella che regge la pezza.

Sorrido di nuovo, ma poi, lentamente, assumo un'espressione seria e greve che li fa accigliare entrambi.

"Ci sono un paio di cose di cui vorrei parlarvi..." alludo, nervosa, giocherellando con la collana a forma di aeroplanino che ho al collo.

Papà allenta la presa e si discosta per guardarmi negli occhi. Mamma si stranisce maggiormente e non proferisce parola alcuna. Quando ho il coraggio e la forza di rialzare lo sguardo, noto quello di entrambi proiettato sul mio gesto inconscio e involontario. E so che hanno già capito tutto.

"Andiamo in cucina. Devi mangiare qualcosa e farti una bella dormita, dopo si vede. Tuo padre stava provando a emulare i miei pancake, ma ho paura di vedere che n'è venuto fuori. Ora ti preparo io qualcosa di buono da mettere sotto i denti, ché non abbiamo la certezza che la roba con la quale ha armeggiato tuo padre sia commestibile" lo prende in giro la mamma, fingendo di mormorare ma parlando comunque a un tono di voce abbastanza alto perché possa essere sentita dal diretto interessato, che si lamenta poi con un sonoro "Ehi!" fintamente risentito.

Acconsento alla sua proposta, sopraffatta dalla fame, dal sonno e dalle emozioni di quest'interminabile giornata. Mamma mi cinge i fianchi con un braccio e mi scorta in cucina, e papà ci affianca e mi lascia un tenero bacio, che mi fa sorridere, su una tempia. Nonostante la mia apparentemente improrogabile impazienza, ritengo che non morirà nessuno, se rimando il discorso di qualche ora - e nel frattempo penso a non svenire per la debolezza -, perciò mi prefiggo mentalmente di parlarne con loro non appena terminata la "bella dormita" che mi ha raccomandato la mamma. Spero solo di non ottenere da parte loro le reazioni che temo di ottenere.

×××

"È uno scherzo?" chiede papà retoricamente, una volta che ho finito di esporre loro il mio "progetto" - se così può essere definito.

Ci siamo letteralmente seduti tutti e tre a tavolino, attorno all'isola in cucina. È pomeriggio inoltrato. Non so esattamente quante ore io abbia effettivamente dormito, ma, avendo saltato addirittura il pranzo, ed essendo ora prossimi alla cena, deduco parecchie. Fortunatamente non ho avuto il sonno così leggero da fare sogni, quindi è stato un riposo abbastanza gradito e tranquillo.

"Robert..." prelude mamma, seduta di fronte a lui e accanto a me, allungandosi e posandogli dolcemente una mano su un braccio.

"No, Marylin, no. Celeste, fammi capire bene un attimo: tu vuoi partire per non si sa dove, per non si sa quanto tempo, per andare a cercare - dopo sei anni; specifichiamolo, perché non è un dettaglio irrilevante, questo - una persona che al centodieci percento si sarà rifatta una vita? Per fare cosa?" inquisisce, con tono calmo e pacato ma glaciale.

Sussulto e avvampo, presa in contropiede.

"Io... Non lo so ancora, ma..." principio, interdetta, balbettando per il nervosismo, ma lui non mi dà la possibilità di concludere il ragionamento senza il minimo senso che ho cominciato.

"Non lo sai ancora! Andiamo, Marylin, non puoi veramente ammettere una cosa del genere. Celeste, passi pure che non ci presenti questo fantomatico Evan - perché magari non ti senti ancora pronta a ufficializzare le cose -, ma non puoi davvero pensare di buttarti a capofitto in questa impresa illogica. Hai idea di quanto potrebbe venire a costarti un viaggio, in questo momento? Vogliamo parlare del fatto che c'è anche la possibilità che sia fidanzato - nella migliore delle ipotesi - o che si sia totalmente rifatto una vita e non voglia più sentir parlare di te?" mi fa notare, alzando lievemente la voce e incastonando gli occhi ai miei, che si fanno subito lucidi per la rabbia dopo questa sua invettiva.

"Robert! Ma ti pare il modo di parlare a tua figlia?" lo richiama la mamma, rimuovendo la mano dal suo avambraccio e poggiandola sulla mia spalla destra, applicando una tenue pressione.

"Sì, Marylin. Perché tu sai che sono sempre stato molto transigente e permissivo con lei, ma qua si sta sfiorando l'assurdo! Non posso appoggiarla in questa cosa. È una donna, ormai, non è più una ragazzina. E dovrebbe possedere la maturità per capire da sola che questa cosa non è neanche minimamente concepibile. E non fare quella faccia. Sono irremovibile da questo punto di vista, mi dispiace. Io rimango dell'idea che sia una bambinata" espone la sua tesi come se non ci fossi, fissando la mamma dritta negli occhi, mentre io sto tentando in tutti i modi di non sbottare a causa della rabbia che sto reprimendo.

"Ma non hai un briciolo di romanticismo! Se lei ha sentito il bisogno di fare questa pazzia, forse è perché non è propriamente felice, in questo momento. Forse è perché si è resa conto di non amare quel dannato Ivan o come si chiama, non puoi partire prevenuto! Ne va della felicità di tua figlia" lo accusa, rafforzando la presa sulla mia spalla e accarezzandomi conseguentemente il braccio, mentre stringe a pugno l'altra mano.

"Andiamo, Mary, è solo un capriccio, questo. Non puoi veramente credere a queste cretinate del vero amore o come cavolo vuoi chiamarlo. Sono passati sei anni, Dio santo. Perché nessuno sembra fregarsene, di questo piccolo dettaglio? Permetti che quel cristiano si sia costruito una vita? Non pensi che l'avrebbe cercata, altrimenti? Questa stupidata gliel'ha messa in testa tua sorella Flo. Ci scommetto la casa! - grida, alzandosi e puntandole un dito contro, gesticolando per dimostrare la veridicità della sua argomentazione - Sì, vabbè, ma io con voi che parlo a fare? Tanto va sempre a finire che sono in minoranza e che non mi ascoltate. Me ne vado di là che è meglio. In ogni caso, Celeste, per me è una cretinata. Pensaci bene prima di farlo, perché poi indietro non si torna più" si raccomanda, con tono più sereno, abbassando le braccia e andandosene in salotto.

Ingoio il groppo che mi si è formato in gola e affondo la testa tra le braccia conserte sul piano di marmo, emettendo un verso sconnesso e abbattuto. Lotto con le lacrime di stizza che sento fremere e mi mordo il labbro inferiore. Non potevo davvero aspettarmi che mi avrebbero appoggiato entrambi, ma non posso nemmeno negare che ci speravo. Soprattutto da parte di papà. Questa sua reazione esagerata è stata come ricevere un pugno nello stomaco. Percepisco una mano di mamma coccolarmi i capelli, mentre il rumore, prodotto dallo strusciare delle gambe del suo sgabello contro le mattonelle del pavimento, mi segnala che si sta spostando più vicina.

"È un uomo, Celeste. Ed è tuo padre. Era ovvio che si sarebbe opposto in quella maniera. Sei la sua bambina, non vuole che tu soffra e ci rimanga troppo male. E non ha tutti i torti. Però capisco. Capisco che tu provi questo senso di inappagamento, che ti ha spinta a tornare sui tuoi passi. E capisco che ritrovare Peter sarebbe come ritrovare la te stessa del passato, che hai perso con il tempo e con la vostra definitiva separazione. Però devi anche essere preparata e consapevole del fatto che lui, forse, non sia pronto a rivederti, tesoro. Siamo i tuoi genitori; vogliamo il meglio per te. È per questo che io non ti frenerò e non ti tratterrò dal fare quello che vuoi fare. Però non vorremmo doverci ritrovare ad asciugare le tue lacrime ancora una volta per causa sua. Per un genitore non è mai molto bello vedere un figlio soffrire. È come se soffrissimo noi in prima persona, vedendoti star male, e ci sentiamo anche incredibilmente impotenti. Lo capisci, questo?" bisbiglia teneramente, seguitando ad accarezzarmi dolcemente.

Risollevo la testa e prendo un respiro profondo. La fisso negli occhi e so che è sincera, e che quelle cose le pensa tutte realmente. Le sorrido debolmente, per poi prendere tra le mie la mano che non mi sta lambendo e stringerla.

"Lo capisco. E lo apprezzo. Perché so che ci siete stati e ci sarete sempre, per me. Ma stavolta sono determinata, mamma. Davvero. Ho commesso tanti sbagli, in passato, ma sento che il più grande che potrei mai fare è precludermi quest'opportunità. Ho delle questioni in sospeso, e devo e voglio risolverle. Quello che verrà dopo è a sua discrezione. Io almeno saprò di aver fatto tutto quello che era in mio potere e nelle mie possibilità" attesto, risoluta, incatenando gli occhi ai suoi.

E lei mi sorride, consapevole e condiscendente, intrecciando le nostre dita.

"Vattelo a riprendere, bambina mia" mi incita, seria, sorridendomi ancora e facendomi sorridere a mia volta, risollevata e appagata.

×××

"Celeste, ci sono visite" mi annuncia la mamma a gran voce dalle scale, mentre sono sul letto, intenta a studiare una serie di mappe e cartine, e a fare ricerche su Internet con il cellulare per capire da dove devo incominciare.

Sono qui da tre giorni, ormai, e comprendere da dove devo iniziare a cercarlo si sta rivelando più complicato del previsto. Per di più ora non ho la più pallida idea di chi possa essere venuto a trovarmi. Ma la risposta ai miei interrogativi inespressi arriva istantaneamente, quando una chioma bionda di capelli fin troppo folti fa capolino dalla porta, subito seguita a ruota da una di capelli corvini.

"Ma che ti viene, all'improvviso? Ti pare che puoi decidere di partire da sola? Ti avevo pure detto di non fare cazzate senza di me, oh" mi rimbecca Colin, lanciandosi a peso morto sul letto, a fianco a me.

Will ridacchia e si va a sedere sulla punta del materasso, dal lato opposto rispetto a quello in cui si è posizionato il mio migliore amico.

"Ma tu che ne sai? E, soprattutto, come sapevi che mi avresti trovata qui?" inquisisco, incapace di non scoppiare a ridere.

"Siamo passati a casa tua usando le chiavi di riserva che ci hai dato - ma io lo interrompo, protestando e sostenendo di non aver mai dato loro una copia delle mie chiavi; lui, però, mi zittisce con un gesto di sufficienza, dicendo che non me lo ricordo ma che è successo - e abbiamo trovato tutto sottosopra. Così ho capito che avevi fatto una cazzata senza di me. Allora ti ho rintracciato col GPS del tuo cellulare" mi illustra, come se fosse la cosa più naturale del mondo stalkerare la gente tramite il GPS del proprio telefono.

Alzo gli occhi al cielo, provando a nascondere un sorrisetto compiaciuto.

"E ora che ci fate qui, esattamente?" domando, del tutto conscia della risposta che mi darà.

"Ma allora sei scema? Veniamo con te, ovviamente" mi impone, non ammettendo repliche.

Will sorride sotto i baffi e scuote la testa, mentre fissa Colin adorante. Scuoto la testa anche io, rassegnata, e mostro a entrambi le cartine di cui mi sono munita e tutti i possibili punti di partenza che ho preso in considerazione.

"Scusa ma, più semplicemente, non possiamo fare come in quelle serie Tv tipo Senza Traccia o roba simile?" suggerisce Will, dopo mezz'ora di vari processi mentali che non hanno fatto altro che fonderci i cervelli.

"Ovvero?" lo incita Colin, incuriosito.

"Ovvero che lo cerchiamo prima nell'ultimo posto in cui lei l'ha visto" consiglia, risolutivo, con ovvietà.

"Ma non è scomparso! E non è dato per disperso. Non è la stessa cosa, imbecille" lo sgrida, alquanto irritato dall'interruzione, riprendendo a esaminare minuziosamente la mappa che ha in mano.

"Sai che, però, tutto sommato, non è una cattiva idea?" mi azzardo a fargli presente, dopo altri dieci minuti di religioso silenzio e libero esame delle piantine.

Alzano entrambi lo sguardo e mi fissano, in attesa, valutando la convenienza della proposta di Will.

"Potremmo cominciare dal college..." la butto lì con nonchalance, iniziando a giocherellare per l'ennesima volta con la catenina della collana, con un'alzata di spalle.

Dopo più di un lunghissimo minuto, in cui non fanno altro che osservarmi insistentemente, Colin sbuffa, esasperato.

"E dai, facciamoci queste altre cinque ore di viaggio. Ma che cazzo, te ne potevi uscire prima con 'sta cosa, Will! Ci saremmo risparmiati il tragitto fino a qui e l'avremmo aspettata direttamente a Princeton! Sei inutile, proprio" si lagna, gettando per aria la cartina che aveva in mano fino a poco fa e mettendosi in piedi, aggiustandosi i pantaloni in vita perché sono troppo larghi per i suoi fianchi stretti.

"Ma che ne sapevo, io! Uffa, te la prendi sempre con me" brontola Will, mentre io ripiego le varie mappe e le ripongo in ordine sulla scrivania della mia stanza, raccogliendo anche da terra quella scaraventata da Colin poco fa.

Poi ci ritroviamo tutti e tre uno di fronte all'altro. Al che Colin fa vagare lo sguardo da me a Will, prima di prendere un profondo respiro e...

"Alla Princeton!" proclama, con lo stesso tono in cui Batman direbbe: "Alla Batmobile!", facendo scoppiare sia me che Will a ridere a crepapelle.

"Wasted days, dreaming of the
Times I know I can't get back.
Seems I just lost track.
Looking on as all of life's
Colors seem to fade to grey;
I just walked away".

N/A

Spero che il capitolo vi sia piaciuto, anche se a me personalmente non convince tantissimo (come al solito HAHAHA). Ma ovviamente a me fa sempre piacere sapere cosa ne pensate

È dedicato a una persona speciale.

Un bacio e alla prossima,

Rita x

Continue Reading

You'll Also Like

992K 22.5K 96
(COMPLETA) #1 on Wattpad πŸ’Ž Shannon Ladey non si aspettava di incappare proprio in lui: Adrian. All'apparenza il classico stronzo pieno di sΓ¨, il tip...
22.2K 140 22
Ho idee strane e le voglio condividere.
18.2K 1.4K 33
|π·π‘œπ‘£π‘’ π‘†π‘–π‘šπ‘œπ‘›π‘’ 𝑒̀ 𝑖𝑙 π‘π‘Ÿπ‘–π‘›π‘π‘–π‘π‘’ 𝑑𝑖 πΊπ‘Žπ‘Ÿπ‘‘π‘’π‘›π‘–π‘Ž π‘β„Žπ‘’ 𝑠𝑖 π‘Ÿπ‘–π‘‘π‘Ÿπ‘œπ‘£π‘’π‘Ÿπ‘ŽΜ€ π‘Žπ‘‘ π‘Žπ‘£π‘’π‘Ÿπ‘’ π‘π‘œπ‘šπ‘’ π‘”π‘’π‘Žπ‘Ÿπ‘‘π‘–π‘Ž 𝑑𝑒𝑙...
11.5K 302 22
Ayla Yildiz, sorella della stella juventina, per via di uno stage lavorativo finisce a Barcellona con un suo amico, i due vanno a vedere una partita...