Celeste - Lasciati trovare [S...

By Ritaska99

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[SEGUITO DI "CELESTE - LA MIGLIOR COSA CHE NON HO MAI AVUTO". È CONSIGLIABILE LEGGERE QUELLA, PRIMA DI QUESTA... More

Prologo
0.1 Celeste
0.2 Peter
0.3 Celeste
0.4 Peter
0.6 Peter
0.7 Celeste
0.8 Peter
0.9 Celeste
1.0 Peter
1. Ruin
2. The Scientist
3. The One That Got Away
4. Always hate me
5. Drunk
6. When We Were Young
7. Friends
8. What Happened To Perfect
9. Places Where We Are

0.5 Celeste

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By Ritaska99

"You're the best, and, yes,
I do regret how I could let
Myself let you go. Now, now
The lesson's learned.
I touched it, I was burned.
Oh, I think you should know".

Philadelphia; 2015

Fino a ora il compleanno di Evan non ha mai rappresentato un problema, per me. Mi duole ammetterlo, ma Colin ha ragione: la routine è sempre stata quella. Il fatto che mi abbia preannunciato un imminente primo incontro con la sua famiglia, e la gioia con la quale me l'ha comunicato, non lasciano spazio a obiezioni. E risulterei più che anormale se mi rifiutassi. Già per lui dev'essere stato tremendo sopportare i miei "capricci" insensati per oltre due anni di relazione, durante i quali ho inventato scuse su scuse per fare in modo che né la mia famiglia conoscesse mai lui, né io conoscessi mai la sua in occasione delle festività. Ai miei genitori non ho mai riferito nulla di quello che è capitato con Peter, ma credo che l'abbiano dedotto nel momento in cui sono piombata da loro in lacrime a supplicarli di concedermi di partire con zia Flo. Ogni tanto mamma ha anche discretamente provato a informarsi, ma invano. E non capisco per quale ragione io abbia così tanta paura di presentare loro Evan, dato che so già per certo che lo adoreranno. E so anche che non lo confronterebbero mai con Peter. Quello l'ho fatto io, i primi tempi, quando abbiamo cominciato a frequentarci, e ho anche avuto non pochi problemi per questo. È una cosa che avevo preso a fare con ogni singolo ragazzo che mi si avvicinava e cercava un approccio... che poi, puntualmente, finiva sempre male. "Non ha il suo sorriso". "Non ha il suo modo particolare di parlare". "Non gesticola mentre parla". "Non ha i suoi occhi". "Non ha la sua risata". "Non ha il suo adorabile accento irlandese". "Non è lui". E così si concludeva la scannerizzazione che facevo a ognuno di loro, prima di liquidarli qualche attimo dopo. Con Evan è stato diverso perché non mi ha dato il tempo di compierla, quell'analisi attenta e accurata che riservavo a tutti. E sono alla ricerca matta e disperata di un'altra spiegazione, ma, probabilmente, zia Flo ci ha visto giusto. E questa cosa mi fa imbestialire, perché non vorrei che fosse così. Ma la verità è che io la radiografia a Evan l'ho fatta. Solo che lui ha passato il test proprio perché gli somigliava fin troppo. E mi sento una merda ad ammetterlo, ma è così. Non si può riparare un oggetto in frantumi ponendo i pezzi a casaccio: ogni frammento ha la sua collocazione, così da incastrarsi perfettamente con un altro. È inevitabile che il risultato sia un casino, se se ne mette uno più piccolo al posto di uno più grande. Non posso pretendere che Evan risani la ferita che mi ha apportato Peter. E non lo faccio, infatti. Speravo solo di poterci convivere. Invece non è così, perché è come se avesse impresso un marchio dentro di me, come se fosse scritto a caratteri cubitali sul mio cuore, il fatto che è sempre stato suo e sempre lo sarà. Sto così bene, ora, con Evan. Stavamo così bene, fino a qualche giorno fa. È il karma o sono i sensi di colpa che hanno riportato Peter nei miei ricordi, da dove in realtà non è mai andato via? Sospiro e liscio le pieghe del vestitino bianco che ho indossato per l'evento. Mi guardo riflessa nello specchio e non mi riconosco. Aggiusto lo chignon e non sono io, questa. Velo le ciglia con un leggero strato di mascara e mi sento un'altra persona. E non sono i capelli rosa a mancarmi, o i pantaloncini inguinali, o le T-shirt alternative. È la mia identità che manca, che mi manca. E non mi sento la donna che dico di essere, perché non lo sono. Sono la bambina viziosa e viziata che sbaglia, che cade, che si fa male, ma che la forza di rialzarsi non ce l'ha quasi più. Però continuo a voler fare i miei errori e le mie esperienze, perché è così che si vive. E ora io non lo sto facendo. Ora sto sviluppando un'innata capacità di adattamento a tutto quello che mi succede. Da quant'è che non tocco una matita? Da quant'è che non riempio di colore un foglio bianco? Da quant'è che Jean-Paul non mi procura un incarico? Da quant'è che sto permettendo a Evan di mantenermi economicamente? E perché seguito ad autocommiserarmi, se poi non agisco per cambiare la situazione? Il campanello suona e mi distanzio dallo specchio per andarmi a infilare le ballerine blu. Non mi piace la persona che sono diventata. Non so spiegarmi a che pro io abbia deciso di crearmi un vero e proprio alter ego, del tutto opposto a come sono realmente. Lo sto realizzando solo ora, che Evan non mi ha mai conosciuta veramente, o l'ho sempre saputo e adesso ho semplicemente le palle di ammetterlo a me stessa? Peter ha avuto a che fare con il peggio di me - ma proprio il peggio del peggio - ed è riuscito ad amarmi comunque. Era prima di tutto il mio migliore amico. Evan questo sforzo non l'ha proprio dovuto mai fare, perché la Celeste incoerente, indecisa, imprevedibile e stupida lui non l'ha mai conosciuta. Ho davvero avuto il coraggio di mentirgli e di mentirmi così a lungo? A quanto pare sì. Inspiro; indosso la giacca blu di pelle che ho gettato su una delle sedie del piccolo tavolino in cucina l'altra sera; arraffo una borsetta bianca e la riempio celermente di cose inutili, solo per dare a vedere che è piena; torno in camera a recuperare il cellulare dal letto e le chiavi di casa da sopra al comodino; mi do un'ultima sistemata ai capelli, che, tecnicamente, sono già fin troppo perfetti così e, dopo un secondo trillo del campanello, apro la porta. Evan mi rivolge un sorriso radioso. È bellissimo. Ha una camicia azzurrina con le maniche risvoltate fino ai gomiti, pantaloni blu elettrico e mocassini. I capelli biondi ramati sono impregnati di gel, che tiene su un impeccabile ciuffo a onda, e la barba ben curata sul suo viso lo rende incredibilmente affascinante. Il colore della sua mise risalta i suoi occhi chiari, che oggi sembrano quasi... grigi. Deglutisco il groppo che ha preso forma nella mia gola dopo tale constatazione e provo a ricambiare il suo sorriso.

"Tanti auguri, amore mio!" esclamo, sprizzando contentezza da tutti i pori, percependo uno strano senso di inquietudine assalirmi non appena pronuncio la frase.

Sorride, se possibile, ancora più ampiamente, e il suo sorriso è tutto ciò che vedo, prima di buttargli le braccia al collo e stringerlo a me, come a volergli, con questo gesto, chiedere scusa per quello a cui sto pensando. Reagisce istintivamente alla stretta e mi porta più vicina a sé, prima di allontanarsi quel poco che basta per permettergli di baciarmi. Lentamente e dolcemente. Poggio le mani sul suo petto e lui porta le sue sul mio volto. Chiudo gli occhi e mi consento di staccare la spina per quei pochi minuti che dura il bacio. Giusto il tempo di immaginare che ci sia Peter di fronte a me e riaprirli di scatto, sconvolta e stordita, per poi prendere Evan per mano, sbattere la porta del mio appartamento e trascinarlo per le scale perché non comprenda quanto sono scossa.

×××

Il silenzio del breve viaggio in macchina è stato fortunatamente colmato da Evan, che ci ha tenuto a elencarmi i nomi di tutte le persone che ci sarebbero potute essere (e io che credevo ci sarebbero stati solo i suoi genitori e sua sorella) e mi ha confidato degli aneddoti divertenti per smorzare la tensione. Ma la mia agitazione si è notevolmente accresciuta, più che altro, per cui, quando metto piede fuori dalla vettura e lui mi indica con un dito la sua "barchetta", per poco non mi cedono le gambe. Quella che lui definisce una "barchetta" è una barca a vela immensa, addobbata a festa e ormeggiata accanto a delle vere barchette. Mi sento mancare e lui mi sorride - dopo aver chiuso gli sportelli e aver impostato l'antifurto -, e mi raggiunge, affiancandomi e portandomi un braccio attorno alle spalle.

"Andrà tutto bene. Sii solo te stessa, e ti ameranno da subito come ho fatto io" si arrischia a rassicurarmi, depositandomi un tenero bacio su una tempia.

Già. Peccato che quella ragazza che lui ama non sia neanche lontanamente vicina alla vera "me stessa". Mi astengo dal fare commenti e ci incamminiamo verso l'imbarcazione, con lui che ha ancora un braccio attorno alle mie spalle e io che, al culmine dell'ansia, ho mal di stomaco e i conati di vomito. Nonostante sia solo il primo di giugno, fa caldissimo, e non tira neanche un soffio di vento. C'è un sole che potrebbe spaccare le pietre, un cielo azzurrissimo e limpido, e la giacca leggera che indosso mi sta facendo surriscaldare. Quando mettiamo piede sulla barca - non senza qualche difficoltà da parte mia, visto che sto per perdere l'equilibrio e precipitare in acqua non una volta sola - non si capisce più niente. Una donna biondissima gli si catapulta immediatamente addosso, scansandomi con poco garbo e rischiando di farmi quasi cascare per l'ennesima volta in pochi minuti. Lo stringe forte a sé e lo tempesta di rapidi baci sulle guance, mentre lui sorride, a metà tra l'imbarazzato e il contento. Io non so cosa fare, quindi mi osservo le punte lucide delle scarpe e aspetto che l'euforia - che mi auguro essere momentanea - si esaurisca. Quando quella che presuppongo essere sua madre lo lascia respirare, viene travolto da altre due ragazze, e nel frattempo prende forma una vera e propria fila dietro queste ultime per porgere gli auguri al festeggiato. Un uomo di mezza età, imberbe e con i capelli bruni ingrigiti, mi affianca e osserva la scena mantenendosi in disparte, ma sorridendo, con le braccia conserte al petto.

"Tu devi essere Celeste" deduce, con voce roca e possente, voltandosi verso di me.

Sollevo lo sguardo e so di dover replicare in qualche modo, ma non riesco a far altro se non annuire come un'inebetita e sorridergli educatamente.

"Ci ha parlato così tanto di te, che, a un certo punto, ci siamo spazientiti e gli abbiamo praticamente imposto di portarti qui. Ha provato a tenerti nascosta per oltre due anni, accidenti!" prosegue, fingendo di lamentarsi, ma ridacchiando verso fine frase.

Se solo sapesse che non è mai dipeso da Evan... Sorrido ancora e guardo dinanzi a me, constatando che, finalmente, sembra che la fila interminabile si sia dissolta. Evan pare intenzionato ad avvicinarsi - perché mi sorride e fa un passo nella mia direzione -, ma quella che desumo sia la madre lo prende a braccetto e lo conduce al piano di sotto, verso quegli invitati che ancora non hanno avuto il privilegio di salutarlo. Lui fa una smorfia e mi chiede scusa con il labiale, e io gli sorrido e, con un cenno, gli faccio capire che va bene così.

"Vado a fare gli auguri a mio figlio prima che lo consumino e riempiano di rossetto a furia di baci e bacetti. Tu resti qui, cara?" mi domanda quello che non può essere altri che suo padre, sorridendomi ancora.

Ha lo stesso taglio d'occhi dello stesso colore di quelli di Evan. Soltanto ora mi accorgo della somiglianza a dir poco incredibile.

"Sì, non si preoccupi. Ora cerco un posticino dove sedermi" lo rassicuro, sorridente, e lui assente e si allontana, scusandosi.

No, non me l'ero immaginata di certo così, questa giornata, ma pazienza. Passerà. Prendo un respiro profondo e mi avvicino alla ringhiera che dà sul mare. La barca è ancora attraccata in porto e, sinceramente, non ho la più pallida idea di se veleggeremo a largo o meno. Poggio i gomiti sul corrimano in metallo e fisso il lento e quasi impercettibile movimento del mare. L'imbarcazione è così grande, che quasi non lo si percepisce, l'oscillare dovuto alle piccole ondine. Il gradevole profumo di salsedine mi arriva comunque dritto ai polmoni. Ma com'è che è successo? Cosa è successo? Cosa mi è successo? Io, quella abituata a farsi notare in ogni occasione. Io, che sono sempre stata al centro dell'attenzione. Io, che avevo sempre la battuta pronta e riuscivo a discorrere anche con il più timido e riservato degli interlocutori. Io, che non mi facevo problemi a dar voce ai miei pensieri ogni qualvolta ne sentivo la necessità. E ora mi rintano in un angolino e prego di non essere vista da nessuno. Ora quasi fatico a scambiare un paio di parole con il padre del mio ragazzo. Ora rifletto bene, prima di parlare, perché so che forse non è opportuno riferire proprio tutto quello che penso. E sentirmi dire: "L'aveva detto che sei una ragazza taciturna" da una tizia - che ipotizzo essere sua sorella - dai capelli e gli occhi chiari, che mi viene vicino dopo qualche minuto che ho trascorso in solitudine, è l'effettiva prova del nove del fatto che Evan non mi conosce per niente. Provo l'impellente bisogno di piangere, ma non lo faccio da anni, e di certo questo non è il momento adatto. Sorrido ancora, e penso a quanti sorrisi falsi sono stata in grado di dispensare da quando sono qui. Io, che ho sempre odiato le persone false o che falsificano i sentimenti e le emozioni. Che non ho mai sopportato quelli che, prima di farti una foto - soprattutto quando si è bambini -, ti comandano di sorridere. E se, nell'attimo in cui viene scattata quella fotografia, io stessi passando un periodo di merda, perché mai dovrei sorridere? Andando a rivedere quella foto dopo anni, poi, non ricorderei quell'epoca con un sorriso felice in volto, ma con uno amaro, perché rammenterei le brutte cose che stavo vivendo e il finto sorriso che mi avevano ordinato di mostrare. Anche la mamma mi diceva sempre, quando ero piccola, che il sorriso è l'arma vincente. Ma con me non ha mai funzionato. Non sono mai riuscita a fingere o a recitare, per questo al liceo esclusi a priori il corso di teatro. Me lo si legge in faccia quando sto male. Eppure adesso ho sviluppato questa innaturale capacità di mentire, che davvero non mi riconosco più. Mi sono sempre vantata di aver trovato me stessa, dopo la Francia, dopo Evan, dopo Peter... Invece mi sono persa. Immancabilmente e irreversibilmente. E come si fa, a ritrovarsi? Da sola non ce la faccio. Avrei bisogno di qualcuno che mi tenda una mano e mi tiri su una volta e per tutte, ma nessuno è disposto, e io non ce la faccio più a sollecitare le persone perché mi prestino soccorso. Dovrebbe essere una cosa volontaria, non forzata. Trascorro un po' di tempo a chiacchierare con Sierra, la sorella di Evan, anche se è lei, più che altro, a reggere in piedi la conversazione. E a me? Chi mi regge? Mi racconta di com'era Evan da bambino. Vorrei che mi raccontasse pure com'ero io, un tempo, e che mi aiutasse a capire dov'è che ho incasinato tutto, dov'è che sul filo si è formato un nodo enorme che mi ha impedito di procedere. Io le racconto di come ci siamo conosciuti, invece. Sebbene ora io abbia seri dubbi su quale Celeste lui abbia effettivamente incontrato, quel giorno. Le narro - non senza provare una fitta al cuore - di come mi fossi dovuta recare in Francia per il mio primo vero incarico lavorativo. Le spiego in cosa consiste - per sommi capi - il mio "lavoro", e che l'attuale marito di mia zia è anche quello che potrebbe essere definito come il mio "capo". Le riferisco che un giorno presi la decisione di vedere il Lago di Ginevra e di passare un weekend fuoriporta, così andai lì con mia zia e il suo all'epoca solo fidanzato. Che fu lì che vidi Evan per la prima volta, e che mi diede a parlare chiedendomi se fossi a conoscenza della leggenda di Nessie. Io gli feci presente che il mostro di Loch Ness fosse una leggenda scozzese, che non aveva niente a che fare con il Lago di Ginevra, e lui, per tutta risposta, disse che lo sapeva benissimo, e che me l'aveva chiesto solo per verificare se lo sapessi anch'io. Da lì cominciammo a dialogare, e lui mi invitò a uscire per quella sera, ma io rifiutai dicendogli una bugia, sostenendo che sarei dovuta tornare a Parigi quella sera stessa. Ma le bugie hanno le gambe corte. Ebbi la fortuna di rivederlo proprio quella sera nel ristorante che un amico di Jean-Paul ci aveva raccomandato di provare e... Quando i nostri sguardi si incrociarono, io sgranai gli occhi e lui sorrise, sbarazzino, e da lì è nato tutto. Ero in Francia da quattro anni, quando ho conosciuto Evan, e, dopo qualche mese di appuntamenti, mi chiese di tornare in America con lui, e io accettai, a malincuore, perché comunque non avevo un incarico da un bel po' - ma questo a lei non lo confido. Lui è di Filadelfia, così mi sono trasferita in un monolocale lì - e Colin ha protestato fino all'ultimo per questo, perché saremmo stati lontani cinque ore di macchina come quando ero al college, e la cosa non gli piaceva per niente, siccome già Dio solo sa come l'abbiamo spuntata mantenendoci in contatto per quei quattro anni. Poi si è adattato, e la gioia che ho provato è stata immensa, quando ho appreso che Will è originario di Filadelfia, e che quindi i suoi genitori abitano lì. Perciò Colin passa in città più tempo di quanto avrebbe mai fatto solo per me, e la cosa mi rincuora, perché è l'unico amico che ho, e non so come avrei reagito se avessi dovuto rinunciare a lui per la lontananza. Per non annoiare Sierra interrompo la storia nel punto in cui Evan mi esorta a tornare in America, e le lascio intendere il resto. La giornata trascorre in maniera straziantemente lenta, e le uniche volte in cui la madre di Evan mi rivolge la parola è per mettermi in difficoltà, domandandomi che college ho frequentato, in cosa mi sono laureata e cosa faccio per vivere. Le espressioni che assume a ogni mia ammissione sono indescrivibili. Sierra è molto simpatica, invece, e la sua compagnia è piacevole. Quando non sono impegnata a chiacchierare con lei, sono sottoposta all'interrogatorio di sua madre. E quando sua madre smette di darmi il tormento, resto un po' da sola, in disparte, con i miei pensieri. Essendo il festeggiato, ho davvero pochissime opportunità per scambiare anche solamente due parole con Evan, ma va bene così: è il suo giorno. La vecchia Celeste non avrebbe mai transatto di essere lasciata così in ombra, e avrebbe trovato subito un modo per impedire che ciò accadesse. Ma quella Celeste è morta e sepolta, ormai. E a quella attuale non importa neppure più di tanto. Vorrei solo tornare a casa, mettermi sotto le coperte e rimanere lì finché è possibile. Senza vedere nessuno o parlare con nessuno. Mentre tutti sono intenti a giocare a Pictionary, e io sono seduta su una poltroncina un po' più distante, il padre di Evan viene a sedermisi a fianco. Il profumo della sua acqua di colonia è molto prorompente.

"Mi dispiace che non stiate passando molto tempo insieme. Ma mia moglie organizza sempre le cose in grande, quando c'è di mezzo Evan" si giustifica, bevendo un sorso dal bicchiere di aranciata che ha in mano.

"Oh, non si preoccupi, davvero. Va bene così. È pur sempre il suo compleanno" lo rassereno, sorridendogli e grattando la pelle su cui è inciso il tatuaggio, che sbuca fuori, giacché le maniche della giacchetta sono a tre quarti.

Ho ripetuto così tante volte questa frase che quasi inizio a crederci. Lui abbassa gli occhi dal mio viso al mio polso destro, per poi riconnetterli ai miei qualche attimo dopo. Sembra pensieroso, e non so perché ho una brutta sensazione. Si schiarisce la gola, prima di ribattere.

"Quando ero ragazzo ho perso l'amore della mia vita" asserisce, con tono grave, facendomi inspiegabilmente accelerare il battito cardiaco dopo quest'affermazione.

Fa una pausa, e non so se voglia che dica qualcosa o se devo solo ascoltare. Nel dubbio, schiudo le labbra per esprimere almeno il mio dispiacere - non sapendo che altro dire -, ma, per fortuna, riprende la parola.

"Me la sono fatta scappare proprio sotto il naso. E non ho fatto niente per impedire che avvenisse. Non sto dicendo che non amo mia moglie, perché con il tempo ho in ogni caso imparato ad amarla. Sto dicendo, però, che non c'è notte in cui, sdraiato a letto, non mi chieda che fine abbia fatto, se stia bene, se sia felice. Perché il vero e grande amore non lo si può scordare. Mi sono pentito così tanto di averle permesso di andar via senza nemmeno oppormi. Ma ora è troppo tardi, ormai. E poi mi piace poter immaginare che vita stia conducendo, come sia l'uomo che alla fine ha sposato..." fantastica, fissando un punto indefinito di fronte a sé con un sorriso malinconico in viso.

Non comprendo dove voglia andare a parare con questo discorso, e quasi ho paura di scoprirlo. Con il cuore in gola e le mani che mi sudano, non ho l'audacia di fiatare.

"Ora voglio farti una domanda - prelude, facendo poi un'ulteriore pausa e mandandomi in uno stato di irrequietezza non indifferente - Pensi che Evan sia il tuo vero e grande amore?" indaga, ed è come se un milione di specchi si frantumassero contemporaneamente in questo preciso istante.

Inghiottisco a fatica un fiotto di saliva e ho la bocca secca. Smetto addirittura di respirare per qualche secondo. L'espressione con la quale lo guardo dev'essere tanto allarmata, preoccupata e scioccata, da fargli automaticamente intuire la risposta alla sua domanda, quella che io non ho il coraggio di dargli. Perché lo so io e l'ha capito lui, che Evan, per quanto sia un ragazzo d'oro e per quanto io possa tenere a lui e lui a me, non è il mio vero e grande amore.

"Mi sembri una ragazza in gamba, Celeste, e sono super sicuro che saresti perfetta per mio figlio. Ma se non è Evan la persona che ritieni essere il tuo vero amore, per il suo e per il tuo bene, preferirei che lo chiarissi adesso" mi illustra, risolutivo, guardandomi così profondamente negli occhi che sono costretta ad abbassare lo sguardo, data l'intensità del suo.

Affondo il viso tra i palmi delle mani ed emetto un lamento soffocato. È una situazione assurda. Il padre del mio ragazzo mi sta - volente o nolente - consigliando di lasciarlo. Però posso capire il suo cruccio, perché ogni genitore vorrebbe il meglio per i propri figli. E lui più di tutti, visto che ha un'esperienza passata alle spalle che non lo rende fiero di se stesso.

"È troppo tardi ormai" mormoro, e per poco non mi stupisco di essere stata io a pronunciare finalmente quella che sembra essere una frase di senso compiuto.

"Oh, ma per piacere! Quella frase posso dirla io, che sono un vecchio codardo che ha solo paura di rintracciare quella donna e contattarla ancora - anche solo per prendere un caffè -, e che oramai ha una certa età e una famiglia a cui badare. Ma tu sei nel fiore dei tuoi anni, ragazza mia. Se non è il momento giusto adesso, quando lo sarà? - mi chiede retoricamente, sospirando e facendo una piccola risatina - Senti, Celeste, io voglio il meglio per mio figlio. Devo essere certo che, semmai un giorno lui dovesse chiederti di sposarlo, tu accetterai perché lo ami sul serio e perché sei realmente convinta della tua scelta. Sei d'accordo con me su questo punto?" si informa, posandomi la mano che non regge il bicchiere di vetro su una spalla, richiamando la mia attenzione e i miei occhi su di sé.

Accondiscendo con un cenno del capo, e la sua espressione seria si tramuta in rasserenata. Esclama un "Bene!" tutto contento, dopodiché si alza in piedi, ma, prima di andarsene, si gira di nuovo verso di me, con un sorriso radioso in volto.

"Va' a riprenderti il tuo vero amore, Celeste, prima che sia davvero troppo tardi. Evan capirà" mi conforta, poi si volta e si allontana, lasciandomi scombussolata e interdetta.

×××

Quando Evan mi riaccompagna a casa siamo entrambi stremati, ma io, per di più, sono anche così tanto confusa... Dovrei dargli il suo regalo, ma non so se sarebbe una buona idea. Soprattutto con me che sono di quest'umore nero.

"Va tutto bene? Sei stata silenziosa per tutto il viaggio di ritorno..." mi fa notare, quando accosta nei pressi del mio palazzo.

"Evan..." principio, ma non riesco a completare la frase, perché non so come completarla, a dire il vero.

Non so cosa voglio dirgli, cosa posso dirgli e cosa mi conviene dirgli. Sospiro, chiudo gli occhi e sbatto la nuca contro il poggiatesta del seggiolino, frustrata. Lui mi racchiude una mano in una sua e me la stringe. Riapro gli occhi e lo guardo.

"Ehi, cosa c'è? Se è per il regalo, non c'è problema. Il regalo più bello è stato averti con me oggi" mi tranquillizza, accarezzandomi circolarmente il dorso della mano con il pollice e sorridendomi in modo rassicurante.

Combatto con la voglia che ho di piangere e mi mordo la lingua. Le cose sono due: o parlo con calma e finisco col piangere per la mortificazione, o urlo e lo attacco e finisco col piangere per l'irritazione. Nel momento in cui mi si propongono in mente le due opzioni, so già chiaramente quale delle due scegliere.

"Evan, smettila, cavolo! Fai sembrare sempre che vada tutto bene, quando è evidente che non è così! Lo so io e lo sai tu che in questo periodo non ci sto con la testa, ma il fatto che tu continui a far finta di niente mi fa imbestialire! E invece di capire dove sia il problema e starmi vicino, hai preferito ignorarmi per tutto il giorno. Che cavolo mi rappresenta la frase: 'Il regalo più bello è stato averti con me oggi', se a stento ti sei ricordato della mia esistenza al taglio della torta? Io non ce la faccio più a vivere così. Non sono nelle condizioni di sopportarlo" sbraito, buttando finalmente fuori tutto quello che ho a stento tenuto dentro fino a ora, e sento il petto decisamente più leggero, quando lo faccio.

Lui mi guarda scandalizzato. Io ho rimosso la mano dalla sua durante lo scatto d'ira, per gesticolare e fargli capire quanto fossi seria. Si slaccia la cintura ed esce dall'auto. Questo è il colmo. E, proprio quando sto per elaborare mentalmente tutti gli insulti possibili e immaginabili, apre anche la mia portiera e mi porge una mano, incitandomi a uscire. Mi metto la borsa in spalla ed esco, scansando la sua mano, e chiudo violentemente lo sportello.

"Celeste, dai, calmati. Non è successo niente. Ora ne parliamo a cuore aperto e risolviamo tutto" stabilisce, ragionevole come suo solito.

"No che non mi calmo, Evan! Perché non vuoi capire? Devo farti un disegnino? Sto cercando di dirti che... - grido, al limite della stizza, ma mi fermo per pensarci due volte, per dire quello che devo e voglio dire con più tatto possibile - Evan. Lo sai che a te ci tengo per davvero, e questo non è proprio da mettere in dubbio. È che, ora come ora, ho bisogno di un po' di tempo per me stessa" statuisco, calma, pacata e serena.

Lo vedo abbassare le spalle e fissarmi con un'espressione persa, come se non potesse credere a quello che sto dicendo.

"Mi stai dicendo che vuoi una pausa, in poche parole?" deduce, ferito e abbattuto.

"Devo allontanarmi di qui per un po'. È l'unico modo per schiarirmi le idee e capire cosa voglio farne della mia vita" attesto, convinta, ferma e decisa.

"Ma sei sicura? Possiamo provare a trovare una soluzione insieme, possiamo... - comincia, ma si blocca quando intende, dalla mia espressione, che sono irremovibile - E dove andrai?" termina domandandomi, e il cuore mi precipita nello stomaco al pensiero della risposta che avrò la sfacciataggine di fornirgli.

"C'è una persona che non vedo da un po'..." mi limito soltanto a confessare, incapace di ferirlo a tal punto da spiegarglielo apertamente.

Un soffio di arietta fresca mi fa rabbrividire e stringere nella giacca leggera, mentre mi viene la pelle d'oca sulle gambe scoperte. La serata è serena, e il cielo è di uno scuro blu notte costellato di lucine bianche. Tuttavia tira questo venticello - che era del tutto assente stamattina - che è alquanto fresco.

"Questa persona è un lui?" si informa, e non ho più la temerarietà di guardarlo negli occhi.

In un'azione inconscia e casuale giocherello con la collanina con il ciondolo a forma di aeroplanino di carta che porto al collo, e lui sembra tirare le somme.

"Non è un lui. È quel lui - riscontra sconsolatamente, e io la forza di chiedergli come faccia a sapere di lui o di obiettare non ce l'ho, perché sono stanca di remarmi contro ancora e negare l'evidenza - Celeste... Io non posso forzarti a rimanere. Sai quanto ci tengo a te, quanto ti amo, e questa non è una cosa che va via dopo qualche giorno. Non è di una macchia di sporco che parlo, ma del mio amore per te. Se senti la necessità di intraprendere questo viaggio, per me va bene. Sappi solo che mi troverai sempre qui ad aspettarti" mi promette, rivolgendomi un piccolo sorriso.

Di riflesso, sorrido anch'io, e la Celeste incoerente che era rimasta sopita fino a questo momento riemerge e gli si lancia addosso, abbracciandolo così forte da spaccargli le ossa. Lui avvolge le braccia attorno al mio busto e immerge la testa nell'incavo tra il mio collo e la mia spalla destra, respirandomi.

"Tornerò - gli garantisco, inalando il suo profumo e riscaldandomi con il calore che il suo corpo emana - Promesso" gli giuro, mentre una vocina interiore mi rammenta che è peccato fare promesse che non si possono mantenere.

"Oh won't you walk through
And bust in the door, and
Take me away?
Oh, no more mistakes.
'Cause in your eyes I'd like to stay...".

N/A

I capitoli-poema interminabili sono tornati, gente! Vi mancavano? A me tantissimo!

Come vi sembra la piega che sta prendendo la storia fino ad ora? Ho le idee abbastanza chiare sul cosa fare, ma mi farebbe comunque sempre molto piacere sapere voi cosa ne pensate, ormai mi conoscete.

Vorrei proporre, poi, un piccolo sondaggio: giusto per togliermi una curiosità personale...

Mi piacerebbe sapere l'età media delle mie lettrici! Quanti anni ho io penso lo sappiate già, purtroppo, quindi non posso nemmeno divertirmi a farvi indovinare. Com'è ingiusta la vita, a volte :( AHAHA

E dopo questi deliri... Niente, al prossimo capitolo, stelle,

Rita x

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