Il tuo nome sul mio polso - N...

By xbondola

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PUÒ ESSERE LETTA DA CHI NON CONOSCE L'OPERA ORIGINALE. Le chiamano anime gemelle: due persone legate da un so... More

Il tuo nome sul mio polso
II
III
IV
V
VI
VII
VIII
IX
X
XI
XII
XIII
Epilogo
Ringraziamenti

I

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By xbondola

Thomas percorse con lo sguardo la sottile linea curva che sul suo polso si arricciava e si piegava a formare un nome: Isaac.
Chiuse gli occhi, tentando di immaginare il volto della sua anima gemella, il colore dei suoi capelli, quello delle sue iridi, la forma della sua bocca. Ogni volta che ci provava, nella sua mente prendeva vita un'immagine diversa.
Era frustrante, Thomas ci pensava spesso: possedere un nome, nient'altro che una traccia, e nessun altro indizio.
Era frustrante, sì, e fastidioso. Per quel che ne sapeva, avrebbe potuto incontrare la sua anima gemella quella mattina, se avesse deciso di andare a fare shopping, o il pomeriggio seguente, o quello successivo, in un cerchio infinito di idee e supposizioni che non servivano ad altro che a fargli perdere la pazienza.
Sbuffò e allontanò il braccio sinistro dal viso, volgendo la propria attenzione al quaderno di storia che giaceva aperto sulle sue gambe. Le pagine cariche di appunti lo guardavano con astio e lui ricambiava i loro sguardi malevoli con altrettanta intensità.
« Fanculo », cedette infine, chiudendole. Posò il libro sulla scrivania e si alzò in piedi per poi gettarsi sul letto, dove aveva lanciato il cellulare. Lo sbloccò e controllò le notifiche con un'occhiata.
Suo padre gli aveva lasciato un messaggio vocale: « Ehi, Tom », diceva. « Io e tua madre abbiamo parlato, oggi. Abbiamo deciso di organizzare una serata in famiglia, ehm... stasera? Tornerò prima da lavoro ».
Thomas gemette e lanciò il cellulare tra i cuscini, le sopracciglia aggrottate. L'idea di dover trascorrere il sabato sera con i suoi genitori (be', l'idea di dover trascorrere una qualunque serata con i suoi genitori) lo rendeva tutt'altro che entusiasta. Avrebbe preferito continuare a vederli singolarmente: quando erano insieme finivano per litigare, non importava quanto si impegnassero affinché ciò non accadesse.
« No, no, no, no », mugolò senza sosta, affondando il viso tra le coperte. Contemplò l'idea di trovare qualcos'altro da fare, un impegno improvviso e impossibile da rinviare, un compleanno, magari, ma si era trasferito lì da poco e la sua unica amica, Teresa, era partita da alcuni giorni. Thomas non sapeva perché, né quando sarebbe tornata, ma la sua assenza era un peso difficile da sopportare.
Strisciò lungo il materasso, lasciando che le coperte si stropicciassero sotto il peso del suo corpo. Afferrò il cellulare e compose il numero della sua migliore amica. La voce di Teresa risuonò dopo pochi squilli: « Ehi, Tom! »
« Come stai, Tes? »
« Qui è una noia mortale e detesto mia cugina. Sul serio, è insopportabile. Se non me la levano di torno finirò per ammazzarla ». Sospirò. « Tu? »
« Vorrei che il letto mi inghiottisse e non mi lasciasse andare. Mai più ».
« I tuoi genitori? »
Thomas inspirò e lasciò andare l'aria in uno sbuffo. « Hanno organizzato una sorta di cena in famiglia per stasera. Io non voglio più farmi vedere con loro in pubblico ».
Teresa non riuscì a trattenersi dal ridere. « Scusa », disse quando l'amico emise un grugnito di disapprovazione. Sorrideva, Thomas sarebbe stato pronto a scommetterci. « Inventa una scusa per non andare », gli suggerì.
« Non ho piani alternativi. Non conosco ancora nessuno, qui ».
« A quanto pare è inevitabile ». Teresa tacque per un istante, poi riprese: « Va' con loro a cena. Forse sono sinceri, forse questa volta non ti metteranno in imbarazzo ». Thomas fece per protestare, ma lei lo zittì con un sibilo. « Se dovesse capitare, esci fuori e chiamami, così ti aiuto a distrarti, che ne dici? »
Thomas sospirò. « Dico che preferirei vederti di persona, Tes. Quando torni? »
« Anch'io lo preferirei, Tom ». Fece una breve pausa. « Non so quando, comunque. Mia madre dice che le ci vorrà almeno una settimana per fare ciò che deve fare, qualunque cosa sia ».
« Che periodo di merda ».
« Come va con la scuola? »
Thomas strinse le labbra. « Non riesco a studiare niente. Ci provo, ma... ».
« Tom, devi impegnarti ».
« Sì, mamma » la prese in giro lui con una risata forzata che lei non imitò. Thomas si morse l'interno della guancia. « Io ci proverò, d'accordo? » Disse con tono più serio. « Ora stacco ».
« Va bene, Tom, ti credo. Ci sentiamo... non stasera, spero ».
« Dubito. Ciao, Tes ».
« Ti voglio bene, eh ».
« Anch'io te ne voglio ». Thomas sorrise contro l'apparecchio telefonico.

Suo padre tornò prima a casa, come gli aveva detto. Lo salutò con un cenno della mano e gli intimò di prepararsi. « Non voglio dare a tua madre alcun motivo per lamentarsi, stasera. Intesi, Tom? »
Thomas restò a fissarlo mentre metteva a posto il cappotto e si sfilava la sciarpa e i guanti.
« Perché avete deciso di organizzare questa farsa? », gli chiese poi.
« Definisci farsa ». Suo padre non lo degnò di uno sguardo. Superò la porta della cucina e Thomas lo seguì. « Questa cena in famiglia. Come se fossimo ancora una famiglia, poi ».
George alzò gli occhi al cielo, trafficando con le cialde da inserire nella macchinetta del caffè. « Noi siamo una famiglia, Thomas. La nostra separazione non ci rende due universi distinti, lo sai questo, vero? »
« Finirete per litigare anche 'sta volta », sbottò il ragazzo, i pugni serrati lungo i fianchi e gli occhi brucianti di rabbia. « Lo so io e lo sai anche tu! »
Suo padre premette alcuni pulsanti e il suono dell'apparecchio che entrava in funzione si diffuse nella stanza. George sospirò. « Non litigheremo, te lo prometto ».
« È quello che dici sempre. Io non ti credo più ».
George scosse la testa e distolse lo sguardo da quello del figlio, spostandolo sul pavimento lucido. « Va' a cambiarti, ora, ché si fa tardi ».
Thomas strinse la mascella e si conficcò le unghie nei palmi delle mani per impedirsi di urlare. Si voltò e uscì dalla cucina. Se ci fosse stata una porta, l'avrebbe sbattuta alle sue spalle con tutta la forza che aveva, ma dovette accontentarsi di battere i piedi sulle scale a ogni gradino.

« Ciao, tesoro! » Abigail, la madre di Thomas, strinse suo figlio in un abbraccio soffocante e gli scoccò un sonoro bacio sulla guancia, macchiandolo di rossetto rosso. Thomas sorrise e si ripulì il viso con una mano, distaccandosi da lei e arrossendo appena. « Ciao, mamma ».
« Come stai? » La donna gli passò una mano tra i capelli e gli sistemò il colletto della camicia, l'unica parte visibile dell'indumento, per il resto nascosto al di sotto di un caldo maglione blu.
« Sto bene », mentì Thomas, distogliendo lo sguardo dagli occhi chiari di sua madre. « Tu? » Le aprì la portiera dell'auto. Lei lo ringraziò con un sorriso e si strinse nelle spalle. « Tutto bene », rispose e si infilò sul sedile del passeggero, mentre Thomas si accomodava sui sedili posteriori. Abigail salutò George con un cenno del capo e un sorriso freddo, prima di tornare a rivolgere la sua completa attenzione a Thomas. « Come va con la scuola? », gli chiese. George si morse un labbro e mise in moto l'auto.
Thomas fece spallucce. « Va », disse, gli occhi che vagavano sul parabrezza, decisi a non incontrare alcuno sguardo.
Il sorriso sul volto di sua madre si spense. « George, cosa significa? »
« Ha qualche insufficienza », fu costretto ad ammettere lui, seppur riluttante. « È una scuola nuova, non conosce nessuno. Deve ancora ambientarsi, Abigail, è normale ».
« Certo, è normale ». La donna roteò gli occhi e arricciò le labbra. « Sarà normale anche quando avrà perso un anno scolastico, eh, George? »
« Sarebbe colpa mia, ora? »
« Il tuo utilizzo del condizionale è decisamente fuori luogo ».
« Dobbiamo proprio parlarne adesso? », protestò Thomas, togliendo a suo padre la possibilità di ribattere. « Se dovete litigare, fatelo tra di voi. Ho già assistito a queste scene troppe volte ».
« Tom ha ragione », disse George, il volto e il collo arrossati. Abigail inarcò le sopracciglia, ma non disse nulla.
Thomas rifletté su cosa fosse peggio: la serata che gli si prospettava davanti o il dolore che avrebbe provato lanciandosi dall'auto in movimento.

Ripensandoci, forse sarebbe stato meglio se si fosse lanciato dall'auto in corsa quando ne aveva avuto l'occasione.
Suo padre aveva portato Thomas e sua madre in un piccolo ristorante che si affacciava su una strada illuminata a malapena dagli sporadici lampioni funzionanti e da qualche luce occasionale all'interno degli appartamenti presenti nei dintorni. Nell'oscurità degli edifici che lo circondavano, il ristorante era un faro, la cui insegna fendeva la notte con la sua luminosità. A poche decine di metri di distanza, il buio era disturbato dalle luci al neon di un bar.
A Thomas non piaceva quel posto e forse era meglio così, perché era sicuro che non ci avrebbe più rimesso piede in ogni caso. I suoi genitori avevano tenuto su la maschera dell'allegra famigliola felice per poco più di un'ora, poi questa si era disintegrata sui loro volti ed era volata via come cenere nel vento.
« Non posso credere che tu stia tirando fuori questa storia ancora una volta! », sbottò Abigail, battendo un pugno sulla superficie del tavolo.
George rise senza allegria. « Io non potevo credere che tu ti scopassi il mio collega di lavoro, eppure eccoci qua ».
Thomas ne ebbe abbastanza. Scattò in piedi, rosso dalla vergogna, e fece per allontanarsi, ma sua madre lo trattenne per una manica.
« Dove stai andando? », gli chiese e Thomas si divincolò dalla sua stretta. « In bagno », mentì e si diresse verso l'uscita del ristorante, non visibile dal luogo in cui era situato il loro tavolo.
Fuori faceva piuttosto freddo e Thomas si rimproverò per non aver portato con sé il cappotto.
Oh, merda.
Nel cappotto c'era il cellulare.
Niente cappotto, niente cellulare.
Niente cellulare, niente Teresa.
Thomas gettò un'occhiata all'interno e pensò di recuperarlo, ma la sola idea di rivedere le facce accese di collera dei suoi genitori lo fece desistere. Si strinse le braccia al petto e cominciò a camminare verso l'unica fonte luminosa nelle vicinanze. Si trattava del bar che aveva notato poco prima, la cui insegna al neon recitava: The Maze.
Thomas osservò l'ingresso tappezzato di manifesti, volantini e poster, ricoperti a loro volta di graffiti volgari e dediche estranee alla grammatica. Dall'interno del locale si diffondeva una luce bluastra, che contribuiva a creare un'atmosfera cupa e per nulla allettante.
Non per Thomas, almeno.
« Ehi, pive, tutto a posto? », gli chiese qualcuno e Thomas sobbalzò. Pensava di essere da solo, lì fuori, ma si sbagliava: lontano dalle luci al neon e dall'ingresso del bar, c'era un ragazzo alto, magro, con gli occhi scuri e un'espressione sardonica in volto. Se ne stava appoggiato alla parete alle sue spalle e teneva tra le dita una sigaretta accesa, il cui fumo saliva verso l'alto, creando ghirigori tossici nell'oscurità per poi dissolversi nella notte. Il ragazzo biondo inarcò le sopracciglia, sorridendo, e Thomas scosse la testa. « Tutto okay », mentì, tornando a rivolgere l'attenzione alla facciata principale del The Maze. Restò così per qualche lungo istante, pensando che no, non andava tutto bene, che anzi niente andava bene, che voleva il suo cellulare e voleva chiamare Teresa, ma aveva dimenticato il cappotto al tavolo, fregandosi con le sue stesse mani. Sbuffò, scosse piano la testa e tornò a guardare l'altro ragazzo. Lui sostenne il suo sguardo senza alcun imbarazzo, mentre Thomas, al contrario, si sentì a disagio e abbassò la testa.
« In realtà non è tutto okay. È tutto decisamente non okay », cedette infine, spinto da una forza irrazionale a continuare la conversazione.
« Appuntamento disastroso? », gli chiese il ragazzo, facendo un cenno in direzione del ristorante. Thomas sorrise e fece di no con la testa, strofinandosi le braccia con le mani per riacquistare calore. « È più una questione di famiglia. Genitori separati che non sanno mandare avanti una conversazione senza che questa finisca nel sangue ». Fece spallucce. « Piatti volanti, coltelli che sfiorano i camerieri e cose del genere ».
L'altro ragazzo rise. « Scusa », disse poi, soffocando un risolino nella manica del maglione, troppo largo per un corpo esile come il suo. Thomas roteò gli occhi, ma sorrise a sua volta e gli si avvicinò. « Io sono Thomas », si presentò, tendendogli una mano, e l'altro ebbe un attimo di esitazione prima di stringerla. Quando lo fece, una scarica elettrica attraversò il braccio di Thomas, che non si ritrasse.
« Newt », disse il ragazzo.
« Newt? » Thomas aggrottò le sopracciglia. « Sei la prima persona che incontro ad avere questo nome. Non è molto comune, huh? »
Newt distolse lo sguardo da quello di Thomas e si strinse nelle spalle, a disagio. « Immagino di no », borbottò, grattandosi la punta del naso.
« È una fortuna ». Thomas si sfiorò il polso sinistro con un dito, per poi lasciarsi ricadere le braccia lungo i fianchi. « Sai, per la traccia e il resto », aggiunse con un sorriso. Anche la mano destra di Newt si strinse attorno al suo polso sinistro, in un movimento fulmineo e involontario che il ragazzo tentò di dissimulare l'attimo dopo. Annuì, gettò il mozzicone di sigaretta sull'asfalto e indicò con un cenno del capo l'ingresso del bar. « Io devo rientrare. Vieni con me o preferisci tornare ai coltelli volanti? »
Thomas si voltò verso l'entrata del ristorante. Ripensò agli interni color crema, all'atmosfera soffocante di quel luogo, alla voce di sua madre e a quella di suo padre, che si sovrastavano a vicenda nel tentativo di imporre le proprie ragioni. Scosse la testa, il volto distorto in un'espressione di disgusto. « Non credo di avere molta scelta », disse e mosse un passo verso la luce bluastra che fuoriusciva dal The Maze.
Newt gli indirizzò un sorriso storto e lo raggiunse sulla soglia. Quando la luce illuminò il suo volto, Thomas si rese conto che i suoi occhi erano contornati da una sottile linea scura e che dal suo lobo sinistro pendeva un orecchino, una catena a cui era legata una sottile croce argentata. Thomas decise che quei dettagli insoliti gli piacevano. La matita rendeva gli occhi di quel ragazzo più profondi di quanto già non fossero.
« Seguimi ». La voce di Newt lo riportò sulla Terra. « Ti presento ai Radurai ».
« A chi? »
« Ai miei amici », spiegò Newt con un risolino. Thomas lo seguì oltre l'ingresso e si guardò intorno. Entrare in quel luogo fu come essere catapultati in un altro mondo, un universo caotico e privo di luce, se si escludeva quella blu dei neon affissi al soffitto. Accanto alla porta principale, lungo lo stretto corridoio che conduceva ai tavoli, erano collocati la cassa e il bancone, dietro al quale un uomo alto e robusto sistemava qualcosa sugli scaffali, dando le spalle ai due ragazzi. Loro avanzarono di qualche passo. Quando gli occhi di Thomas si furono abituati alla semioscurità, lui capì perché il proprietario del locale avesse scelto un nome suggestivo come quello. The Maze, il labirinto: quello che si parava davanti agli occhi di Thomas, un dedalo di tavoli e paraventi incastrati tra loro a individuare aree diverse, ciascuna isolata dalle altre quanto permettevano le dimensioni della sala.
« Claustrofobico, non credi? » Newt lo guardò da sopra la spalla. « Ma si spende poco e il barista non fa troppe domande ». Ridacchiò e indicò con un dito un angolo della sala: nascosto per metà da un separé di metallo, un gruppo di ragazzi rideva e parlava ad alta voce.
« Newt è tornato! », disse qualcuno quando lui e Thomas furono a portata d'occhi. Il gruppo di ragazzi applaudì e Newt rise, scuotendo la testa.
« Ti sei incatramato per bene i polmoni, eh, pive? », gli chiese un ragazzo dai tratti asiatici. I suoi occhi scuri, animati da una scintilla di allegria, indugiarono sul volto di Newt per pochi istanti, prima di oltrepassarlo e incrociare quelli di Thomas, appena dietro di lui, che spostava il peso da un piede all'altro, a disagio. « Ci hai portato un cucciolo? » Tutti risero e Thomas non fece eccezione. Newt lo afferrò per un braccio, in modo che si rendesse più visibile. « Thomas, queste teste di caspio qui presenti sono i Radurai », disse. Indicò il gruppo di ragazzi seduti al tavolo con un ampio cenno della mano e un sorriso storto sul volto. « Radurai, questo è Thomas ».
Il ragazzo asiatico si alzò in piedi e batté un pugno sul tavolo che aveva di fronte. Il silenzio calò sul gruppo in un attimo e Thomas sentì un brivido percorrergli la schiena. « Questo pive può tornarsene da dov'è venuto », disse il ragazzo, guardando Thomas dritto negli occhi con fare minaccioso, « se non vuole ritrovarsi con il setto nasale deviato ».
Thomas sentì il sangue abbandonargli il volto, lasciandolo pallido come un cencio. Arretrò di un passo. Newt sorrideva sardonico, ma quando vide l'espressione sul volto del suo nuovo amico si sporse sul tavolo e spinse il ragazzo asiatico a sedersi. « Smettila, Minho, o il naso te lo spacco io ».
Minho abbandonò il cipiglio aggressivo e cominciò a ridere. Rise fino a non avere più fiato e tutti i Radurai lo imitarono, battendo le mani sul tavolo o i piedi sul pavimento. Minho si rialzò in piedi e, dopo essersi asciugato le lacrime con una manica, allungò una mano verso Thomas. Il suo sorriso si era addolcito e lui sembrava chiedergli scusa con lo sguardo.
« Io sono Minho, pive », disse quando Thomas ebbe trovato il coraggio di avvicinarsi. « Mi dispiace per lo scherzo, ma se avessi visto la tua faccia avresti detto che ne valeva la pena ».
« Lo spero bene », replicò Thomas con un sorriso imbarazzato. Minho gli fece l'occhiolino e indicò a lui e a Newt di sedersi al tavolo. « Fate spazio », intimò agli altri Radurai. Thomas si sedette accanto a Newt e a un ragazzino paffuto che aveva tutta l'aria di essere troppo giovane per frequentare un luogo come quello a un orario come quello. Il ragazzino gli strinse la mano. « Ciao, Thomas, io sono Chuck. Ero io il fagio, fino a un attimo fa ».
« Tu eri un cosa? »
Chuck rise. « L'ultimo arrivato », spiegò. Thomas aggrottò le sopracciglia. Questi ragazzi avevano un proprio vocabolario. Possibile che passassero il loro tempo libero a inventare parole nuove? Detta così, non sembrava molto divertente.
« Voi avete una parola diversa per ogni cosa? Pive, fagio, Radurai... perché Radurai? »
Minho sospirò. « È una lunga storia », disse, portandosi il bicchiere alle labbra.
« Non lo è », disse invece Newt con un ghigno. « Molti di noi si sono conosciuti a un campo estivo, qualche anno fa. Sai, uno di quei posti in cui i genitori stressati parcheggiano i propri figli per non averli tra i piedi durante le vacanze ».
« Se avessi avuto un figlio come te », lo interruppe un ragazzo, puntandogli un dito contro, « anch'io l'avrei lasciato marcire in un campo estivo, Newt ».
« Sta' zitto, Gally. C'eri anche tu ».
« Fu una mia scelta ».
« Certo. Tutti ricordiamo l'espressione di giubilo sul tuo volto quando i capigruppo ci costrinsero a camminare nel bosco per sei ore consecutive ».
« O mio Dio ». Minho si coprì il volto con una mano e scosse la testa. « Non dovevi ricordarmelo. Sul serio, non credo di aver mai vomitato tanto, dopo tutte le schifezze che avevamo mangiato ».
Chuck diede una pacca sulla spalla al ragazzo che gli sedeva accanto: era robusto e aveva il volto ricoperto di peli. « Se ci fosse stato Frypan! »
Newt rise e tornò a guardare Thomas. Il suo sguardo scivolò sulle sue labbra per un istante, prima che lo spostasse davanti a sé, concentrandolo su di un punto a caso. « Quel posto di sploff era chiamato Radura. Noi siamo i Radurai ».
Il modo in cui lo disse aveva un non so che di epico.
« Sto per commuovermi », biascicò Minho, asciugandosi lacrime inesistenti con un fazzoletto, e Thomas rise. La piega che stava prendendo quella serata gli piaceva sempre di più.

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