I CHOISE MY FUTURE

By Slytherinelle

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TRAMA 1362 d.C., Amithy è la terzogenita del re Carlo Federico II di Slovenia. Educata perché un giorno potes... More

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By Slytherinelle

Ho sempre vissuto con la concezione che non sarei mai salita al trono. I miei fratelli sarebbero stati i legittimi eredi al trono di nostro padre. Noi donne non abbiamo il diritto di governare un regno, grande o piccolo che sia. Non ci è concesso fare o dire nulla, in presenza degli uomini. Veniamo sfruttate solo per rendere loro piacere e per mettere al mondo eredi. Gli uomini non guardano in faccia a nessuno, potresti appartenere a qualsiasi ceto sociale, che tu sia una serva oppure una principessa, questo non ha importanza.

Agli uomini le chiacchiere non vanno, hanno da sempre preferito che la donna non parlasse; in fondo, sono sempre stati loro a scrivere la storia. Noi serviamo solo da contorno.

Mio padre non ha mai tenuto conto dei miei sentimenti, almeno da quando sono cresciuta. Ho dei ricordi sfuocati di quando andavamo insieme a giocare e ci facevamo inseguire da nostro padre. Quelli erano bei giorni, non avevo la concezione di quale sarebbe stato il mio destino e andava benissimo così. Dopo la morte della mamma, però, la luce negli occhi di nostro padre si spense, si rinchiuse nel ruolo che stava rivestendo e non badò più ai sentimenti altrui. Questo mi fece molto soffrire, anche se il mio obbiettivo era diventare la figlia perfetta che non sbagliava mai nulla e per un po' mi convinsi di esserlo. A corte, non c'era persona, nobile o servo che fosse, che non mi facesse i complimenti per il mio essere sempre impeccabile e rispettosa dell'etichetta. Finché un bel giorno, in un ventilato pomeriggio d'autunno, mentre leggevo un libro, seduta su di una panchina in marmo bianco, freddo come il ghiaccio, nel giardino del palazzo reale, vengo chiamata dalla mia balia.

«Principessa Amithy, vostro padre vi desidera nel salone delle udienze.» Mi girai a guardarla per un secondo negli occhi, perdendomi nel mio mondo ancora per un poco. Chiusi il libro e mi alzai in piedi, tenendo il libro saldo nelle mie mani. «Dite a mio padre che lo raggiungerò immediatamente.»

In fondo era quello che tutti si aspettavano da me: la Principessa perfetta. Dovevo essere l'esempio per tutte le dame del regno e quindi mi dovevo comportare di conseguenza. Non avrei mai sbagliato nulla, non avrei mai permesso ad altri di distruggermi, proprio come mi aveva insegnato l'etichetta di corte. Anche se non sarei mai diventata Regina, avevo questi compiti che visti da un occhio esterno potevano sembrare delle sciocchezze, invece per me erano la vita, la base dove posavano tutte le mie certezze. Il mio mondo.

Quando mi alzai dalla panca in marmo, smossi il terreno sotto i miei piedi, calpestando qualche foglia secca che, a causa del vento, si era racimolata sotto i miei piedi. Porsi il libro alla mia balia che non esitò nemmeno un istante a prendere con sé e mi diressi verso il corridoio principale. Le mura emanavano un'aria d'imponenza, rispondevano principalmente allo scopo di proteggere gli abitanti dagli attacchi dei Regni nemici. La struttura architettonica che si presentava era massiccia, in grado di resistere a continui assedi. Costruito prima in legno e solo successivamente in pietra, nacque semplicemente come mastio, una torre circondata da una palizzata. Durante i decenni si espanse ed intorno ad esso si formò un agglomerato urbano, dominato da una rocca e da una chiesa e chiuso da una cinta muraria e da un fossato, accessibile solo attraverso un ponte levatoio. Ma le guerre erano finite da tempo e il castello pian piano era divenuto sempre più disabitato, ospitando solo i membri della corte e la famiglia reale, servitù compresa. Il resto della plebe abitava nel villaggio, e di quando in quando i contadini entravano a palazzo a rifornire le dispense per un salario misero.

«Vostro padre ha una sorpresa per voi, altezza.» A quelle parole, la mia curiosità aumentò; se già prima volevo sapere come mai il re mi aveva mandata a chiamare, dopo l'esclamazione della balia avevo come unico scopo arrivare nella sala del trono per scoprire la sorpresa che mio padre aveva in serbo per me.

Due guardie messe a vigilare l'entrata della sala del trono sbatterono le lance sul pavimento in segno di rispetto nei miei confronti, aprendo subito dopo l'enorme porta in legno di quercia. Feci cenno alla mia balia di andare e lei, dopo essersi inchinata, mi lasciò sola con le guardie.

«Sua altezza reale, la principessa Amithy» mi annunciò il valletto. Entrai nella stanza con passo quasi incerto, rischiando anche di scivolare mentre mi dirigevo verso mio padre. Accanto al re, vi era un giovane uomo di media statura, poco più alto di me. Nel sentire il valletto annunciarmi alla corte, entrambi si voltarono; mio padre aveva un'espressione di beata felicità sul volto. Un sorriso che non gli vedevo da molto tempo.

«Mia adorata Amithy.»

«Mi avete mandata a chiamare, padre?» Rivolsi una riverenza solo al re, spostando poi il mio sguardo verso il giovane accanto a mio padre. Non potevo di certo nascondere che mi abbia colpita. I suoi occhi erano così profondi che mi sentii mancare, mi studiavano per tutto il tempo che mi guardava. Non era affatto male, ad essere sincera. L'altezza non gli mancava e nemmeno il portamento galante. I suoi capelli erano di una tonalità più scura di quelli di mia madre, che non poté non tornarmi alla mente, appena vidi quel colore rosso carota. Lo adoravo sul viso di mia madre.

Improvvisamente, si distrasse ed iniziò a sbattere le palpebre. «Vogliate perdonare i miei modi poco garbati. Io sono Javier di Navarra» esordì il giovane, porgendo la sua mano. «Voi dovete essere la principessa Amithy.»

«Mi hanno appena annunciata» risposi, accennando un sorriso deluso.

«Già, scusatemi sono uno sciocco.» Dovevo averlo offeso, perché abbassò lo sguardo verso terra e poi lo spostò verso mio padre, che lo stava fissando sbalordito.

«Principe Javier, non siete per nulla sciocco. Mia figlia, la principessa Amithy, ha ripreso dalla mia amata regina – che riposi in pace» disse facendosi il segno della croce. «La sua lingua non la fermerebbe neppure un barbaro.» Alla frase di mio padre, seguì una grassa risata che non poté divenire un coro, perché si aggiunse anche quella del principe Javier, come se fosse un bravo cagnolino che segue il suo padrone ovunque egli vada; oppure anche un figlio che, per entrare nelle grazie del padre, prova ad imitarlo in tutto quello che fa. Non riuscivo a decidermi come sentirmi: se felice, che mio padre avesse trovato qualcuno che lo compiaceva e rideva alle sue battute, oppure rassegnata perché gli era capitato l'ennesimo leccapiedi.

Mi schiarii la voce per attirare tutta la luce che c'era in quella stanza su di me. «Padre, potrei sapere come mai mi avete mandata a chiamare?» domandai annoiata e spazientita. Immediatamente, entrambi smisero di ridere e mi concedettero la loro attenzione, mi sentivo quasi lusingata.

«Giusto, giusto. Mia cara, come sai hai già quindici anni, i tuoi fratelli insistono perché tu prenda marito» disse, convinto delle sue parole. Per tutta una vita ero stata preparata a questo giorno ed ora che si era avvicinato, non ero per niente entusiasta all'idea di lasciare quella che per tutta la mia vita era stata casa mia. Non ebbi il coraggio di dire nulla in merito, anche perché non riuscivo a comprendere i miei sentimenti in quel momento. Mi chiesi che cosa avrebbe fatto mia madre se si fosse trovata al mio posto, come avrebbe reagito davanti ad una proposta di matrimonio come quella, insomma, senza neppure un breve corteggiamento?

Guardai per qualche istante mio padre, che con i suoi occhi stanchi mi guardava sperando in una mia risposta che lo avrebbe reso gioioso. «Se è questo il volere di mio padre, non posso che accettarlo.»

Mio padre mi mostrò un ampio sorriso e venne ad abbracciarmi. «Sapevo avresti acconsentito, ed io sarò più che felice di annunciare il vostro fidanzamento ufficiale questa sera, durante la festa che daremo in vostro onore, principe Javier.»

«Vogliate scusarmi, ma ora vorrei andare nelle mie stanze a riposarmi un poco, se non vi dispiace.»

«Ma certamente. Vai e riposati, ci vedremo questa sera.» Prima di lasciarmi andare, mi diede un bacio sulla nuca. Volsi le mie attenzioni al principe Javier, che si inchinò, porgendomi la mano, sfiorandola appena con le labbra. «Non vedo l'ora che arrivi questa sera. Conterò i secondi che mi separano del vedervi di nuovo.»

Ritrassi la mano, accennando un leggero sorriso. «A stasera.» Mi voltai e con disinvoltura uscii dalla sala, avviandomi nella mia stanza da letto. Nel percorrere la balconata fatta in pietra, trovai alcune guardie che stavano di vedetta in caso succedesse qualcosa di "pericoloso". Non appena gli passai davanti, si misero sull'attenti, mostrandomi i loro ossequi; ed io, con un cenno di capo, ricambiai ma senza fermarmi. Dovevo arrivare il prima possibile nella mia stanza, disposta in cima a quella che un tempo era la torre di guardia. Dopo la morte della regina madre, avevo fatto disporre tutti i miei effetti personali in quel luogo, lontano da tutti, tranne che da lei. In qualche modo, mi sentivo più vicina a mia madre. Non saprei dirlo con certezza, forse perché era la stanza più alta e rievocava in me la sua stessa essenza, o forse non volevo trovarmi tante persone tra i piedi. L'accesso alla torre era riservato solo a poche persone, nemmeno il re mio padre osava metterci piede perché non vi portai solo i miei effetti, ma anche alcune cose che appartenevano alla sua amata regina. A volte mi piaceva indossare gli abiti di mia madre, anche se non uscirei mai con uno di loro, per non riaprire le ferite di mio padre. Agli occhi del regno, il loro era stato un matrimonio combinato, voluto da entrambe le famiglie, come suole la tradizione; però mio padre mi raccontò che non appena la vide se ne innamorò seduta stante. Sono sempre stata convinta che mi sarei innamorata dell'uomo che avrebbe scelto mio padre, ma il principe Javier di Navarra aveva qualcosa che non mi giovava.

Entrai nella mia stanza da letto e con grande stupore non trovai la mia dama di compagnia, Caterina. Era molto strano, di solito si faceva sempre trovare nelle mie stanze quando ritornavo in camera. Mi convinsi che doveva aver avuto qualche cosa che non andava per non essere in quel posto. Mi sedetti sulla toeletta e suonai la campanella che si trovava proprio di fianco per far venire un membro della servitù ad aiutarmi a cambiarmi d'abito; subito dopo mi sciolsi i lunghi capelli castani – proprio dello stesso colore della corteccia degli alberi in inverno – massaggiandomi piano la cute. Mi slacciai la collana che portavo al collo e la posai dentro un piccolo scrigno in legno con decorazioni floreali, senza distaccare gli occhi dallo specchio, in modo da potermi sempre controllare – e tenere d'occhio tutta la stanza, tranne la porta che era nascosta dal letto a baldacchino, con la tenda di color porpora. Mi sentivo quasi al sicuro quando varcavo la porta della mia stanza, era come se niente e nessuno potesse più ferirmi. Era il mio rifugio, il posto in cui il male del mondo non sarebbe mai potuto entrare. Quando ero bambina, non sono mai stata circondata da veri amici; ero sempre a giocare con i miei fratelli più grandi, Gilbert e James. Insieme a loro, c'era anche il figlio di un conte bulgaro, Nikolay, giocavamo tutti insieme nei giardini del palazzo. Mi mancavano tanto quei giorni e avrei fatto di tutto pur di farli ritornare e rivedere il sorriso spensierato di mia madre, guardarci divertire.

Improvvisamente la porta si aprì, era arrivata la domestica. Non mi preoccupai di voltarmi a guardarla in faccia per farla sentire a disagio, non volevo essere cattiva. «Finalmente sei arrivata, ero quasi certa che ti fossi persa» dissi caustica. Mi tolsi gli altri gioielli che avevo addosso e li sistemai per bene dentro lo scrigno, quando sentii delle mani sopra le mie spalle; ma non erano di una donna.

«Perdonatemi, principessa» rispose una voce maschile. Alzai lo sguardo proprio difronte a me e lo vidi, proprio dietro le mie spalle c'era lui.

«Nikolay» dissi con un filo di voce.


















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