Concorso Fantasy: La Fantasia...

By Lyran-Wynes

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Questo è il luogo nel quale porrò le prove sostenute nel concorso fantasy indetto da Emma-Blues. ~ 1a: La Gl... More

Informazioni
La Gloria della Sventura
2.
3.
4.
5.
Terza Prova - Dialogo - Sul Razzismo
La Conseguenza Della Guerra
5. Prologo

One Shot - Il Lucchetto Nebbioso

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By Lyran-Wynes

Traccia 1

"La pioggia batteva incessantemente sulle tegole oramai da ore. La fredda stanza, colma di umidità, sembrava ancora più angusta del solito e la pressoché consumata candela proiettava un'ombra flebile e tremolante sulla tappezzeria consunta. Rivolse lo sguardo verso la vecchia e vigilante porta di legno, chiusa da settimane, mesi forse; un sospiro sconsolato ruppe il silenzio tombale che pervadeva l'ambiente."

Erano trascorsi solo due mesi dalla morte di Primula, sua sorella minore; in un mondo dove gli agnelli non venivano protetti dagli assalti dei lupi, i secondi falcidiavano i primi. Mikh ancora rimembrava l'attimo in cui era entrato in casa e aveva assistito allo spettacolo più ripugnante e terrificante della sua vita: la sorellina quattordicenne, il suo dolce e piccolo fiore, trucidata dai Mietitori delle Ombre, probabilmente violentata e suppliziata, abbandonata sanguinante sopra della tappezzeria identica a quella che stava guardando.
Strinse il pugno con furia. Se ne avesse avuto la possibilità, avrebbe infilzato le unghie nella carne ed urlato, e versato lacrime di qualunque tipo. Ma non era capace di piangere. Non ci era mai riuscito; nemmeno quando era piccolo. La responsabilità era di sua madre Fanya, che, come solevano fare gli adulti all'interno delle Tribù della Nebbia, lo aveva cresciuto alla stregua d'un mostro: distaccato, crudele, approfittatore: un essere amorale che non sconfinava nella dissolutezza. Era sempre stata conscia, però, del fatto che Mikh non fosse come gli altri bambini: c'era chi pensava alla guerra, chi sgozzava gli animali dei boschi per semplice divertimento, chi si isolava dal mondo ponendosi in una condizione di romitaggio solo per imparare ad essere freddo come il ghiaccio, e poi c'era lui che, malgrado i suoi genitori si esasperassero, non riusciva a dissociarsi totalmente dal suo lato umano, come se custodirlo al suo interno gli avesse conferito la carica di ereditario di sentimenti, quelli che un giorno sarebbero scomparsi e che lui avrebbe riportato in auge. Era anche per questo che, sebbene la madre avesse ottenuto grandi risultati, tanto da impossibilitargli un sano pianto, l'impulso permaneva in lui come il seme originario nell'esemplare più recente.
Volse nuovamente lo sguardo a quella porta, inaccessibile per chiunque tranne che per sua madre e suo padre. Non tornavano a casa da mesi, ormai; nessuno sapeva dove fossero finiti, né dove il fato li avesse condotti, soprattutto suo padre.
Un istinto che sorgeva dal cuore lo incatenò ad un'idea, ad un pensiero che non avrebbe nemmeno dovuto accarezzargli la mente: aprire quella porta.
I suoi genitori si erano caldamente raccomandati di non aprirla; sarebbe dovuta rimanere soltanto un torbido ricordo, un baluardo inespugnabile; ma la tentazione era travolgente e, da quando gli era stato detto che dall'altra parte c'erano molti oggetti riguardanti Primula, non aveva fatto altro che amplificarsi.
Si avviò verso la porta, presidiante l'abitazione come la sentinella di un monastero principesco. Avvicinandosi, percepì un'enormità di sensazioni contrastanti che eppure convergevano verso un unico obiettivo: spossarlo e distruggerlo.
Succedeva puntualmente, quando compiva qualche passo verso quella porta; generalmente, ogni cosa iniziava a vorticare, un senso di gravosità l'opprimeva come un macigno sulle spalle, e tutto mutava aspetto come per gli effetti di un oppiaceo. Con tutta probabilità era colpa di Orghul, il padre, lo sciamano della loro Tribù, uno dei pochi a cui era consentito abitare in un'umile casa al posto delle sgangherate capanne in cui risiedevano i componenti meno influenti. Orghul aveva sempre cercato di raggirare tutta la famiglia nelle maniere più strane, quasi si divertisse, quasi fosse un ragazzino che schernisse gli altri inconsapevole delle conseguenze. Ad esempio, tre anni prima, aveva compiuto un incantesimo al loro cagnolino sotto gli occhi sconcertati e disgustati di Primula: aveva creato un'illusione ottica che aveva ritratto la carne di Bud (così si chiamava) lacerata come dall'artiglio di un drago. Poi, per rendere il tutto più credibile, l'aveva fatto svenire e infine aveva fatto uscire del liquido vermiglio dalle sue immaginarie ferite. Quando Mikh era arrivato, ansante per la corsa dopo aver udito le grida della sorella, aveva fissato l'illogico corpo esamine di Bud. Ovviamente lo scherzo era sfociato in una fragorosa ed interminabile risata da parte di Orghul, che poi aveva spiegato la macabra spiritosaggine ai due figli. Anche per questo Mikh si era sempre reputato l'uomo di casa: suo padre, in fin dei conti, era un formidabile bambino cresciuto frettolosamente.
Nel meditare, non aveva notato l'accaduto: affrancato da ogni pressione mentale, aveva continuato a procedere senza averne coscienza, raggiungendo la porta.
Quella era una guerra psicologica... Suo padre aveva sempre saputo che, quando lui mirava a qualcosa, non distoglieva mai testa e occhi dal suo traguardo; sapeva che non era tipo da arrendersi a dolorose reminiscenze. Proprio così aveva creduto di poter creare una barriera efficace per impedirgli di entrare, ma aveva sottovalutato l'influenza che un evento come quello della morte di Primula avrebbe potuto avere su di lui.
Deglutì: il contenuto della stanza oltre quella maledettissima porta stava per rivelarglisi. Per un momento, all'esterno, la pioggia aumentò il proprio rumore, quasi volesse esprimere la propria opinione in materia: ovazione o rimprovero?
Afferrò la maniglia. Senza rifletterci due volte, la girò. Uno scatto che durò un eterno istante ruppe l'atmosfera di sospensione che si era dilungata fino a quell'attimo. Pian piano aprì la porta. La grigia luce penetrò gradualmente. Dapprima rese visibile un polveroso specchio che però riusciva a riflettere gli occhi verde primavera di Mikh; poi illuminò un insieme di tappeti arrotolati che, sopra un sottile tavolino di mogano attaccato alla parete lignea, sostavano in attesa di rimpiazzare il tessuto che tappezzava lo spiazzo davanti al divano beige dov'era si trovava prima lui. Quando la porta fu spalancata, la maggioranza della roba divenne limpida come l'acqua di un fiume resa cristallina dal chiarore del giorno.
Mikh rimase per un attimo confuso. Dov'erano gli oggetti di Primula? Si aspettava indumenti sgualciti appesi a qualche gancio arrugginito, primitive bambole spezzate a metà e cogli arruffati capelli color paglierino, ma soprattutto una caterva di prodotti di bellezza ricavati da alberi e foglie; prodotti di bellezza che non avrebbe mai potuto utilizzare. La realtà, nonostante ciò, era un'altra: lì dentro non c'era nulla di sua sorella. Non avrebbe mai più rivisto il suo visino nemmeno su uno dei bellissimi disegni che faceva di solito. Se la ricordò china sul tavolo con un pezzo di carta e una penna che funzionava poco bene, che delineava i contorni di faccine paffute cogli occhi vispi che ne attorniavano una magra con due lunghi e grandi occhi azzurro cielo. Si ricordò la cascata di capelli biondo cenere, le orecchie un po' appuntite e i bordi di labbra che più in avanti sarebbero state bramate da miriadi di ragazzi ancora non domati. Poi vide il suo sorriso. Lo vide che si riverberava tra le pareti, nel buio, nella luce, nella polvere, nel fuocherello della candela che stava alitando per i suoi ultimi istanti.
Sospirò. Doveva ricomporsi, oppure i suoi propositi sarebbero svaniti tra le nuvole scure e mostruose. Un'enigma si ripercuoteva più frequentemente nel suo cervello: qualcosa tra quella roba era appartenuto a Primula?
Entrò con l'intenzione di setacciare tutta la stanza; era indispensabile eseguire il lavoro al completo, poiché se là alcunché era di Primula, allora era minuscolo e difficilmente rintracciabile. Prese a tastare ogni superficie piana e non, ogni muro, ogni oggetto, fintantoché da uno dei tappeti decorati con stravaganti forme geometriche non saltò fuori una scatolina mezza bruciacchiata.
Se la rigirò tra le mani più volte prima di desumere cosa fosse: la Scatola dei Segreti. Primula amava chiamarla così perché era il contenitore nel quale nascondeva ogni oggetto a cui era affezionata, ed era proprio lì che Mikh contava di trovare qualcosa che spiegasse almeno in parte la morte di lei. Con un movimento fluido l'aprì.
Pezzi di carta. Una marea di pezzi di carta bianchi sui quali non c'era neanche la sbaffatura dell'inchiostro di un calamaio. Tutti uguali. Tutti maledettamente uguali. Nello stesso momento un lampo squarciò il cielo abbattendosi sul terreno boschivo all'esterno dell'abitazione e producendo un minaccioso tuono. Il vento spirò con impetuosità. Il fuoco della candela si spense.
Mikh capì. Prese i foglietti di carta stando attento a non strapparli, poi si diresse verso il caminetto con una corsetta, e quando fu lì, si sedette sul bordo pietroso ed accese il fuoco aggiungendo tizzoni ardenti; successivamente espose i fogli alle lingue infuocate che s'innalzavano dalla legna. Come per magia, la carta venne rischiarata tiepidamente dalla fiamma e su di essa comparvero delle lettere in un alfabeto che lui conosceva fin troppo bene: quello sciamanico. Quello era il modo mediante cui lui e Primula si erano comunicati tutti i messaggi di estrema importanza da quando avevano rispettivamente dieci e sei anni; tuttavia, qualcosa non quadrava. Non gli aveva mai scritto nulla nella lingua sciamanica, principalmente perché Orghul avrebbe potuto decifrare i loro messaggi, e lui non pensava nemmeno che la sorella l'avesse imparata, dato che l'educazione che avevano ricevuto non era stata la medesima.
Sorvolò su ogni dubbio, cancellò ogni mistero, e in un lampo fu con gli occhi sul foglio. Tradusse rapidamente. Quelle parole erano rivolte a lui.
"Caro Mikh, leggi il biglietto scrupolosamente. Entro la quattordicesima ora del giorno duecentotrentacinquesimo del calendario dovrai scappare da casa. Io, nell'ultimo barlume di forza che mi è rimasto, seviziata dalle torture dei Mietitori delle Ombre, sono riuscita a scriverti questo per avvisarti dei piani di nostra madre. Lei non è quello che sembra. Si è mischiata tra gli uomini delle Tribù della Nebbia per anni, ingannando tutti e simulando una perfetta appartenenza; ha cambiato le sue peculiarità solo per sembrare quello che non è, con risultati ottimi. Non so come dirtelo, ma nostra madre è una Genghaart, una delle spie degli acerrimi rivali del nostro popolo. È lei la colpevole della morte che sto per subire ingiustamente, e fa tutto questo solo per colpirci dall'interno. E perché?, ti chiederai giustamente. Perché noi, ma soprattutto tu, siamo i detentori di un potere immenso, quello del Lucchetto Nebbioso, che nostro padre ti lascerà in eredità. Nostra madre lo cerca. Dovrai distruggerlo più che farglielo prendere! E ora vai a recuperarlo: in camera sua, sotto al letto, c'è una botola che compare solo se pronunci le parole: "Che la luce t'illumini" nella lingua in cui sto scrivendo ora. Vai subito a guardare, poi gira pagina."
La prima facciata del foglio terminava lì. Lo girò: un'altra parte altrettanto lunga lo attendeva. Non lesse cosa c'era scritto per rispettare il volere della sorella. Si alzò e lasciò il pezzo di carta dove prima era stato seduto lui.
Perciò corse nella camera dei suoi genitori e, giunto accanto al letto e con gli occhi puntati sul pavimento sottostante, disse: «Ibhana erosimia sphinxe.»
Un vento tumultuoso si palesò nella camera facendo svolazzare i capelli corvini di Mikh, e un biancore abbacinante l'accecò. Chiuse gli occhi, riaprendoli solo dopo esserseli stropicciati. La botola era proprio dove aveva detto Primula. Protese il braccio in avanti e agguantò il manico nerissimo. Tirò. Come con la porta, la trepidazione era tanta, la luce che s'infiltrava progressivamente nel vano protetto dalla botola chiarificava il contenuto velando l'ambiente di suspense; e proprio come in un déjà-vu, non apparve ciò che Mikh si aspettava. Nulla che somigliasse al fantasmagorico e leggendario Lucchetto Nebbioso, o chiamato il Manipolatore.
Cosa manipolasse? Nessuno eccetto le famiglie che se lo tramandavano generazione in generazione lo sapeva, e per giunta Mikh era stato l'unico a cui il padre non aveva insegnato nulla. I pochi aspetti di cui si era impratichito, grazie alla sua avida e insaziabile curiosità, erano quelli che riguardavano il potere centrale: plasmare prigioni di nebbia.
Si ritrasse per poi alzarsi. Si mise le mani fra i capelli. Potevano essersene già impossessati? Discutibile, se non addirittura impossibile: sua madre non possedeva le abilità necessarie per rendere anche solamente visibile la botola, e tantomeno gli altri Genghaart o i Mietitori delle Ombre. E quindi?
Strabuzzò gli occhi: sua sorella aveva usato la loro creazione: il "doppio elemento", con il quale affermava di ripetere un azione due volte menzionandola solo una, così fuorviando chi non ne era al corrente.
Dunque prese fiato e ripeté: «Ibhana erosimia sphinxe.»
E in un'esplosione di luce, il lucchetto occupò lo spazio che avrebbe sempre dovuto occupare. Lo prese. Era una specie di medaglione tra il dorato e il rosato con l'aggiunta di una pesante catena in platino. Al centro, una gemma splendente rifulgeva come un plenilunio durante una notte priva di stelle. Era vitrea e pareva che il suo splendore derivasse da un globo luminescente racchiuso al suo interno.
«Ora scappa» sussurrò una voce.
Mikh si voltò di scatto. Era il timbro di Primula, quello che aveva udito. Cercò di dimenticarsi quell'ultimo fatto e tornò dal messaggio della sorella, sedendosi esattamente come prima.
"Nostro padre te lo ha lasciato sapendo che tu l'avresti usato con saggezza. Sai, tutto sommato non era cattivo, Orghul; era solamente un po' infantile ma soprattutto non aveva niente contro di noi: l'incantesimo alla porta gli ho detto io di farlo; il mio obiettivo era di non svelarti certi fatti troppo presto per non destare inutili sospetti. In ogni caso, è ora di spiegarti cosa ha in mente nostra madre. Lo venni a scopriee un giorno del terzo mese, mentre la stavo cercando per dirle qualcosa di cui ero entusiasta. La sentii discorrere mormorando con un'altra persona molto alta. Mi nascosi dietro lo stipite della porta e ascoltai la conversazione. Lui, con una voce cavernosa, disse che il Lucchetto Nebbioso andava individuato e ottenuto il più presto possibile per il compimento del piano di un certo maestro, tale Ivaan. Lei disse che non avrebbe impiegato molto ad eliminare tutta la famiglia e a venire a conoscenza dell'ubicazione dell'artefatto. Poi... Be', poi dissero qualcosa che è tanto laido e schifoso che non riesco neppure a scriverlo. Ti basta sapere che saremmo tutti perduti, se uno del loro Clan avesse tra le mani quell'oggetto. Mikh, non so più cosa dirti, se non di ricordarti di me per sempre. Il mio cuore è e sarà sempre con te. Nulla potrà scindere questo legame. Nulla sarà così potente da non permetterci di pensare l'uno all'altra. Sii forte per la tua sorellina, come se io fossi lì con te e avessi bisogno del tuo conforto. Ti voglio bene, un bene dell'anima. Mi hai cresciuto tu, mi hai reso la persona che sta ora scrivendo questa lettera accantonando tutti i dolori che l'attanagliano. Fra poco la tortura sarà ricominciata, la lettera custodita, e nostra madre mi infliggerà il colpo di grazia. Tra tutto ciò che possiedo, tu e papà siete il mio unico tesoro."
«Maledetti» sussurrò Mikh, piangendo.
Gettò rabbiosamente il pezzo di carta nel fuoco e lo fissò bruciare con sguardo sconsolato e al contempo furibondo. Aveva pianto. Una lacrima era fuoriuscita dai suoi occhi bagnando il pavimento. Era come se un diamante gli si fosse confitto nel marmoreo cuore e avesse lasciato sgorgare la linfa che era rimasta lì per anni, che era maturata senza mai vedere la luce del sole, che si era fortificata ed era diventata pressoché inestirpabile. Una conquista fatta col sacrificio della persona a cui teneva di più, scatenata dal ricordo di una purezza ormai consumata.
Si asciugò gli occhi e preparò due, tre bagagli leggeri per scappare rapidamente. La sua alacrità fu ammirevole e riuscì a terminare il tutto in pochissimo tempo.
Tra tutto ciò che avrebbe mai potuto pensare, mai avrebbe detto che la perpetratrice di qualcosa fosse sua madre e che suo padre fosse la vittima innocente. Probabilmente, dopo aver scoperto che Orghul aveva partecipato segretamente alle strategie di Primula, lo aveva fatto fuori con incredibile discrezione, poiché se fosse stato ancora vivo lo avrebbe messo all'erta.
Era pronto ad andarsene, ma prima di farlo c'era qualcosa di cui voleva sincerarsi. Si diresse verso la sala da pranzo e staccò il rozzo calendario dalla parete: era il giorno di cui Primula parlava nel foglio. Dopo aver lanciato il calendario sul tavolo di legno, corse fino all'orologio che funzionava giornalmente basandosi sulla posizione iniziale del sole durante la mattina con una magia sciamanica di basso livello: mancava veramente poco alla quattordicesima ora.
Un timore forsennato lo assalì. Dunque s'involò verso la porta d'ingresso, ove aveva abbandonato le due sacche nelle quali aveva accumulato tutto quel che gli sarebbe potuto occorrere, quando un ovattato nitrito di cavallo lo allertò. L'animale si arrestò davanti casa sua, e dei piedi umani atterrarono tentando di attutire il graffiante strofinio di sassolini sul sentiero breccioso. Mano a mano che si avvicinavano, Mikh arretrava come paralizzato dalla vita in su. Il respiro era irregolare e il cervello focalizzato su un solo, inesplicabile problema: che cosa fare in quel momento? Un animale comparve alla sua destra: il suo gatto Bhun. Era filato via terrorizzato, però aveva imboccato la direzione sbagliata ed era finito da quelli che doveva fuggire.
Alcuni colpi alla porta risuonarono per la casa come la deliberazione di un demone, come lo scadere di un tempo massimo sancito dall'altisonante rumore di alcune lancette di un orologio estremamente grande.
«Ehi, Mikh, vieni ad aprire a tua madre», fu la battuta iniziale del mostro che lo aveva accudito per tutta la vita.
Mikh, senza pensarci due volte, certo che la sorella non gli stesse mentendo, afferrò i pochi agevoli bagagli e si precipitò disopra facendo un gran chiasso. Al di fuori, un essere dalla voce grave ma sibilante, sussurrò qualcosa come: «Sta scappando», o almeno a Mikh parve questo, dato che le percosse alla porta incominciarono a farsi più frequenti e veementi.
«Mikh, non costringermi a fare qualcosa che non voglio!» urlò Fanya. «Non ho mai voluto uccidere tua sorella, è stata lei a mettermi in una situazione senza via d'uscita. Avrei voluto portarvi ad Ulbium, dalla mia famiglia Genghaart, per offrirvi una vita felice, ma lei è stata così ostinata e irrazionalmente fedele! Non fare il suo stesso errore.»
Mikh, che aveva udito tutto, si voltò. Perché la madre aveva rischiato tanto? A conti fatti, poteva anche darsi che stesse scendendo di corsa dalle scale per riabbracciarla dopo mesi di assenza, anche se la sua quasi inesistente emotività lo rendeva alquanto improbabile. Allora perché? Era stato il Mietitore. Solo in quell'istante Mikh rammentò alcuni degli insegnamenti del padre, che un giorno gli aveva parlato dei Mietitori delle Ombre. Loro erano uomini delle montagne di Ezhies, marchiati col fuoco e contraddistinti da poteri a loro modo speciali: erano esperti delle ombre e delle emozioni che interessavano la sfera della cupezza, della rabbia e della malinconia, e forse proprio per via di quello le aveva riferito che il suo umore non era dei migliori e che al suo interno divampava una furia cieca che le sue ultime parole avevano contribuito ad alimentare, che attecchiva in ogni area del corpo e lo soggiogava sottomettendolo alla sua volontà. E aveva ragione. La rabbia lo assoggettò.
Dal nulla, seppur non la sapesse, recitò una formula e gli occhi gli si tinsero di rosso. La nenia crebbe di volume e anche i due che tentavano di entrare in casa la sentirono. Il secondo individuo non fece nulla a proposito ma Fanya fu tutt'altro che tranquilla.
«Spostati!» gli gridò.
Accadde in una frazione di secondo. Il cuore di Mikh si immobilizzò e l'energia che aveva assorbito dall'esterno fu riversata sottoforma di fuoco sui nemici, che non riuscirono ad evitarla completamente. Quando fu finito e Mikh fu ritornato alla normalità, si fiondò verso la madre. Era svenuta, così come il suo compagno: un Mietitore delle Ombre, proprio come aveva presunto. Nel suo lunghissimo mantello nero incuteva un timore esistenziale. Mikh fu tentato di togliergli il cappuccio e di osservare i volti sfregiati che si narravano nelle leggende; poi, però, fu più intelligente: tornò a raccogliere i bagagli e, passando dalla porta principale, scappò verso la Foresta Ombrosa, luogo di antiche ignominie, mentre la pioggia stava cessando ma tuoni e fulmini imperversavano ancora.

Passarono circa tre ore, prima che Mikh incominciasse a segnalare i primi sintomi di affaticamento. Attorno a lui, la foresta ottenebrava ogni zolla di terreno e gli animali che calpestavano le foglie che cadevano su di esse. Il tempo si era stabilizzato, seppur altre scurissime nubi si delineavano all'orizzonte. Sibili, fruscii e altri rumori s'avvicendavano serpeggiando ovunque come invisibili saette; imprimevano la loro impronta nelle orecchie altrui e suscitavano timore.
Appresso alla Foresta Ombrosa c'era il villaggio della sua Tribù, Yuxhun, famoso per la produzione d'opalescenti tessuti pregiati. Da dove era lui, se si fosse camminato un poco verso Ovest, si sarebbe potuto raggiungere uno strapiombo che dava appunto su Yuxhun, alle pendici di un monte mediamente alto denominato Sefer. Era un ammasso di capanne e tende che s'inoltravano nella gola della caverna accanto alla quale era stato dislocato il fulcro del borgo: lo Enmayar, il caseggiato protetto da recinzione che racchiudeva al suo interno i membri politicamente e militarmente più altolocati della Tribù. Davanti ad esso era stata edificata una fontana con un statua raffigurante il fondatore, Ushrapur, con una spada stretta nella gelida morsa della pietra.
Mikh non volle nemmeno rimirarla per l'ultima volta: i ricordi non gli avrebbero consentito d'infischiarsene di quel posto, sebbene proprio lì avessero tentato di trasformarlo nell'incarnazione del cinismo; così tirò dritto. Continuò a camminare a passo sostenuto, sperando che Fanya e il Mietitore non si fossero già risvegliati. Era una sfida contro il tempo: era consapevole che le opportunità di sconfiggere un Mietitore erano esigue persino per uno sciamano come suo padre; quel che era successo prima era già da ritenersi una fortuna sfacciata.
Ad un certo punto arrivò ad un fiume molto basso e lo guadò con disinvoltura. Allorché fu giunto sull'altra riva, qualcosa lo indusse a fermarsi: il silenzio era sovrano. La Foresta Ombrosa era famosa essenzialmente per due ragioni: l'ombra che l'ammantava da mattina a sera e i frequenti versi di bestie e cinguettii di uccelli. Per questo Mikh si era fermato, nulla più si palesava tra i funerei tronchi. Poi, dei passi. Due piedi che sbattevano contro il terreno in rapida successione, che correvano. Si girò. Dietro di lui, due figure stavano sfrecciando verso di lui. Una delle due era sua madre, l'altra era incappucciata e sembrava che il copricapo non potesse essere smosso nemmeno dal vento che veniva creato dallo spostamento d'aria.
Mikh si voltò di nuovo, in preda al panico. Non sapeva cosa fare. Era sicuro che l'avrebbero catturato in poco tempo. Fu allora che ci fu l'illuminazione. Scattò. Veloce come una folgore si protrasse fino ad una massa informe di nebbia che aleggiava lì vicino durante quella stagione: la Corona di Thomps, un anello mistico di nebbia che possedeva particolari proprietà. Ancestrali miti raccontavano di sortilegi avvenuti al suo interno agli albori delle Epoche, di abominevoli creature che scorrazzavano liberamente per tutta la sua estensione, di malefici commessi sul suo terreno. Era il luogo peggiore nel quale compiere un incantesimo col Lucchetto, dato che millenni prima nel sottosuolo era stato impiantato un seme di Magia Bianca, una sorgente che era in grado di provocare gravissimi danni, se entrava in collisione con della Magia Buia come quella del Lucchetto.
«Fermati, Mikh! Te lo ripeto per un'ultima volta: non costringermi a fare ciò che non voglio!» urlava la madre da dietro.
«Smettila, puttana! E vergognati dei tuoi misfatti!» disse Mikh, torcendo per un attimo il busto.
Gli occhi della donna furono pervasi da un fuoco inumano, e utilizzando le tecniche alle quali i Genghaart venivano iniziati fin da piccoli, accelerò incredibilmente, guadando il fiume in pochi battiti di ciglia. Persino il Mietitore delle Ombre faticava a starle dietro.
Mikh prese un bel po' di fiato e rotolò dietro una siepe finendo in un piccolo fosso. Ci si posizionò e attese che i suoi rivali entrassero a loro volta nella Corona di Thomps.
«Attento» disse Fanya, rivolgendosi al Mietitore, «mio figlio non è stupido, e anche se inesperto rimane pur sempre uno sciamano. Ne hai avuto la prova tempo fa. Se prima eravamo nel tuo regno, qui siamo nel suo. Dobbiamo essere furbi e prevedere le sue mosse.»
Da dove si trovava, Mikh aveva lo scorcio per osservare i movimenti e ascoltare i discorsi dei due. Il cuore gli pulsava tanto che pareva volesse lacerargli il petto ed uscire, le tempie gocciolavano sudore freddo, il respiro era trattenuto per evitare di produrre alcun rumore.
«Mikh» esordì Fanya, e lui si mise in allerta, «ascoltami con attenzione. Non volevo fare nulla a tua sorella, così come non volevo fare nulla a tuo padre, con il quale ho convissuto per tutti i tuoi diciotto anni.»
Mikh rifletté: allora anche il padre era morto, proprio come aveva immaginato.
«Esci fuori da dovunque tu sia e ti prometto che sarai partecipe della conquista del mondo da parte dei Genghaart.»
Mikh chiuse gli occhi. Era l'ora propizia, il momento della verità. Tutto o niente: non c'erano alternative. Per quel che si profilava innanzi a lui non ci dovevano essere remore: sacrificarsi per la salvezza del mondo in cui viveva era il compito di un eroe. Ripensò agli innumerevoli momenti felici e tristi che avevano marchiato il suo passato, a Primula, ai suoi lunghi capelli biondi, ai progetti di Orghul, alle sporadiche premure di Fanya; anche se aveva sempre pensato che, davanti ad una scelta, avrebbe rifiutato un'altra vita del genere, ora sarebbe stata il premio più bello. Si alzò in piedi spaventando leggermente i due. Aveva il Lucchetto in mano e altre lacrime gli solcavano le guance. Non avrebbe avuto scampo, ma almeno avrebbe portato con sé gli unici a conoscenza della reale ubicazione del Lucchetto. Il Mietitore si preparò a saltargli addosso, ma Fanya gli ordinò di rimanere immobile.
«Cosa vuoi fare, Mikh?»
Lui sorrise mestamente.
«Prima hai detto bene, mamma: questo è il mio regno. Nonostante non sia uno sciamano provetto, so comunque qualcosa circa il Lucchetto. So come intrappolarvi qui dentro.»
La madre fece qualche passo nella sua direzione, sinceramente angosciata.
«Sai che in un posto simile l'incantesimo sarebbe perpetuo? Sai che resteresti imprigionato assieme a noi? Ma soprattutto, conosci la leggenda della Corona di Thomps?»
«Sì.»
«Ma potresti essere dilaniato dal potere della sorgente magica! Potresti essere perfino disintegrato...»
Mikh sbatté le palpebre. Diede uno sguardo al suolo. Lì sotto si celava la causa della sua dipartita.
«Non cambia nulla» affermò.
Una scintilla di terrore balenò nelle pupille di Fanya.
«Non puoi rischiare tanto...»
«Posso eccome, se dall'altro lato c'è l'annientamento del mondo che conosco.»
Iniziò a recitare la formula dell'Oblio e un muro di tenebra rovente s'innalzò intorno a lui.
«Scappa!» urlò Fanya, parlando al Mietitore.
L'essere fuggì verso destra, ma non fu abbastanza lesto. Un'esplosione di gocce tenebrose modellò una catena che si legò alle caviglie dei due e li atterrò. All'esterno, il fitto strato di nebbia si era compattato non permettendo più a niente e a nessuno di accedervi. Era una giusta prigionia eterna, quella che li aspettava. Ma non per Mikh. Lui, che aveva risparmiato al pianeta uno dei più disastrosi conflitti che ci sarebbero mai stati, doveva condividere la cella con gli abietti per poi morire di stenti.
«Sei contento ora, moccioso? Diventeremo scheletri in neanche un anno.»
Nessuna risposta. Il mito si era avverato: Mikh era svanito nel nulla.
Con il trascorrere degli anni, Fanya e il Mietitore si spensero lentamente, affammati, schiavizzati e soffocati dall'onere che trasportavano. Di Mikh non si ebbero più notizie. Né quando Ilmya cadde, né quando le loro Terre furono bruciate e angariate, né quando la Luce tornò alla carica e si riappropriò di ciò che era suo. Forse era stato il vento a farlo volatilizzare. Magari aveva pressato sulle sue ceneri e l'aveva condotto fino a un luogo sacro nel quale avrebbe potuto riposare fino alla fine dei tempi. O magari no.

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