Una Volgare Dimostrazione di...

By AlessandroCaredda

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Cinque criminali con l'acqua alla gola provano il colpo della vita ma qualcosa va storto. Ognuno di loro otti... More

Introduzione
Capitolo uno: Il crimine paga
Capitolo due: Un piano ben congegnato
Capitolo 3: Uccelli senza sale
Capitolo cinque: Sonia
Capitolo sei: Prigionia
Capitolo sette: Se qualcosa può andare storto ...
Capitolo otto: Guadalajara
Capitolo nove: tra intenditori ci si capisce
Capitolo dieci: levarsi un peso
Capitolo undici: battaglia su Roma

Capitolo quattro: Rimpianti

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By AlessandroCaredda

1

La scheda magnetica di Gabbo passò sopra una sorta di lettore, fece scattare un interruttore verde e le porte che davano sull'entrata si spalancarono.

Nel momento stesso in cui vidi l'interno della struttura, capii che c'era qualcosa che ci stava aspettando. Quella cosa era viva, permeava il posto con un'aura che influenzava ogni mia sensazione causandomi profonde vertigini. Mi sentivo cadere ad ogni passo, le gambe cedevano e una voce sempre più forte si intrufolò nei miei pensieri.

Bravo bambino. Sei un bravo bambino. Cammina, Giulio. Segui i tuoi compagni, Giulio. Le porte si sono chiuse ma sei al sicuro con me, Giulio. Ora entra nell'ascensore, Giulio.

Le porte dei dieci ascensori di fronte a noi si aprirono tutte insieme, mischiando la loro luce al neon con quella dell'atrio in cui eravamo entrati. Non mi accorsi nemmeno che gli animali erano rimasti fuori: ci guardavano immobili dietro le porte in vetro, nel buio del parcheggio.

Cornacchie, passeri e gabbiani si erano poggiati sulla testa dei cani, aggrappandosi alla carne spelacchiata e fangosa dei loro crani. I topi invece erano fermi poco lontani in orribili orde circondate da mosche e falene svolazzanti. Nessuno di loro emetteva un verso, nessuno di loro faceva un movimento. Sembravano un branco di pupazzi male assortiti di un giocattolaio pazzo.

<< Bravi cagnolini >> disse Kekko sbavandosi addosso.

<< Bravi cagnolini >> ripeté Slav all'unisono con Guédé e Massimo.

<< Bravi cagnolini >> sputacchiai io con un sorriso ebete in faccia.

Fu Gabbo che mi ordinò dove andare con un gesto del capo, per poi fare lo stesso con gli altri. Kekko e Guédé presero l'ascensore all'estrema sinistra mentre Slav e Massimo quello all'estrema destra. Io quello al centro.

L'ascensore si chiuse e subito mi sentii triste, quasi depresso. Era come se un velo di dolore mi fosse calato addosso, perché non avrei più visto i cagnolini, i topolini e quegli uccellini sporchi di terra scura. Mi sentivo nello stesso modo di quando ci si prende una sbronza malinconica e si comincia a pensare ad eventi grigi del proprio passato.

Scoppiai in lacrime mentre l'ascensore scendeva piano dopo piano dopo piano. Singhiozzavo tenendomi la faccia tra le mani e sussurravo che rivolevo i miei cagnolini, rincoglionito dalla droga mentale più forte che avessi mai provato.

No, Giulio, non piangere. I cagnolini sono rimasti fuori ma potrai rivederli dopo. Non piangere mio bel bambino, ho preparato una festa per te. La senti questa bella musica? La senti Giulio? È la tua festa!

Sentivo davvero la musica.

Più l'ascensore scendeva e più si faceva alta in una sinfonia che si mescolava con il rumore dei cavi e delle rotaie. Il pannello segnava meno nove B, meno dieci A, meno dieci B, meno undici A, meno undici B ... e poi si fermò.

La musica ora era sopra di me, come se fossi sceso un piano di troppo. La distinguevo bene, era calzante, piena di bassi e con una sinfonia ben nota. Sembrava un remix di Maracaibo, tanto che ne distinguevo le parole.

Quella canzone riusciva a ricondurmi ad una festa di compleanno di vent'anni prima.

Rincuorato cominciai a canticchiarla mentre uscivo dall'ascensore, guidato dalla voce. << Maracaibo! Mare forza nove ... fuggire sì ma dove? >>

Bravo Giulio, sei proprio un bravo bambino. Canta mentre vai alla tua festa, non fermarti. Ora gira l'angolo e ricordati di tenere il fucile puntato davanti a te. Il dito tienilo lontano dal grilletto, così non facciamo spaventare i cagnolini ... va bene bambino mio?

Annuii e voltai l'angolo di un corridoio lungo circa cinquanta metri. Dietro di me l'ascensore si richiuse e con un bip salì verso l'alto, per poi tornare alla sua posizione iniziale. Le luci erano spente, mi muovevo al buio con solo qualche faretto rosso poco luminoso e montato sul pavimento a farmi da sentireo. Sembrava una pista d'atterraggio in miniatura.

Canticchiavo, seguendo la luce che filtrava da due oblò sopra una porta mezzo aperta. Ero felice che i cagnolini stessero bene. Mi sentivo ossessionato da quegli animali che facevano da leva mentale perfetta per muovermi come un burattino.

Quando aprii la porta con una spinta, sentii che fece uno scatto indietro quasi come se viaggiasse su un binario nel terreno. Accanto c'era un pannello che segnava la scritta "aperta da controllo remoto", poi una serie di lucine intermittenti che rappresentavano i piani e le porte aperte recanti numeri e diciture che non capivo.

Non mi passò nemmeno per l'anticamera del cervello di guardarmi intorno, analizzare il perimetro per capire se stessi correndo un pericolo o nascondermi dietro qualcosa. Stavo puntando alle voci in fondo alla stanza, dietro un separé di cemento aperto.

Passai i cinque letti a cuccetta alla mia destra e alla mia sinistra stipati contro le due pareti della stanza, scavalcai gli zaini, i sacchi a pelo, delle valigie trolley e qualche mobile. Le voci erano due, una maschile e una femminile, parlavano piano ma erano concitate.

Caricai il fucile.

Giulio, ci sei vicino. Poggia il calcio del fucile alla spalla, leva la sicura ... bravo, così. Ora volta l'angolo e punta alla tua destra, dove c'è l'uomo. Ricorda che le parole sono ...

<< State fermi! Fermi e nessuno si farà male! >> berciai in una cantilena biascicata, facendo cascare della bava sopra l'arma. Tenevo la testa di lato, guardavo quelle due facce spaventate ma non le vedevo davvero. Ricordo però che i visi mi sembrarono traslare, cambiando di volta in volta i connotati.

Prima mia madre, mio nonno, un vicino di casa, Cinzia, Simona e tutte le maestre delle elementari. Era solo un'allucinazione?

<< C-cosa ... cosa cazzo stai ... >> bofonchiò l'uomo.

<< State fermi! Fermi e nessuno si farà male! State fermi! Fermi e nessuno si farà male! State fermi! Fermi e nessuno ... >>

Continuai a ripetere come un disco incantato quella filastrocca, piegando il collo prima a destra e poi a sinistra. Le ultime sillabe le sputai con grumi di saliva biancastra che mi si era formata sulla lingua a forza di tenere la bocca aperta. Il naso mi colava ma non avevo proprio intenzione di tirare su o asciugarmi il moccolo.

Un cazzo di eroinomane, al confronto, sarebbe sembrato un lord.

I due erano stati presi con le mani nella marmellata, si vedeva lontano un miglio: lei aveva la camicetta sbottonata e la gonna mezzo alzata; lui la cintura dei pantaloni slacciata e il camicie aperto che frusciava in maniera disordinata ad ogni suo movimento.

Ero in botta ma la mia mente ne immagazzinava i tratti con passiva lentezza. Come quando ci si concentra su qualcosa di fronte a se ma nella periferia del campo visivo c'è un dettaglio che ti salta all'occhio, no? Ecco, tutto ciò che mi importava era rivedere i cagnolini ma le loro facce rimanevano comunque di fronte ai miei occhi benché non riuscissi a concentrarmici su per più di pochi secondi per volta. Era un ciclo infinito di deficit dell'attenzione e credo che il cervello stesse cominciando a combattere per riprendere il controllo.

Lei era giovane, parecchio giovane, anche se portava l'acconciatura da segretaria e un tailleur che la invecchiava di dieci anni almeno. La sua pelle liscia faceva contrasto con gli occhiali tondi dalla montatura rosa. Era biondissima, i capelli sfioravano il color platino senza addentrarcisi per un soffio. Il trucco invece, quasi del tutto assente, si poteva notare per la sbavatura della matita sotto gli occhi. Il mio cervellino drogato capì che poco prima stava piangendo.

Poi i cagnolini assaltarono di nuovo la mia psiche e lasciai perdere.

L'uomo invece doveva aver superato i quaranta da un pezzo ed era più basso della ragazza che, a guardar bene, non portava i tacchi ma delle Converse rosa pallido. La stempiatura dell'uomo era così vistosa da dare alla sua testa una forma un po' allungata. Era tutto fronte, una testa di ginocchio si direbbe dalle mie parti, e le sopracciglia folte dominavano il viso. Occhi porcini ravvicinati tra loro, naso aquilino sormontato da degli occhiali con montatura nera e bocca spalancata urlante qualcosa che non capivo. Sbraitava infuriato per avergli rovinato il suo momento di sesso con la biondina, rabbioso per via del fucile, per colpa della mia faccia intossicata e chissà per quale altra ragione.

Non era importante, non si trattava di un cagnolino.

Almeno ora avevano un volto che non si modificava nel tempo. Era già qualcosa.

Non so per quanto tempo rimasi in bambola di fronte ai due, non ne ho davvero idea. L'uomo continuava ad urlare e urlare e urlare, io rispondevo con la solita filastrocca ad ogni suo strillo e man mano che il tempo passava cominciavo ad accorgermi che c'era qualcosa che non andava.

Fu con un movimento lento della mano sinistra che la mia mente riprese il sopravvento: fece alzare il braccio, poi poggiò il palmo sulla mia fronte e portò alla consapevolezza ogni fibra del mio essere che dovevo togliermi quella roba che ci avevo trovato attaccata.

Al tatto era morbida, disgustosa, piena di peletti che solleticavano i polpastrelli. L'afferrai con le dita ordinandomi di toglierla. Dovevo staccare quella cosa dalla mia cazzo di fronte. Dovevo strapparla via e poi darle fuoco. Dovevo ridurla a brandelli!

Strinsi forte e tirai.

Ricordo questo prima di crollare svenuto davanti agli occhi sgranati della ragazza. Attorno avevo le urla dell'uomo che mi cullavano come le onde di una serata al mare. Dentro di me, invece, solo un buio doloroso che mi strappava l'anima.

2

Di risvegli bruschi ne ho provato a calci in culo. Una quantità spropositata per la mia età perché, prima di smerciare la roba, come tutti gli adolescenti ho sperimentato i suoi effetti.

Crollare in un limbo agitato è abbastanza pesante per un ragazzetto di diciassette anni, figuriamoci per un uomo di trenta. Ricordo che una volta mi spaccai di Ecstasy ad un rave realizzato con quattro casse audio, due bancali e due mattoni, in mezzo alla campagna fuori Cagliari. Bevevo vodka alla pesca, mi facevo due pastiglie e ballavo per ore la tecno trance che andava in quel periodo.

Ad una certa mi si spegne il cervello mentre sono poggiato in un muretto a secco, di quelli bassi, e la ragazza che avevo rimorchiato mi soccorre con la lentezza classica di chi è in botta. Per un sacco di tempo sono stato così, forse due ore buone o magari anche di più: mezzo addormentato e mezzo svenuto. Un meccanismo di difesa del mio corpo? Il cocktail di pastiglie e alcol mi aveva fuso? Non ne ho idea.

Mi risvegliai che era l'alba, la macchina in cui viaggiavo non era la mia e la tipa mi cullava la testa sulle sue gambe.

Un risveglio del genere è traumatico, non si può dire il contrario, perché è come se la mente avesse resettato il sistema per farti riprendere. Ogni effetto della merda ingerita era sparito, ogni senso aveva ripreso a funzionare e tutte le esigenze corporee avevano deciso di chiamare all'unisono.

Ci mancò poco ma riuscii a non pisciarmi e cagarmi addosso.

Una bella fortuna, eh?

Questo risveglio andò diversamente.

Spalancai gli occhi e ciò che vidi mi parve irreale. Quasi non ricordavo come cazzo ci fossi finito sopra un letto a cuccetta, con il petto scoperto e una grossa bendatura in fronte.

L'occhio destro era annebbiato.

Lo sfregai, cercai di capire perché non riuscivo a mettere a fuoco, ne frugai l'interno cercando di comprendere se ci fosse qualcosa che non andava. Quando distolsi lo sguardo da una delle flebili luci al neon, che ora apparivano accese per metà, l'occhio riprese a funzionare. Era come se si fosse adattato al buio così bene da farmi osservare dettagli che, in una stanza non illuminata, sarebbe stato impossibile scorgere.

La puzza di vomito mi arrivò al naso come uno schiaffo in piena faccia. Sporgendo la testa verso il basso capii che veniva dal secchio accanto al mio letto.

Era una sostanza grigiastra in cui galleggiavano pezzi di cibo predigerito. Il secchio era pieno per metà.

Quello schifo era uscito da me? Quella merda l'avevo espulsa io?

Stentavo a crederci nonostante tutti i segnali fossero quelli, compreso il saporaccio che mi sentivo in bocca e l'irritazione alla gola. Cercai dell'acqua guardandomi a destra e a sinistra. Una bottiglietta mezzo vuota stava proprio sul comodino vicino al mio letto.

Come se avessi fatto la traversata del deserto a piedi, mi ci avventai contro e la finii in due rapidi sorsi.

Ora era il momento di muoversi ma prima dovevo capire dove mi trovavo, ricordarmi come c'ero arrivato e ...

<< Il fucile. Porca troia ... >> sussurrai cercando di non far bruciare la gola più del dovuto.

Mi misi seduto, stupendomi dell'assenza di giramenti di testa post blackout. Stava tornando tutto alla mente, ogni ricordo di ciò che era successo da quando avevamo incontrato Gabbo.

Pensate al mio stupore su quel lettino e al panico che non può che sopraggiungere subito dopo, come una secchiata d'acqua gelida.

Acqua.

Cristo, la gola mi bruciava proprio ma avevo bisogno di fare mente locale. Rimasi sdraiato sul letto a rantolare e tossire con la gola irritata, bestemmiando per la situazione assurda con il filo di voce che mi rimaneva.

La fasciatura era spessa e toccandola sentivo che mi faceva male. Il dolore riportò alla mente gli eventi che avevano causato il mio blackout, quindi capii quanto la situazione era degenerata.

<< Cagnolini ... >> sussurrai ricordandomi quanto fossi attaccato a quelle bestie che, a guardarle col senno di poi, dovevano essere morte e stramorte. Quelle cose se ne erano uscite dalla tomba di sicuro, tanto che sembravano un misto tra una carogna fresca e una carcassa imbalsamata.

Però si muovevano pensai rabbrividendo.

Tutti i dati portavano alla spiegazione più nefasta, merdosa e insidiosa possibile: Gabbo ci aveva inculato in qualche modo che non riuscivo a spiegarmi, poi ci aveva drogato in qualche altro modo che non riuscivo a decifrare, infine ci aveva fatto avere delle allucinazioni della madonna per portarci in questo posto. I fucili dovevano essere una stronzata e chissà come aveva fatto a procurarsi quei tre MP nuovi di pacca.

Avevo trascinato Massimo, Kekko, Guédé e Slav in questo incubo senza farmi una domanda in più o provare a indagare sul passato di quel figlio di troia di Gabbo. Tossico, infido e bugiardo che non era altro, ci aveva proprio servito una bella inculata a secco.

<< Cazzo ... >> sussurrai tossendo le sillabe e tappandomi la faccia con le mani. Mi veniva da piangere ma avevo paura di peggiorare lo stato del mio occhio destro.

Mi ero pure giocato un occhio, capite? Questa cosa mi sarebbe costata la vita perché quel cazzo di napoletano camorrista mi avrebbe fatto fare la pelle, e come se non bastasse, non sarei riuscito nemmeno a vedere bene in faccia il mio assassino.

<< Cazzo! >>

E non c'era via d'uscita perché, anche se io ero vivo e vegeto, seppur acciaccato, mi avevano preso l'arma. Quei due a cui l'avevo puntata in faccia, comportandomi da matto, potevano essere in agguato aspettando di farmi il culo se avessi provato una fuga.

<< Cazzocazzocazzo! >>

E come se non bastasse, come se non ci fosse limite al peggio, mi bruciava la gola in una maniera che faceva presagire un principio di disidratazione. Per non parlare del vomito grigio che avevo espulso, segno di uno stadio terminale di chissà quale malattia terribile.

Dovevo andarmene da lì. Dovevo provare il tutto per tutto e fuggire da quel cazzo di posto.

Misi i piedi a terra, mi guardai intorno e cercai di alzarmi dal letto. Nessun giramento di testa, nessuna vertigine, nessun cedimento di gambe.

Per assurdo mi sentii come quando facevo palestra: dolorante per l'acido lattico ma in forze. Le stranezze ormai si sprecavano.

Alzandomi continuai a guardarmi intorno, maledicendo me stesso per quella faccenda da incubo in cui mi ero cacciato. Avanzai di pochi passi oltre il letto a cuccetta, superai quella che doveva essere una zona alloggi per il personale di servizio e attraversai la flebile luce al neon che creava un cono di fronte a me.

Per poco non rimasi cieco, paralizzato dal dolore all'occhio destro e con le gambe che cedevano.

Con un balzo tornai nelle ombre.

<< Porca puttana! >> soffiai frustrato, riuscendo anche a farmi esplodere di dolore la trachea.

Decisi che dovevo tapparmi l'occhio malato con qualcosa, quindi mi sciolsi il bendaggio dalla fronte e lo usai come una benda pirata. Erano garze di cotone morbido, pulite e puzzolenti di alcol disinfettante da quattro soldi.

Nemmeno una macchiolina di sangue. Lì per lì lo trovai sospetto ma non ci feci caso più di tanto: in fondo mi ero ritrovato dentro una puntata di X-Files senza nemmeno chiedere di far parte del cast. Le cose strane mi erano piovute addosso in abbondanza senza stare a farmi altre domande.

Il neon smise di darmi fastidio.

Mi allungai oltre il cono di luce guardandomi indietro. Una volta appurato che non c'era anima viva alle mie spalle proseguii verso la zona da cui ero arrivato e che, se la memoria non mi stava ingannando, mi avrebbe portato alla porta, poi al corridoio e infine all'ascensore.

Cercai di fare meno rumore possibile, camminando con una lentezza esasperante ... quando mi accorsi di essere scalzo.

Ci mancava solo questa! Pensai frustrato abbassandomi per guardare sotto i letti alla mia destra, negli angoli bui della stanza e ...

Vidi un badge bianco e rosso poggiato alla bene e meglio sopra un borsone da viaggio. Lo raccolsi leggendo le iniziali di ciò che sembrava la sigla di un gruppo azionario o magari di un farmaco particolare.

S.L.M. CAMMINO COMPANY

DEVELOPMENT AND EXPERIMENTATION

NAME: SONIA

SURNAME: MARINI

AGE: 23

ROLE: INTERN, VIAGGIATRICE

Ripoggiai il badge dove l'avevo trovato cercando di non far frusciare lo zaino di tela. Sentivo freddo senza la maglia ma evitai di mettermi a rovistare tra le cose altrui come un topo nell'immondizia. Diedi un altro sguardo indietro accertandomi che non ci fossero sorprese armate di mitra e mi rimisi in marcia verso la porta.

Cammino e viaggio erano parole che continuavano a perseguitarmi. Perché?

I letti a cuccetta finirono, i bagagli pure, tornando nella semioscurità che le luci al neon creavano con il loro bagliore intermittente. Ricordavo molta più luce dentro la stanza dormitorio, mentre ora sembrava di essere in una sorta di stanza mortuaria. Era come se qualcuno avesse calato la "modalità notte", creando un'illuminazione così soffusa da essere fastidiosa per il mio occhio sano.

Ad ogni metro in più dovevo strizzare le palpebre per capire cosa ci fosse davanti e le forme spigolose e spartane non aiutavano di certo. Una cassettiera in metallo mi apparve molto più lunga del normale per via della sua ombra, una scrivania a muro mi sembrò un divano fino a quando non ci arrivai di fronte e due estintori appesi alla parete vennero scambiati dal mio occhio per dei pilastri.

Mi stavo accorgendo di non avere più la profondità di campo, ora che mi ritrovavo orbo.

La gola bruciava ancora ma cercavo di non pensarci, sperando di trovare qualcosa da bere da qualche parte. Per mia fortuna individuai, in un lato vicino alla porta d'ingresso, un distributore automatico di merendine e bibite. Per mia sfortuna non avevo nemmeno un euro in moneta, e anche se ce l'avessi avuto avrei prodotto un casino infernale.

L'uscita era proprio di fronte a me.

Allungai il passo, afferrai la grossa maniglia a spinta laterale e tirai forte. Chiusa. Tirai ancora più forte. Chiusa come le gambe di una suora.

Guardai dal vetro a oblò e vidi che tutte le luci nel corridoio erano spente, tranne un fievole illuminazione rossa a intermittenza che arrivava dal fondo. Era la luce dell'ascensore.

<< Non puoi uscire. È chiusa ermeticamente >> disse una voce femminile alle mie spalle.

3

La ragazza di fronte a me era una vittima.

Ci misi un secondo e mezzo, massimo due, a capirlo e non ci misi molto di più a inquadrare il resto della situazione. Stava seduta su una sedia da scrivania, una di quelle con le ruote e in finta pelle nera, spostata dal tavolo da lavoro poco distante. Teneva in mano un quaderno aperto con la copertina scura, credo fosse blu, e una serie di pagine scritte in stile elenco.

Erano nomi, firme del personale che, volta dopo volta, dormiva nel dormitorio in cui mi ero risvegliato. Chissà da quanto era lì a sfogliare un elenco di nomi, pagina dopo pagina, sperando che qualcuno venisse a fare qualcosa.

Teneva le spalle incassate e la testa bassa, sembrava avesse pianto da poco. I capelli erano tenuti in ordine da una coda floscia. C'erano due ciuffi biondissimi che le ricadevano ai lati del viso, coprendo quelli che anche da dove ero io somigliavano ad ematomi. Zigomo destro e zigomo sinistro.

Portava dei vestiti in cui ci ballava dentro, tanto erano grandi, forse recuperati da qualche parte tra i bagagli del personale. La felpa aveva la scritta S.L.M. ricamata in rilievo color rosso acceso, i pantaloni invece erano quelli di una tuta spaiata.

Le scarpe che indossava erano le ballerine che ricordavo dal nostro primo incontro, benché portate con dei calzini di cotone bianchi.

<< Chiusa ... >> ripete con la voce spezzata.

<< Perché è chiusa? >> chiesi guardando ancora fuori dall'oblò. Il buio persisteva come una patina di melassa.

La ragazza scosse la testa e riprese a piangere senza fornirmi altre spiegazioni. Rimasi in silenzio guardandomi attorno, cercando di soppesare le domande da poter sparare in faccia alla mia nuova confidente.

<< Dov'è il mio fucile? >>

Lei sussurrò un timido << ce l'ha lui ... l'ha nascosto >> che riuscii a percepire a malapena. Sembrava che facesse fatica a calmarsi ma non ero in vena di rassicurare nessuno, non riuscivo nemmeno a pensare di caricarmi pure quel peso sul groppone.

<< Hai dell'acqua? >> chiesi massaggiandomi la gola.

Lei annui e mi passò una bottiglietta poggiata vicino ai suoi piedi. Era piena, fresca, appena recuperata dal distributore automatico.

Me la scolai in tre sorsi, rinascendo a nuova vita. La gola ora stava bene, anche se la sentivo pungere quando deglutivo. Mi si doveva essere screpolata per la sete, proprio come la lingua e le labbra. Me ne sarei bevuto altre quattro, di bottigliette, però decisi che le domande erano più importanti.

<< Chi è "lui"? >>

Ennesima pausa, un sospiro e poi un altro, si grattò le ginocchia a disagio e scosse la testa. Non feci nulla per impaurirla, per costringerla ad una risposta, ma continuai a fissare il suo volto triste e tumefatto. L'impressione era quella di avere davanti un randagio ferito, maltrattato da giorni e giorni di passanti violenti. L'impressione non si sbagliava più di tanto.

<< Senti, io mi sono svegliato ora. Qui dentro non centro nulla, sono stato drogato da qualcosa e mi hanno messo un fucile in mano. Me ne voglio solo andare senza casini ... ok? Puoi venire con me se vuoi, perché quei segni in faccia si vedono anche con questa luce di merda. Però devo capire, altrimenti come faccio ad andarmene? >>

<< Non si può, è tutto chiuso. Lui ... lui ... >>

<< Lui è l'uomo che mi urlava contro, vero? >> la ragazza annuì alle mie parole senza aggiungere altro.

<< E tu come ti chiami? >> chiesi facendo un passo avanti. Come un animale braccato alzò la testa di scatto guardando il mio volto, il mio petto e le mie mani. Vide che le stavo tenendo in tasca e sembrò un pochino più tranquilla.

<< Sonia. Sonia Marini ... il cartellino che stavi guardando è mio >> sorrise Sonia per la prima volta di fronte ai miei occhi. Aveva pure un labbro spaccato e sul collo c'erano segni di dita che avevano stretto parecchio forte.

<< Ah, ok. Scusa, non volevo fotterlo. Senti ancora, poi ti lascio in pace e torno a letto: questo lui, è quello che ti mena. Ma siamo in un laboratorio o in un capannone industriale, giusto? Com'è possibile che uno così lavori qui? >>

<< È dottore >> sussurrò Sonia abbassando di nuovo lo sguardo.

<< Medico? Di che? >>

Sonia si portò la mano al labbro, torturandolo in un gesto a lei fin troppo familiare. Strappava quelle che erano delle crosticine formatesi dove aveva ricevuto la botta. I suoi occhi scandagliavano la zona dietro di noi alla ricerca di qualcosa che facesse pensare alla presenza del suo aguzzino.

<< Ingegnere. Dottore perché è un'autorità qui e perché ha più di un dottorato ... nessuno si mette a contestarlo. Il dottor Maurizio Greco, lavora qui da anni, c'è pure una borsa di studio a suo nome. Sono ... ero tirocinante da lui e ... e ... >>

Si ammutolì all'improvviso, rifiutandosi di continuare perché le parole le morivano in gola. Scosse la testa, torturandosi il labbro ferito. Era terrorizzata, tremante.

Dal canto mio non ci volle molto per capire cosa stava succedendo. Sembrava un copione scritto nel sangue di migliaia di ragazze giovani con la sola colpa di essere piacenti: un uomo potente fa in modo di assicurare il lavoro ad una ragazzetta confusa, meglio ancora se appena uscita dal paese natale, però vuole qualcosa in cambio.

Le storie di merda cominciano sempre così.

Magari la piccola fiammiferaia fa resistenza all'inizio e lui mette in chiaro le cose prima con le buone, cioè le minacce e le rappresaglie, poi con qualche schiaffone ben assestato. La sfianca mettendola alle corde, se la lavora con la paura, violentandole prima l'anima e poi il corpo. Lui ha il coltello dalla parte del manico e indovinate un po'? Sembra proprio pronto ad usarlo.

Alla fine, dopo averne fiaccato le resistenze, la lascia andare come se nulla fosse. Ha ottenuto ciò che voleva, no? Denunciami, tanto nessuno ti crederà perché io sono io e tu non sei un cazzo. Lei magari sta pure zitta nei primi tempi, fa passare un po' troppo e dopo che denuncia non succede un beneamato cazzo a meno che tu non sia una diva del jet set, una di quelle che si fa le ospitate da Barbara D'Urso. Il tizio potente non pagherà mai per una semplice ragione.

Chi ha i soldi cade sempre in piedi.

Il panico mi colse quando ragionai sull'ultimo punto della faccenda, quello riguardante al fatto che alla fine, il tizio potente, della ragazzetta si stufa. Perché questo no? Da quanto eravamo lì dentro?

<< Sonia, giuro che questa è l'ultima domanda ... puoi concentrarti su di me? Solo un attimo, per piacere >> parlai mascherando il respiro affannoso. Dentro avevo già cominciato a pregare, sperando di sbagliarmi di grosso.

Sonia si voltò.

<< Quanto sono rimasto svenuto? >> chiesi sputando la domanda tutta d'un fiato.

<< Ormai ... ormai sono quindici giorni >> rispose Sonia.

4

Stordito. Poggiai la mia testa sul cuscino e mi sentii sprofondare.

Era troppo tardi, non ricordavo neppure più il giorno in cui eravamo partiti. Dovetti sforzare la mente, tornare alla settimana in cui avevo organizzato l'incontro con i miei complici. Ricordai che mancavano pochi giorni alla fine di Marzo, spremetti ancora le meningi e vidi la data del telefono controllato prima della partenza col camion.

Venticinque.

Era il 25 di Marzo, e stando ai calcoli mi ero risvegliato il 10 Aprile.

Mi misi le mani in faccia e cominciai a singhiozzare.

Da quant'è che non piangevo?

Forse da quando Dario venne travolto da un'auto mentre, in motorino, sorpassava a destra. Ricordo che vidi la scena dopo che mi chiamarono al telefono, sussurrandomi che aveva avuto un incidente. Non ci arrivai subito, non capii che il mio migliore amico era morto fino a quando non vidi il casco ammaccato da una botta terribile. Quando realizzai scoppiai in lacrime.

Ucciso da un padre di famiglia che tornava dal lavoro, alle otto della sera senza la minima idea che il mio unico e vero amico avrebbe fatto quel sorpasso.

Ricordo che piansi anche quando il mio cane morì, ammazzato da una polpetta avvelenata che un figlio di troia aveva lasciato nella mia via. Lo faceva a giorni alterni, lo sapevamo tutti ma comunque non era bastato per farci aggiustare quel cancello sempre aperto. Si chiamava Doblone, era un meticcio, e quando morì avvelenato avevo dieci anni.

Non piansi per mio padre.

Non piansi per mio nonno, per i miei zii o per gli altri morti che la mia famiglia si trovò ad affrontare. Però per Dario e Doblone sì, crescendo in un lampo davanti a ciò che la vita sapeva offrire in manciate così generose.

E Slav? Kekko e Massimo? Guédé? Che fine avevano fatto?

Non riuscivo a pensarci perché, per una volta, mi fu chiaro che qualcosa ci aveva ingannati portandoci dentro una sorta di prigione e che ora, per colpa sua, si sarebbe concretizzata la mia più grande paura. L'idea di non farcela, di rispondere al napoletano e sentirmi dire che da quel momento potevo considerarmi già morto. Il terrore mi stava attanagliando lo stomaco.

Fu mentre piangevo che sentii dei picchiettii in lontananza, come se qualcuno tentasse di scardinare qualcosa sfregando metallo contro metallo. Erano sommessi, echeggiavano per grazia divina nella stanza e arrivavano alle mie orecchie stridendo nei timpani.

Il silenzio assoluto era rotto solo da quei picchiettii, dal ronzio del neon e dal mio singhiozzare sommesso. La parete di fronte a me era un letto a cuccetta vuoto. Non era poi un gran peccato socchiudere gli occhi e riposarli, anche solo per un attimo.

<< Muoviti! >>

<< Io ... >>

<< MUOVITI, BRUTTA PUTTANA! MUOVITI! >>

Aprii gli occhi all'improvviso, intontito e se possibile ancora più stanco. La sensazione era quella di quando fai un pisolino nonostante l'aver dormito tutta la notte. Mi pulsava la testa, l'occhio sinistro era mezzo annebbiato e la schiena mi doleva.

Vidi che l'uomo, il dottor Maurizio Greco, stava puntando il fucile contro di me. Sonia invece era ai piedi del mio letto, in ginocchio e con le mani di fronte al viso. Cercava di proteggersi alla bene e meglio.

Non servì, il dottore le diede un calcio che la fece caracollare a terra. Provai ad alzarmi di scatto ma mi fermai per colpa del fucile.

<< Che c'è? Te la vuoi scopare tu? Brutta merda subumana, se stai fermo non ti ammazzo come il coglione che sei. FERMO HO DETTO! >> aveva la camicia sbottonata e sudicia dal sudore di due settimane. Due grossi aloni si erano allargati sotto le ascelle, i pantaloni contenevano a malapena una pancia prominente e le scarpe erano slacciate.

Tornai indietro fino a toccare il cuscino del letto con la schiena.

<< Senta ... >> provai a balbettare << Non c'è bisogno di ... >>

<< AH NO? AH NO? Ma se non c'è bisogno allora è tutto a posto! Un cazzo di morto di fame entra qui per rapinarci, poi fa scattare il generatore di emergenza imprigionandoci tutti. STAI-ZITTO-CAZZO! >> Parlava in maniera sconclusionata, alternando urla ad una voce rotta.

Sonia aveva detto che il dottor Maurizio Greco aveva nascosto il fucile, eppure eccolo lì che lo sventolava di fronte ai miei occhi. Lo teneva come un randello, il dito poggiato sul grilletto in maniera preoccupante e la cinghia che gli sbatacchiava sui genitali.

Non sapevo perché fosse così furioso, dunque decisi di tacere e sperai che le botte per Sonia fossero finite. Non fu così.

Si avvicinò al lato del letto raccogliendo una ciocca di capelli biondi con la mano destra, poi la sollevò con forza facendola urlare e scagliandola sul letto. << Te la vuoi scopare, eh? Vuoi assaggiare anche tu la fica sfondata di questa puttana? Hai visto, troia? Ora puoi ... ZITTA! ZITTA, NON PIANGERE HAI CAPITO? NON PIANGERE! >>

Volarono due ceffoni che beccarono in pieno il viso di Sonia, facendola crollare di nuovo. Stava con il corpo rannicchiato oltre il bordo del letto, mentre il dottore infieriva su di lei. Il fucile era vicino e avrei potuto tentare una presa. Magari riuscendoci, magari no. La situazione si era fatta troppo calda per affidarmi ad un lancio di moneta. Il dito sul grilletto poteva premersi in una frazione di secondo e rendermi uno scolapasta.

<< Sonia fica rotta! Sonia lecca sborra! Puttana da due soldi che ciuccia i cazzi dei docenti. Questo sei! Sei una delle tante che fa carriera così ... ma con me ti è andata male! Hai capito? È ANDATA MALE A QUESTA STRONZA FRIGIDA! >> urlò ancora il dottore. Era accecato dalla rabbia ma la follia che vedevo nei suoi occhi non era autentica. Mi venne in mente una brutta recita di natale a cui avevo assistito da bambino.

Sonia deve avergli ferito l'orgoglio nel solito modo in cui questi omuncoli si possono ferire: rifiutandolo pensai senza un'apparente ragione.

Da quanto andava avanti con quel trattamento?

Non ne avevo idea ma un altro pezzetto del puzzle si era unito, creando un'immagine sempre più nitida di tutta la vicenda: Sonia gli aveva detto di no perché, fino a quando si sentiva costretta dal posto istituzionale del dottore, poteva anche fare buon viso a cattivo gioco. Magari una doccia dopo, magari un bagno caldo e la consapevolezza che prima o poi avrebbe concluso questa storia con una borsa di studio, il suo nome su una ricerca, un posto decente dove lavorare nell'ambito che aveva studiato.

Il problema era che adesso, in quella situazione, il titolo del dottore non valeva più. Sonia era libera di mandarlo a fare in culo senza se e senza ma, sbattendo la porta per non girarsi mai più. Tranne che non c'era la porta da sbattere, anzi tra lei e la libertà c'era una blindatura spessa trenta centimetri. Aveva fatto incazzare lo stesso orco con cui avrebbe dovuto convivere per chissà quanto.

Dunque ecco le botte, le crisi e le violenze.

C'era solo un problema: io come cazzo facevo a conoscere l'esatto evolversi di quella storia?

<< LEGALO! LEGALO PUTTANA, HAI CAPITO? >> strepitò il dottore sbattendo sopra di me delle lenzuola attorcigliate.

Sonia cominciò ad annodarmi.

Sapete qual è il bello di chi ha studiato? Di quelli che si fregiano di un laurea parlando del loro percorso scolastico come fosse qualcosa di interessante?

Che credono di essere i più furbi in circolazione.

Sapete qual è il bello di chi invece non ha mai aperto un libro? Pensa anche lui di essere il più furbo della cucciolata.

Nel momento in cui Sonia prese a legarmi le braccia e le gambe capii cosa fare e quando farlo, proprio grazie ai nodi che mi avrebbero dovuto fermare.

Legare qualcuno non è così semplice.

Io lo scoprii nel momento in cui, una ragazza con cui ero andato a letto, mi chiese se ero capace di praticare lo Shibari. La pratica è quella di legare qualcuno in una sorta di dominazione e, state pur certi, che ci vuole preparazione, pratica e studio. Un nodo, per funzionare a dovere, deve essere capace di tenere qualcuno immobilizzato facendo leva su una corda d'appoggio, in modo da non dare gioco se non nella direzione voluta dal legatore.

Sembra complicato, eh? Lo è, ma il dottore doveva aver pensato la stessa cosa che pensai io quando la ragazza mi chiese di legarla: che ci vorrà mai?

I nodi di Sonia erano stretti, certo, ma si muovevano bene. Si poteva portare le mani in avanti e far scivolare il lenzuolo sull'avambraccio, poi allargare le braccia con la forza delle spalle e sfilare via un polso. Quelli ai piedi sarebbero venuti via in un lampo, lo vedevo anche senza essere un esperto lupo di mare.

Solo che non era il momento giusto, dunque attesi.

Passai le ore senza dormire, senza mangiare e senza bere. La cosa mi faceva innervosire perché il dottore, in tutta la sua stronzaggine, aveva deciso di lasciarmi nella posizione più scomoda possibile. Me la segnai.

Il nervoso divenne rabbia e poi sete di vendetta col passare del tempo. Sapevo che con lui non ci sarei andato leggero, ne ero certo come ero certo anche che mi avrebbe sputato le risposte che cercavo. Una ad una, magari accompagnate dai suoi denti.

Aspettai e aspettai, in silenzio, ascoltando solo il rumore martellante in lontananza che quel maniaco produceva con chissà quale attrezzo.

Alla fine non ci volle molto.

Me lo vidi passare di fronte diretto chissà dove, senza il fucile a portata di mano e con i pantaloni un po' più slacciati del solito. Aveva il cazzo dritto, ne vedevo l'erezione dalla stoffa tirata, dunque sapevo benissimo cosa stava andando a fare. Gli occhi vitrei invece mi fecero accapponare la pelle.

Cos'ha questo matto? Ora vado lì e lo sfondo a pugni! Pensai arrabbiato come un toro di fronte al matador.

No, non era quello il momento giusto ma si stava avvicinando.

Sfilai le braccia dal nodo con un colpo solo, ascoltando i passi del dottor Maurizio Greco che si allontanavano verso Sonia. Quando la sentii urlare slacciai anche quelli ai piedi senza nessuna fatica, poi mi issai fuori dal letto e presi a muovermi.

Dottore, per lei ci vorrà un dottore.

C'era buio nell'angolo in cui si era messa Sonia, vedevo solo le due figure che si dimenavano. Mi scoprii l'occhio tappato dalla benda e guardai in quella direzione, proprio oltre l'ultima cuccetta ma accanto all'automatico.

Li vidi perfettamente, ombreggiati da un verde scintillante con sfumature azzurrine, e quasi mi sbiancai. Com'era possibile che un mio occhio riuscisse a vedere al buio? Sperai che non fosse diventato come quelli dei gatti perché, va bene uno sguardo felino, ma preso alla lettera spaventerebbe chiunque.

Una domanda alla volta.

A passo felpato camminai nella loro direzione.

Sonia urlava a più non posso in un pianto che sapeva di disperazione e furia cieca, il dottore le aveva aperto le gambe forzando la penetrazione. Le gambe della ragazza scalciavano e la scrivania dove stava avvenendo quello schifo ballava in un ritmo costante di colpi, sfregamenti e tonfi.

Sentivo le urla di Sonia sempre più forti man mano che mi avvicinavo al punto dove avrei colpito. Oh se l'avrei colpito, quel pezzo di merda.

Mi gustai ogni passo, il sorriso mi si allargò in volto e nella mia mente passarono le varie alternative. Chissà perché, nel momento in cui puoi fare del male a qualcuno che se l'è ampiamente meritato, proviamo brividi d'eccitazione.

Forse siamo tutti malvagi e non ce ne rendiamo conto? Forse ci diverte il dolore altrui?

Arrivai alle spalle del dottore, i miei passi si confusero con le sue spinte e i suoi grugniti. Lo sentii ansimare boccheggiando insulti verso la sua vittima. << Ti piace, eh? Ti piace puttana? Dillo che ti piace, dillo che sei una succhiacazzi ... dillo che faremo un viaggio! >>

Mi fermai come paralizzato dall'ultima frase.

Sonia piangeva a dirotto, cercava di non guardarlo stringendo i denti per far sì che quella tortura passasse più in fretta possibile.

Senza pensarci misi il piede d'appoggio in avanti e l'altro a dare lo slancio. Roteai il busto, lasciai il pugno destro semi aperto e preparai il colpo. Poi fischiai forte.

Il dottore si girò dandomi una bella panoramica della sua faccia rossa, le guance chiazzate e la fronte imperlata da goccioline di sudore. Stava piangendo.

Il pugno centrò il naso e lo fece esplodere come un petardo sanguinolento. Sentii la carne che si piegava tra osso e nocche, ascoltai il rantolo della sua bocca mentre perdeva l'equilibrio all'indietro, vidi il panico stagliarsi sulla sua faccia per poi essere sostituito dal dolore.

Il suo pene eretto mi fissava ancora sgocciolante, con quel fungo viscido che aveva in cima fisso verso la mia faccia.

Feci un passo, due, tre e poi calciai.

Il dottor Maurizio Greco ululò di dolore dopo l'impatto del mio piede nudo contro i suoi testicoli. La sensazione fu sgradevole, lo ammetto, però vederlo accasciarsi a terra boccheggiante mi fece un piacere immenso.

Sonia mi guardò spaventata.

Arrivato sopra il dottore gli tirai un calcio alla schiena. Quando si piegò in due ne approfittai per mettermi sopra di lui.

Ricominciai a colpire. 

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