TWICE - Like a storm

By KellyCherish

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Victoria Wilson, newyorkese di nascita vive la vita che tutte le ragazze della sua età vorrebbero. Figlia del... More

Cast
PROLOGO
MY HANDS ARE TIED - Scarlett
THERE ARE CLOUDS ON THE HORIZON ...
YOU CAN'T JUDHE A BOOK BY ITS COVER
WHEN IT RAINS IT POURS
THERE'S NO SUCH THING AS A FREE LUNCH
CLOSE YOUR EYES AND MAKE A WISH
PULL YOURSELF TOGETHER
NO PAIN, NO GAIN
ACTIONS SPEAK LOUDER THAN WORDS
WRAP YOUR HEAD AROUND SOMETHING
A PENNY FOR YOUR THOUGHTS
BARKING UP THE WRONG TREE
THAT SHIP HAS SAILED
LOVE IS A FRIENDSHIP SET ON FIRE
A LITTLE MAN
NO GOING BACK
Hang in there
IT'S UP TO YOU
ADD INSULT TO INJURY
HEARTWARMING
START FROM SCRATCH
YOUR GUESS IS AS GOOD AS MINE
THE BREAKPOINT
HE'S OFF HIS ROCKER

THAT'S THE LAST STRAW

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By KellyCherish

                                                                                         Amami quando lo merito meno, perché sarà quando ne avrò più bisogno.

Catullo.


VULKNAN'S POV

Anonimo - Nascimur uno modo, multis morimur. 

Nasciamo in un solo modo, ma moriamo in tanti. 


Avevo riletto quel messaggio un'infinità di volte sin dal primo bip del mio telefono. 

Avevamo appena varcato la barra elettrica del parcheggio del Kindy di Parigi, ma nel data base del mio cellulare era già archiviata una foto di noi due insieme, me e Viky illuminati dalle luci sfavillanti della Tour Eiffel. 

Lo avevo sottovalutato.

Era ovunque, anche dove credevo non potesse essere. 

E non sapevo se fosse più ossessionato da lei o da me.

Lei che mi guardava come se volesse di più. Le lunghe ciocche di capelli ramati a carezzarle il viso ed il labbro inferiore stretto in una dentatura perfetta. 

Gliela leggevo negli occhi quella voglia di noi. 

Io ardevo per lei e lei bruciava per me.

Era stato così sin dal nostro primo incontro e sapevo che non sarebbe potuta svanire quella chimica connaturale che ci teneva ancorati come due magneti inseparabili.

Anche se l'avessi persa non l'avrei mai lasciata andare veramente. 

Mi ero impegnato a salutarla freddamente. Dovevo andare via perché il sangue mi si era cristallizzato alla vista di quel messaggio anonimo. Gli ingranaggi cerebrali erano del tutto azzerati. 

Avevo bisogno di riflettere e lei era una dannata distrazione per i miei occhi.

Di una bellezza potente e catalizzante.

Mi ero rintanato nella mia stanza nella speranza di trovare una soluzione a quel problema che stava diventando ingovernabile come la città in cui vivevo. 

Metterla in pericolo era fuori discussione, motivo per cui non l'avrei coinvolta in quella storia. Così come lo era attendere la fine delle riprese per andarmene con lei e sua figlia in un luogo sperduto, molto lontano. 

Forse se ne sarebbe tornata a New York, magari rintanandosi tra le braccia di qualche altro uomo ed io mi sarei spezzato definitivamente.

Non ero riuscito a chiudere occhio per tutta la notte. Le immagini di lei a cavalcioni sulle mie cosce, vestita solo della sua pelle candida, alteravano le mie sinapsi. Ero un malato cronico, malato di lei. 

Se fossi stato a casa mia avrei riempito di pugni il sacco nero appeso nella camera degli ospiti ed avrei vinto io. Certo che avrei vinto io. L'avrei fatto a pezzi immaginando qualcun altro al suo posto, qualcuno che odiavo abbastanza da farmi perdere la ragione e commettere un reato. 

Diamine.

Stavo delirando. Dovevo uscire e fare una corsa di almeno dieci chilometri per smaltire l'ira che mi ribolliva nelle vene. Indossai la tuta nera felpata, sollevai il cappuccio sulla testa coprendomi metà fronte e scesi in strada. Erano appena le quattro del mattino, la piaggia battente iniziava ad indebolirsi lasciando spazio al chiarore della luna ed io non avevo idea di dove andare, così costeggiai la Senna e seguii le indicazioni per il museo d'Orsay. 

Parigi era ancora deserta e silente, solo rari sbuffi di vento a farmi compagnia.

L'aria gelida sul mio volto fu rigenerante. Mia madre diceva che si chiamasse effetto foresta quello procurato dall'esposizione del corpo all'aria fresca. Ci raccontava che aiutasse ad allontanare lo stress ed a scrollarsi di dosso i problemi. E forse avrebbe avuto gli stessi benefici su di me se la musica ridondante nelle mie orecchie non fosse stata improvvisamente interrotta dall'arrivo di una telefonata.

+ 41. Prefisso svizzero. 

Arrestai di colpo la mia corsa mattutina e trafelato, risposi. 

<< Signor Kurt, deve venire. Sua sorella ... >> la mia mente rifiutò di ascoltare tutto il resto. Si trattava di Leyla e quella fu l'unica cosa che riuscii a carpire prima che le mie tempie iniziassero a pulsare esageratamente ed il cuore a tamburellarmi la cassa toracica con un impeto mai provato prima. 

Le ore successive furono confuse e sconclusionate.

Ributtai tutto disordinatamente in valigia, lasciai l'hotel prima dell'alba e corsi all'aeroporto con la speranza di riuscire a partire il prima possibile. Persi il senno quando mi comunicarono che il primo volo per la svizzera sarebbe partito solo nel tardo pomeriggio, a meno che non avessi fatto un doppio scalo arrivando solo un'ora prima rispetto al viaggio diretto.

Leyla aveva bisogno di me ed io non ero con lei. 

Il fato si era sempre divertito a cogliermi impreparato. 

Ero furibondo con me stesso per averla lasciata a lottare da sola in un Paese troppo lontano da casa. Ero furioso per non averle detto quanto fosse bello averla nella mia vita quando la ritenevo troppo piccola ed impicciona per parlarle a cuore aperto. Ero devastato dal fatto di essere stato l'unico passeggero, di quel rottame che mio padre definiva macchina, ad essere uscito solo con qualche graffio da quell'impatto violento che mi aveva portato via tutto. 

Miracolosamente indenne,  dicevano i medici e lo ero, almeno in apparenza.

Limitarmi a sopravvivere era la punizione che mi meritavo per avercela fatta, per essere sopravvissuto. 

<< Vulkan resta calmo. Ho provato a contattare l'ospedale ma non sono un parente diretto e non possono darmi informazioni riservate >> Alp cercava di placare la mia frustrazione dall'altro capo del telefono, ma dalla sua voce traspariva più apprensione della mia. 

Spensi il cellulare. Ero intrattabile e non avevo voglia di sentire nessuno. 

Solo pochi minuti prima della partenza, la mia attenzione fu catalizzata da un negozietto dell'aeroporto e pensai che mai ci avrei fatto caso prima di allora e proprio quando chiamarono il mio imbarco decisi di sfidare la sorte ed entrai.

Pullulava di gente e le uniche tre casse aperte erano intasate. Non ce l'avrei mai fatta a salire su quell'aereo. 

<< Ultima chiamata per il volo TK1913 diretto a Zurigo. I passeggeri sono pregati di dirigersi rapidamente al Gate G28 per l'imbarco immediato >> 

Ancora quattro persone prima di me. 

Sei un folle Vulkan, sei senza speranze. 

E ricordo di aver scosso più volte la testa a quel pensiero.

Soli tredici minuti al decollo. 

Ancora due persone e poi sarebbe stato il mio turno.

" Non permetterti di perdere quel volo Vulkan, molla sto coso e corri al gate " era la mia vocina interiore a redarguirmi.

Smisero di chiamare il mio volo. Controllai l'orologio. Una sola persona e soli dodici minuti al decollo. 

<< Buon viaggio signora, prossimo cliente >> pronunciò la cassiera dinanzi a me.

Porsi la carta di credito picchiettando le dita sul bancone.

 Transazione effettuata.  

" Adesso corri Vulkan " ancora quella voce.

Corsi via tra la folla di passeggeri dribblando una moltitudine di bagagli ed oltrepassi il gate un istante prima della sua chiusura. Ancora affannato mi misi a sedere, sistemai la cintura di sicurezza e riposi la busta scintillante sotto il mio sedile. Non seppi se quel regalo sarebbe mai giunto al destinatario, ma abbozzai un sorriso per il sol fatto di aver pensato a lei. 




Quando raggiunsi il Sankt Ferdinand era buio pesto. Nuvole dense incupivano il cielo, celavano gli astri e minacciavano una bufera. Era abbastanza frequente da quelle parti nei mesi più freddi dell'anno e Febbraio lo era.  Il tassista mi abbandonò a pochi metri dall'ingresso principale della lussuosa clinica svizzera.  Con il silenzio tombale che le faceva da cornice incuteva quasi timore. Si trattava di una struttura mastodontica affacciata sul lago di Costanza e circondata da vasti giardini perfettamente curati. 

Mi caricai il borsone sulla spalla, attraversai le porte scorrevoli e salutai la signora in camice celeste dietro la scrivania. Lei terminò di annotare qualcosa sul suo taccuino in pelle, ripose la penna stilografica nel taschino macchiato del suo nome e, finalmente,  mi rivolse l'attenzione.

<< Sono il signor Kurt, sono qui per mia sorella >> 

Mi fece cenno di aspettare cosicché potesse dare un'occhiata al computer e poi mi raggiunse dall'altro lato della scrivania. 

La seguii fino agli ascensori panoramici e sussultai nel vedere quella figura familiare attendermi accanto una colonna. Alp era lì,  con gli occhi cerchiati ed il volto stravolto dalla stanchezza. Non mi aspettavo di incontrarlo, ma fu un sollievo sapere di non essere solo in quel momento.

Era incredibile come la mia tenacia riuscisse a sgretolarsi così facilmente a causa del mio amore per quei due esseri così diversi tra loro, ma così ugualmente importanti. E mi era spesso capitato di pensare a cosa ne sarebbe stato di me e della mia scarsa tolleranza se quelle due si fossero conosciute. Ero certo che si sarebbero divertite a darmi il tormento.

L'infermiera ci condusse al quarto piano, quello adibito alla terapia intensiva e si fece largo per farci avanzare verso una sala d'aspetto fredda, asettica e vuota.

<< Il dottor Meier arriverà a momenti, potete aspettarlo qui >>  disse prima di dileguarsi dentro una stanza riservata al personale medico.

Alp si sollevò dalla sedia e mi raggiunse accanto al distributore automatico. 

<< vuoi un caffè ? >> gli chiesi girando il cucchiaino in plastica nel bicchierino caldo che stringevo tra le mani. Non lo avevo neanche zuccherato, ma quel movimento mi aiutava a mantenere i nervi saldi. Scosse la testa e mi si parò d'avanti con le spalle ricurve e stanche  di chi aveva dovuto cambiare tutti i suoi piani per salire su un aereo e raggiungere me in una clinica privata che appariva più un grande hotel di lusso. 

Mi ero sempre chiesto a cosa servisse tutto quello sfarzo in un contesto così funesto. Il Sankt Ferdinand era il luogo in cui ti recavi se decidevi di non aver più motivo di vivere. Se volevi farla finita.  Era stata la prima clinica europea a praticare l'eutanasia e per questo era diventata famosa in tutto il mondo ed anche decisamente costosa. Vantava i migliori professionisti del continente e macchinari all'avanguardia che gli altri ospedali non potevano minimamente permettersi. Eppure rimaneva un edificio dal quale era difficile uscire sulle proprie gambe. Vivi,  ovviamente.

<< Signor Kurt >>  inespressivo e imperturbabile, il dottor Meier ci raggiunse con una cartellina bianca tra le mani. Erano trascorsi sette anni dal nostro primo incontro, qualche mese dall'ultimo, ma lui non era invecchiato di una virgola. Quell'uomo aveva sicuramente fatto un patto col diavolo per essere così in forma alla sua età. Strinse con vigore, prima la mia mano e poi quella di Alp. 

<< Mi dispiace averla fatta venir fin qui, ma avevo bisogno di spiegarle quello che è successo la scorsa notte >> esordì passandosi una mano tra i capelli brizzolati. 

Era agitazione quella che percepivo?

Nell'arco di qualche minuto il suo stato d'animo era mutato radicalmente. 

<< Vede >> si prese un attimo prima di proseguire. Stava cercando le parole giuste per dirmi ciò che andava detto, ciò che dovevo sapere. A quel punto,  Alp mostrò una certa impazienza e si intromise incitandolo a proseguire. Accigliato gli diede ascolto e parlò.

<< Non sappiamo come sia potuto accadere, ma il supporto vitale si è interrotto per una decina di minuti e sua sorella è andata in arresto cardiaco. Abbiamo provato a rianimarla per più di venti minuti e ce l'abbiamo fatta, ma ormai il quadro clinico è compromesso. Se prima le percentuali di ripresa fossero basse, adesso sono nulle. Se è pronto, se se la sente,  può staccare la spina. E' una decisione che spetta solo a lei >> 

Calò il silenzio.

Era difficile lasciarmi senza parole, perché trovavo sempre il modo di affrontare le questioni anche quelle più difficili. Sapevo che le condizioni di Leyla fossero precarie, ogni giorno vissuto in coma equivaleva ad un giorno in meno per sperare di rivedere i suoi bellissimi occhi verdi. Ma io non ero pronto a quel tipo di dolore.

<< Com'è possibile che un supporto vitale si interrompa mi scusi? >> fu Alp a parlare al mio posto e dal tono di voce dedussi fosse particolarmente nervoso. 

<< Non lo sappiamo, non è mai accaduto in quasi 30 anni di servizio. Sono mortificato >>

<< Lei è mortificato? >> risi come un isterico.

Il dottor Meier indietreggiò, di poco, ma lo fece. 

<< Voglio parlare con il direttore >> sbraitai infischiandomene di lui e di tutto il resto. 

<< Si calmi, altrimenti mi costringe a chiamare la sicurezza >> respiravo a fatica. 

<< Il direttore non è in struttura a quest'ora. Dovrà attendere domani mattina se vuole parlare con lui. Ma neanche lui potrà aiutarla, purtroppo c'è stato un corto circuito e >> 

Mi schiaffeggiai il viso per ben due volte. Stavo sognando, non poteva essere vero.

A quel punto divenni furente.

<< Mi sta prendendo in giro dottor Meier? pensa che io sia uno stolto? >> l'avrei scaraventato contro il muro se Alp non mi avesse trattenuto dalle braccia. 

<< Non so che altro dirle signor Kurt, mi dispiace. Si prenda tutto il tempo che le serve per giungere ad una decisione, ma è giusto che sappia che per salvare sua sorella ci vorrebbe un miracolo >> concluse prima di girare i tacchi e tornarsene nel suo studio. 

Il portaombrelli in acciaio che scalciai  si schiantò violentemente contro una delle colonne in pietra provocando un rumore assordante.

Raggiunsi una delle tante poltrone in velluto dislocate nella sala d'attesa e mi accasciai su una di esse. Raccolsi la testa tra le mani raggomitolandomi su me stesso. 

Non mi ero mai sentito così, sconfitto.

L'immagine di una Lyela bambina apparve nei miei pensieri. Lei con le ginocchia sbucciate nel giardino della nostra piccola casa a Gebze, dopo una brutta caduta da una vecchia bicicletta che mio padre aveva aggiustato per lei per insegnarle a pedalare. 

<< Non prendermi in giro Vulkan >> mi rimbrottava mentre sghignazzavo.

<< E non startene lì impalato, vieni ad aiutarmi testone >> era così che mi chiamava quando le davo filo da torcere. 

Come avrei potuto staccare quella spina? Leyla era ancora la bambina con le ginocchia doloranti di cui mi sarei dovuto prendere cura. 

<< Vulkan devi lasciarla andare >> fu Alp a parlare ed io mi chiesi che cosa avrebbe risposto lei se gli avesse sentito pronunciare quelle parole. Leyla ed Alp erano cane e gatto, si punzecchiavano continuamente, ma in realtà, pensavo che mia sorella avesse una cotta per lui. 

<< Come potrei farle questo Alp? non potrei mai uccidere mia sorella >> dissi sconvolto. 

<< Tu pensi che quella possa definirsi vita Vulkan? Ci illudiamo che lo sia, ma non lo è. Non prendersi la responsabilità di staccare quella spina non la riporterà in vita, ma la costringerà in quel letto non si sa ancora per quanto tempo >> e lo disse strillando come se in quell'ospedale ci fossimo solo noi. 

Dovevo contattare il dottor Ozkan. L'amico di mio padre che si era preso cura di me sin da quando ero un neonato dal vomitino facile. Recuperai il mio cellulare dalla tasca interna del cappotto, lo riaccesi ed una cascata di messaggi presero ad offuscare le tre lune sullo sfondo.

Dove sei? 

Si può sapere che fine hai fatto?

Sei un stronzo. 

Vaffanculo Vulkan.

Erano quasi tutti suoi, di Victoria.

Serrai gli occhi e martoriai la mia fronte, sfregandola. 

<< Era preoccupatissima per te  >> disse Alp accovacciandosi tra le mie gambe. 

Ero stato un egoista a comportarmi in quel modo. Avrei dovuto avvisarla prima di andar via, ma sapevo che avrebbe insistito per accompagnarmi ed io non volevo caricarla del mio dolore. Ma lei si meritava una spiegazione, dovevo scusarmi per essere sparito in quel modo.

E proprio quando mi decisi a farlo, mentre digitavo un messaggio di scuse da inviarle, fui io a riceverne uno ed anche piuttosto chiaro.  

Uroboro e stesso mittente.

Anonimo:  Dictum factum.

Detto fatto. 

Rilessi rapidamente il messaggio ricevuto la notte precedente e trasalii.

" Nasciamo in un solo modo, ma moriamo in molti".

Moriamo in molti...

Erano stati loro a fare del male a mia sorella. 

Lanciai un urlo animalesco, disumano, straziante. 

Urlai tutta la rabbia e la frustrazione repressa. Diedi voce a tutto il mio martirio. Il mio struggimento si sprigionò in tutta la sua potenza ed invase ogni anfratto di quella fottuta clinica per ricchi  che mi avevano rovinato la vita. 

Mostrai ad Alp entrambi i messaggi ed aspettai che dicesse qualcosa, ma la sua reazione fu totalmente diversa dalla mia. La sua bocca non emise alcun suono, si schiuse per poi tornare serrata un istante dopo.

Era incredulità quella che traspariva dal suo volto.

Cominciò a percorrere il perimetro di quell'immensa sala d'aspetto con una celerità che mi provocò le vertigini. Non riuscivo a riflettere con lui così irrequieto.

<< Noi adesso diciamo tutto a Viky. Lei deve fermarlo Vulkan >> sentenziò.

<< Scordatelo >> lo zittii immediatamente.

Non potevo permettermi che lei si facesse carico dei miei problemi e soprattutto delle mie scelte. Ma soprattutto temevo di perderla, di perderla davvero. Di perdere il suo amore per me, quello che le vedevo brillare negli occhi quando mi guardava.

<< Tu hai paura >> affermò lui soffermandosi un attimo a guardarmi.

<< Hai paura >> ripetè.

Annuii.

Non gli avrei mentito, non a lui.

<< Sei folle a mettere in dubbio quel tipo di sentimento. Quella ragazza è innamorata persa di te Vulkan, da sempre >> mi scosse le scapole per costringermi a guardarlo dritto negli occhi.

<< No, no, no. Non esiste >> non potevo coinvolgerla, temevo che potessero fare del male anche a lei.

<< Mi dispiace Vulkan, ma per Leyla non c'è più niente da fare. Devi fartene una ragione. Sono passati sette anni, sette dannati anni e lei non ha mai mostrato segni di miglioramento. Lasciala andare e liberati da questo ricatto che ti sta distruggendo la vita. Io lo vedo che stai solo cercando di sopravvivere. Non farti questo. Se non scegli perderai Victoria, è questo che vuoi?  >> disse tutto d'un fiato, come se qualcuno potesse interromperlo da un momento all'altro.

<< Mi stai chiedendo di scegliere tra Viky e mia sorella Alp? >> non potevo. Erano gli unici amori della mia vita ed io non avrei potuto rinunciare a nessuna delle due. Erano le mie sole ragioni di vita, il motivo per cui ancora respiravo. 

<< Non si tratta di scegliere Vulkan. E' la vita che ha scelto per te, devi solo trovare il coraggio di lasciarla andare >> ed il suo tono pacato fece a pugni con la rabbia che sprigionarono i suoi occhi rossi e commossi.

<< Pensi che basterebbe lasciar andare Leyla per liberarmi di lui? Pensi che non troverebbe altri modi per ricattarmi o minacciarmi? Troverà sempre il modo di tenermi lontano da lei Alp >> ammisi più a me stesso che a lui.

<< Troverete un modo, insieme >> 

Furono le sue le ultime parole che udii in quella clinica, perché recuperai in fretta il mio borsone ed andai via. Non sarei rimasto un minuto in più lì dentro.

Ma se credeva di avermi convinto a scegliere si sbagliava di grosso, perché non l'avrei fatto. 

Io non avrei messo fine alla vita di mia sorella. Il suo cuore aveva ripreso a battere dopo venti minuti di buio e quello bastava a farmi sperare che lei stesse ancora lottando per restare in vita.

L'avrei riportata a casa attaccata a dei macchinari, ma Leyla sarebbe tornata viva ad Istanbul. 

Il giorno dopo sbrigaii le pratiche per il suo  trasferimento ed appena atterrati ad Istanbul scortai l'ambulanza che la trasportò fino all'ospedale centrale della città. 

Lei non poteva vederlo, ma in cuore mio speravo che lo sentisse. 

Che sentisse di essere tornata a casa e che io fossi accanto a lei. 








Le ultime due settimane erano state le più difficili, non che avessi avuto una vita facile prima di fare carriera nel mondo dello spettacolo. Ero cresciuto tra le strade dissestate di campagna, in una famiglia di commercianti di spezie che il più delle volte si cibava di tozze di pane duro e zuppa di pollo fredda. 

Ma non riuscivo a ricordare un solo giorno in cui mio padre fosse tornato a casa arrabbiato o di aver beccato mia madre triste. Penso fosse quello il segreto della nostra felicità, noi quattro riuniti nella nostra piccola cucina che fungeva anche da camera da letto, a raccontarci come fosse andata la nostra giornata.

Dopo l'incidente della mia famiglia fui affidato ad un lontano cugino di mio padre e mi trasferii ad Istanbul. Fu lui a spingermi a fare cinema, diceva che avessi  i lineamenti raffinati di mia madre e la sfrontatezza di mio padre. Gli altri pochi familiari che mi erano rimasti vivevano quasi tutti in America ed in altri Paesi europei e lasciare la Turchia era fuori discussione. Non mi sarei allontanato da mia sorella.

I miei genitori avevano lasciato pochi risparmi ed avevo deciso di tenerli da parte per Leyla nel caso in cui fosse riuscita ad alzarsi da quel letto di ospedale.

Vincere un'inaspettata borsa di studio mi aveva permesso di studiare recitazione in una delle migliori scuole della città. Il poco tempo libero lo dedicavo a lavare i piatti in un ristorante fatiscente nella periferia della città. 

Quella era stata la mia vita per più di due anni,  poi era spuntata l'eredità di Alp e tutto era improvvisamente cambiato. Eravamo cresciuti insieme vivendo in due case confinanti. A soli due mesi di vita era stato abbandonato in una cesta in vimini sull'altare della chiesa di Paese ed il sagrestano e sua moglie l'avevano cresciuto come un figlio. Non ricordo un solo giorno della mia vita vissuto senza di lui. 

<< Non sono soldi miei, sono nostri. Tu sei mio fratello Vulkan >> ricordo ancora quelle parole pronunciate dopo una partitella di basket nel campetto del suo college.  Mi ero opposto con decisione, ma lui aveva aperto un conto comune e non aveva ammesso altre obiezioni. Grazie ad Alp ero riuscito a dedicarmi alla recitazione senza distrazioni, per poi scoprirmi più bravo di quanto sperassi.

Pur non condividendo un solo goccio di dna, Alp era la persona più vicina ad un fratello che avessi mai avuto. L'unico per cui valessi davvero e l'unico che contasse realmente per me, oltre a mia sorella.

C'eravamo noi tre e tutto il resto non contava.

Poi, in una tiepida giornata autunnale, avevo conosciuto lei.

Victoria aveva tracciato la linea di confine tra il mio prima ed il mio dopo.

Ero salito su quella terrazza panoramica come  il ragazzo incazzato col mondo che doveva inventarsi sempre qualcosa di nuovo per sconfiggere la noia, ma proprio su quella terrazza avevo scoperto di poter volere qualcosa in più.

Lei non mi aveva solo sentito, Victoria aveva avuto la pazienza di ascoltarmi. Si era lasciata affascinare dalle mie strane teorie sulla luna ed io mi ero imbambolato ad ammirare il suo sguardo prepotente e sognante allo stesso tempo.

Una personalità più scintillante della luna, che come essa se ne stava in disparte a farsi ammirare senza mai lasciarsi avvicinare troppo.

Un fiore calpestato da chi, invece,  avrebbe dovuto custodire la purezza del suo animo fanciullesco.

Lei, nata peonia e trasformatasi in rosa ricolma di aculei solo per proteggersi dalla crudeltà della vita.

Fragile, ma fortissima. 

Non mi ero mai lasciato intimidire dalle sue spine, le avevo lasciate lì a ricordarmi quanto volessi prendermi cura di lei. 

L'avrei innaffiato ogni giorno quel fiore se fosse stato ancora mio e forse un giorno si sarebbe lasciata andare risbocciando peonia, la rosa senza spine.


<< Oh cazzo, Vulkan >> quando Alp imprecava in quel modo roteavo gli occhi al cielo perché sapevo stesse per dire una cazzata. 

<< Che altro c'è ? >> chiesi entrando nella fumeria del mio vecchio amico Umut.

Le riprese erano state interrotte a causa della mia assenza e quella sera c'era il Galatasaray, per cui Deniz era allo stadio ed a noi fu concesso di vedere la partita al Cachimba. Era il luogo di ritrovo più vicino alle riprese ed anche il più famoso della città. 

<< Non ti girare >> un cattivo consiglio per chi come me faceva sempre il contrario di quello che gli veniva detto. Quindi, mi voltai e la vidi appollaiata su un dei tappeti persiani del locale tra due grossi cuscini a farle da poggiamani. La vidi ridere con quello che mi parve un bravo ragazzo e mi sentii quasi sollevato nel vederla così felice.

Temevo che quei cinque anni trascorsi lontani le avessero lasciato più segni di quanti potessi scorgerne, perché non era più la ragazzina indifesa che copriva le labbra per nascondere un sorriso o che giocava con le maniche delle sue felpe quando era agitata.

Di certo,  non era più la ragazzina pudica che avevo conosciuto, quella che nascondeva il volto ogni qualvolta la mia faccia finiva tra le sue cosce o che mi chiedeva di spegnere la luce prima che la denudassi dei vestiti.

Victoria era diventata sfacciata ed impertinente ed io avrei potuto perdere del tutto la testa per quella nuova versione di lei.

Una danza di fuoco attraverso la notte, questo era diventata Victoria Wilson.

Se ne stava lì a sorridere a qualcun altro fingendo di non avermi visto entrare, quella volpona. 


<< Ehi dea >> implorai le divinità di donarmi tutta la pazienza di cui non disponevo. 

Vidi Baris avvicinarsi a lei ed invitarla  ad accomodarsi sul nostro tappeto. 

Cercai di leggerle il labiale, ma era troppo distante da me per poterci riuscire. 

Riuscii a scorgere solo le sue mani strette a pugno lungo i fianchi, chiaro segnale della sua intolleranza a quell'avvocato del cazzo.

L'aveva quasi strattonata per metterla a sedere al suo fianco, l'avevo visto benissimo quel movimento iracondo che aveva compiuto intorno al braccio di lei.  Ma  dovevo rimanere calmo per la sua sicurezza. Baris alcune volte era più imprevedibile di un temporale in piena estate e  lo sapevamo tutti.

Alp strinse la mia mano intimandomi di restare calmo, ma con Baris in modalità cane da caccia non potevo abbassare la guardia.

I minuti successivi misero a dura prova il mio raziocinio. Baris la provocava avvicinandosi a lei oltre il minimo consentito e già per quello avrei dovuto ribaltare il locale. 

Alp: pensa alle conseguenze. La metteresti in pericolo

La sua diplomazia mi mandava in poltiglia il cervello a volte.

La vidi fronteggiare le offese ignobili di Pinar con una tale vivacità intellettiva da renderla più affascinante di quanto già non lo fosse.

Quando si sollevò dal tappeto,  dopo l'invito di Baris a Goreme,  sperai che riuscisse a tornarsene a casa sana e salva, ma lei prese la decisione sbagliata. Corse verso il retro del locale, quel locale che Baris conosceva talmente bene da poterlo percorrere ad occhi chiusi ed io capii che si sarebbe messa in pericolo. Serrai gli occhi verso Scarlett costringendola a seguirla per non lasciarla sola. Quando mi voltai, Baris non era già più lì e sapere esattamente dove fosse provocò l'irrigidimento di tutti i miei muscoli.

Scarlett fu distratta da quel ragazzo con cui si stava intrattenendo Victoria prima del nostro arrivo. Perse tempo, dei minuti preziosi per evitare il peggio. 

Quando Scarlett tornò nella sala principale le lessi il terrore negli occhi, lo stesso che avevo nascosto fino a quel momento. Lasciai il tavolo, seguito da Alp e corsi a cercarla. 

<< Sono andati in quella direzione >> disse lo chef indicandoci una delle due uscite alle sue spalle. 

Giungemmo nell'atrio del palazzo che ospitava il ristorante e ci dividemmo. Io corsi in strada, Alp e Scarlett verso il cortile sul retro. 

<< Non ci sono >> strillò lei correndomi incontro. 

Tornammo in strada tutti insieme e ci separammo ancora. Raggiunsi l'ingresso principale dall'esterno, la Porsche di Baris era ancora lì, quindi dedussi che lui fosse ancora nel palazzo. 

<< Vediamo sul terrazzo >> urlai ai miei amici affannati sul marciapiede opposto al mio. 

Le prime rampe di scale soffocarono sotto le mie agili falcate. Ancora sette piani a separarmi dall'ultimo e, a quel punto,  sperai con tutto il mio cuore di non trovarlo lì con lei.

Perché giurai a me stesso che se le avesse fatto del male io l'avrei ucciso. 

<< Non piangere cazzo >> fu quell'imprecazione riecheggiante nella tromba delle scale a farmi sobbalzare. 

Alp ordinò a Baris di far ripartire l'ascensore ed io tornai al piano terra con la voglia di spaccargli la testa ed anche tutto il resto.

I seguenti,  furono gli istanti più lunghi della mia vita e se è vero che la vita non si misura in minuti, ma in attimi quelli bastarono per farmi capire che io l'avrei protetta sempre. 

Che l'amore che provavo per lei sarebbe bastato per entrambi. 

Che forse, se avessi dovuto davvero scegliere, io avrei scelto lei. 

Io avrei scelto sempre lei. 

Le porte metalliche si spalancarono e lei balzò fuori.

Era debole ed infreddolita. Sarebbe crollata al suolo se non l'avessi afferrata.

<< Ti odio >> sussurrò prima di svenire tra le mie braccia. 

Anche io la odiavo in quel momento.

La detestavo per non avermi dato retta quando le avevo detto di stare lontano da Baris e di non provocarlo. 

La detestavo per essere così dannatamente ingenua e genuina.

La detestavo perché averla tra le mie braccia non mi permetteva di uccidere quel figlio di puttana che si era permesso anche solo di sfiorarla con il pensiero. 

L'odiai, ma non glielo dissi. 

<< Ti ho trovata, io ti troverò sempre americana >> glielo sigillai sulle labbra quel giuramento per me solenne, poi abbassai il volto per osservarla meglio ed i miei occhi finirono sulla sua camicetta in seta che le avevo ammirato per tutta la sera. 

Quel pezzo di stoffa oltre ad essere troppo trasparente era anche sgualcito e sbottonato.

E mentre Alp cercava di allontanare l'avvocato dalla furia inarrestabile di Scarlett, le mie labbra pronunciarono la sua condanna. 

<< Sei morto Baris >> glielo gridai mentre mi dava le spalle per lasciare l'atrio del palazzo.

Come se niente fosse, lui uscì di scena.

Sguardo fiero e strafottente di chi non aveva niente da temere.

Si sbagliava di grosso. 

Avrebbe dovuto avere una paura fottuta, perché mi ero appena trasformato nel più feroce degli animali. 


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