E il tempo scivola via

By Maschera_di_fumo

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Premessa
Playlist
Dedica
Prologo
[...]
Capitolo 1
Capitolo 2
Capitolo 3
Capitolo 4
Capitolo 5
Capitolo 6
Capitolo 7
Capitolo 8
Capitolo 9
Capitolo 10
Capitolo 11
Capitolo 12
Capitolo 13
Capitolo 14
Capitolo 15
Capitolo 16
Capitolo 17
Capitolo 18
Capitolo 19
Capitolo 20
Capitolo 21
Capitolo 22
Capitolo 23
Capitolo 24
Capitolo 25
Capitolo 26
Capitolo 27
Capitolo 28
Capitolo 29
Capitolo 30
Capitolo 31
Capitolo 32 (Prima parte)
Capitolo 32 (Seconda parte)
Capitolo 33 (Prima parte)
Capitolo 33 (Seconda parte)
Capitolo 34 (Prima parte)
Capitolo 34 (Seconda parte)
Capitolo 36 (Prima parte)
Capitolo 36 (Seconda parte)
[...]
Capitolo 37
Capitolo 38
Capitolo 39
Capitolo 40
[...]
Epilogo

Capitolo 35

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By Maschera_di_fumo

I rumori dalla cucina rimbombavano nel silenzio della stanza. Victor, seduto sul letto, fissava la schermo del telefono ormai da diversi minuti.

Parliamo, per favore.

Da giorni non faceva altro che leggere e rileggere, fino allo sfinimento, fino ad imparare a memoria ogni singola lettera, quell’ultimo messaggio che gli aveva inviato Thomas. Le parole di Duke non facevano altro che ripetersi come sussurri nelle orecchie: Anche tu dovresti chiedergliele, Victor.

Ma voleva davvero ascoltarlo? Permettergli di giustificarsi, di spiegarsi? Era certo che con Duke ed Elisabeth avesse parlato, i loro sguardi erano diversi. Quest’ultima, aveva preso a salutarlo ogni mattina con un sorriso, mentre Duke sembrava turbato, appesantito. Il suo sguardo non era più leggero e sereno come prima, soprattutto quando lo incrociava nei corridoi. Avrebbe tanto voluto sapere cosa avesse detto loro.

«Testa di rapa è pronta la cena!» gridò Charlie, dalla cucina.

«Arrivo» sussurrò, a sé stesso. Lo zio avrebbe potuto sentirlo solo se avesse avuto un super udito. Spense lo schermo del cellulare, fece un respiro profondo e si alzò lentamente. Non aveva fame, non aveva alcuna voglia di forzarsi per l’ennesima volta per passare la notte in bianco a rigettare la cena nel water. Afferrò il berretto e lo indossò mentre si dirigeva in cucina trascinando i piedi.

«Sembri un criminale che si dirige al patibolo», lo punzecchiò lo zio con un sopracciglio alzato ed un sorrisetto furbo in volto. Aveva una mano poggiata sullo schienale della sedia, la tavola già apparecchiata per due persone, uno di fronte all’altro.

Il teppista sbuffò un sorriso, «E tu il boia con una crisi di mezza età». Faceva sempre più fatica ad utilizzare il sarcasmo per mascherare il suo malessere, si sentiva sempre più debole. Gli attacchi di tosse, per quanto sporadici, erano tornati a macchiarsi di rosso. Gli si sedette di fronte poggiando il telefono sul tavolo, sentendo gli occhi attenti dell’uomo perennemente addosso. Tenne il capo chino, evitando di incrociare il suo sguardo. Sapeva che questo suo comportamento lo stava facendo preoccupare, poté percepirlo dal suo lungo sospiro prima di servire e sedersi a tavola.

«Il boia non fa minacce, io si.» Osservò il nipote spostare controvoglia il cibo nel piatto e sbuffare.

A Victor saliva la nausea ogni volta che vedeva il cibo nel piatto dinanzi a sé. Lo fissava intensamente. Intatto. Inforcò una patatina e se la portò lentamente alla bocca, come se attendesse che l'uomo davanti a sé cambiasse idea all’ultimo momento e gli dicesse che non era costretto a cenare. Il silenzio che ne seguì si proteste per diversi minuti. «Vecchio, ti stai ricordando della felicità?» provò a chiedere, di punto in bianco. Ultimamente non sopportava i silenzi, gli ricordavano con prepotenza i corridoi degli ospedali e le ultime notti insonne. Gli ricordava l'appartamento vuoto prima che lo zio si trasferisse.

«Ci sto provando, ma è difficile.» oltre alla perdita di Leena, doveva affrontare anche quella recente di Hanna. Se per cercare di superare la mancanza dell’unica donna che aveva amato era fuggito in un’altra città, con la perdita di sua sorella non poteva farlo, non che scappare fosse servito ad evitargli il dolore. Ogni volta che guardava Victor, pensava a quanto gli somigliasse e a quanto la vita fosse ingiusta per far affrontare tutto questo ad un ragazzo che avrebbe solo dovuto iniziare a fare le sue prime esperienze, a vivere la sua adolescenza ed incamminarsi verso l'età adulta. Clark provava rabbia ogni volta che lo guardava vivere lo stesso calvario di Hanna prima di morire, verso chi fosse indirizzata, però, non lo sapeva. L'unica cosa che poteva fare era aiutarlo, nonostante quel testone cercasse di fare tutto da solo. «Invece tu hai lo sguardo di chi crede di non meritarla, la felicità.»

«La felicità può essere un atto egoistico?» sollevò gli occhi sul Charlie che si era fermato a fissarlo. Aveva toccato un tasto dolente?

«Dipende», la voce risultò più roca, titubante. «Non nel tuo caso, se è questo che stai pensando.» Bevve un sorso d’acqua per poi ricominciare a mangiare. Voleva aggiungere che a volte bisognava essere egoisti, che bisognava afferrarla la felicità senza alcun senso di colpa, ma morirono in gola. Dirlo ad alta voce avrebbe significato dirlo anche a sé stesso. Eppure, stava cercando di andare avanti e per farlo avrebbe dovuto ricominciare dal suo passato. «Sai, sono andato a trovare Bob», lo informò prima di prendere un boccone, per temporeggiare. «Ed ho incontrato quel cazzon— Thomas.» si corresse all'ultimo.

«Stavi per chiamarlo “cazzone”», sogghignò divertito.

«Ti stai concentrando sulla parte sbagliata, Testone

Vick sospirò lasciandosi andare sullo schienale della sedia. «Ho parlato con Elisabeth e Duke, qualche giorno fa. So che chiede di me. » Sostenne il suo sguardo, lo distolse quando lo schermo del telefono si illuminò e il suono della notifica si perse nell’aria. Era lui. Non lo aveva salvato in rubrica come “Papà” o “Padre” e nemmeno con qualche epiteto offensivo e poco carino come “Stronzo bastardo”. Sullo schermo apparve semplicemente il suo nome: Thomas Price. Era uno dei tanti muri che aveva eretto contro quell’uomo, aveva lasciato che la rabbia travestita da menefreghismo lo governasse. Deglutì sonoramente, addocchiò la figura di Charlie e fece finta di niente, ricominciando a far finta di mangiare. Erano giorni che non si faceva sentire, pensava si fosse arreso. Provava sentimenti contrastanti di cui non riusciva a venirne a capo, come se fosse dinanzi ad un groviglio disordinato di fili e ogni volta che cercava di sbrogliarlo, s’imbatteva in un nodo impossibile da sciogliere.

«Parli del diavolo…» Clark non aveva letto il nome impresso sul dispositivo, aveva semplicemente tratto le sue conclusioni dall'espressione imperscrutabile del nipote.

Il teppista iniziò a guardarsi attorno in modo cospiratorio, come se non volesse farsi sentire da orecchie indiscrete, nonostante fossero soli, si sporse in avanti e bisbigliò: «Lo abbiamo nominato troppe volte, lui lo sente. Se continuiamo ce lo ritroviamo sotto casa e dovremmo chiamare la polizia dicendo che c'è un barbone molestatore che aspetta solo che usciamo.»

«Arrivati a questo punto, non riesco più a capire se sei sarcastico o meno.» sollevò un sopracciglio e lo squadrò in cerca di conferme.

In tutta risposta il ragazzo sollevò un lembo della bocca in un ghigno flebile ma divertito, si strinse nelle spalle e prese un boccone. «Mi stavi raccontando che sei andato dal signor Harden. Come sta?»

«Non provare a cambiare discorso, Victor.»

Sbuffò. «Cosa vuoi che faccia?» sibilò tra l'irritazione e la stanchezza.

«Vorrei solo che facessi ciò che ritieni ti faccia stare bene, ma dovresti prendere una decisione.»

«Perché non mi rimane più tempo?»

«Non dirlo nemmeno per scherzo, hai tutta la vita davanti a te e ne sono più che convinto. Te lo dico perché il tempo è prezioso e non bisogna sprecarlo rimanendo fermi ad accumulare rimpianti.» disse prendendosi implicitamente come esempio. «Perché altrimenti diventerai un vecchio con una crisi di mezz’età che non farà altro altro che domandarsi “E se…?“, a ripensare agli errori della propria vita, a vivere di rimpianti e concentrarsi sul presente, l’unico che possiamo cambiare. Quando tuo nipote ti ricorderà di farlo.»

Vick rimase in silenzio ad osservarlo, deglutì un paio di volte per cercare di mandare giù il nodo in gola. Battè lentamente le palpebre mentre gli occhi diventavano lucidi. «Stai parlando di te.» Non sapeva perché quelle parole lo avessero destabilizzato così tanto, ma sapeva che davanti a lui aveva un uomo che stava affrontando da anni la perdita, la sofferenza, il vuoto. Era come se una parte di sé gli ricordasse che lui, un vecchio con una crisi di mezz’età, non ci sarebbe mai diventato. Come se la speranza di quell’uomo lo consolasse ma allo stesso tempo lo ferisse. Si sentì egoista a pensare a sé mentre Charlie stava cercando di aiutarlo.

«Si» rispose, ben consapevole che non fosse una domanda.

«Pensi di aver sprecato la tua vita.» Un senso di amarezza si posizionò sulla bocca dello stomaco.

«Si.»

Boccheggiò, incapace di ribattere in alcun modo. Non poteva né confermare né smentire. Che diritto aveva lui di giudicare la vita altrui? Era solo un ragazzo che la vita si era divertita a prenderlo a bastonate. «Ma…» provò a parlare ma la voce s’incrinò, «Non è mai troppo tardi.» Quella era la sua ultima occasione per far vivere ad un uomo l'età che lui non avrebbe mai vissuto. Quella era una delle sue ultime occasioni per alleggerirlo un po'. Sarebbe bastato?

«Lo stai dicendo a me o lo stai ricordando a te?»

«Non lo so», ammise, «Forse ad entrambi.»

Charlie annuì perso nei suoi pensieri. «Quindi? Cosa vuoi fare?» riferendosi a Thomas. Voleva evitare che il dolore di quelle cicatrici rimaste sulla sua pelle lo accecasse com’era successo a lui.

«Credi che quel cazzone meriti di spiegarsi?»

«No, ma tu meriti una spiegazione, se esiste. Valida o meno starà a te deciderlo.»

Anche tu dovresti chiedergliele, Victor. Gli ricordò la voce di Duke nella sua testa. Un sorriso stizzito tirò le sue labbra mentre poggiava il gomito sul tavolo per appoggiare la guancia sul palmo della mano. Sembrava si fossero tutti messi d'accordo.

§

Voleva davvero ascoltare le giustificazioni di un uomo che si era ricordato di lui solo quando era venuto a conoscenza del cancro? Era uno dei suoi inutili tentativi di alleggerirsi la coscienza, di pulirsi dai sensi di colpa. Victor strinse la presa sul telefono fino a far sbiancare le nocche. La conversazione con lo zio lo aveva lasciato turbato e nervoso. Appena varcò la soglia della propria camera, sfilò velocemente il berretto dalla testa e lo buttò con rabbia sul letto.

«Si ricorda di fare il padre solo adesso?!» sibilò frustrato chiudendosi la porta alle spalle con veemenza. Si ricordò che non si era scordato di fare il padre, né di esserlo, perché Duke ed Elisabeth erano cresciuti con una figura paterna presente. Sorrise ironico, l'amarezza prese il posto della rabbia e la consapevolezza di non poter cambiare il passato gli diede uno schiaffo pulito, netto. Poggiò il telefono sulla scrivania e si sedette sulla sedia. Non aveva letto l’ultimo messaggio, non ne aveva avuto il coraggio, questa volta. Come se avesse timore delle proprie reazioni, era arrivato al limite. Strofinò le mani sulle coscie mentre faceva molleggiare velocemente una gamba. Gonfiò le guance e con timore riprese il cellulare.

“Dammi una possibilità, anche se non la merito. Per favore, Victor. Parliamo.”

Rilesse il messaggio un paio di volte, ogni parola scandita lentamente nella sua testa. Aveva il diritto di sentire le sue spiegazioni? Non lo sapeva, ma forse lui aveva il dovere di ascoltare, ricevere, la sua rabbia. Si sarebbe sentito più leggero? D'istinto lo chiamò.

Gli squilli sembravano interminabili, poi quella voce familiare ed estranea allo stesso tempo prese il loro posto. «Victor.» rispose con tono incerto, sembrava fosse una domanda. Una cosa era certa, Thomas non si aspettava una chiamata.

Il figlio sospirò poggiando la fronte sulla scrivania. Aveva chiamato lui, doveva dire qualcosa. «Come hai avuto il mio numero di telefono?» Non era quello che voleva chiedergli.

«Ha importanza?»

«Arrivati a questo punto, non credo.» Non sapeva cosa dirgli, forse non ci aveva riflettuto abbastanza. Molte volte aveva immaginato di urlargli contro, ma appena l’uomo aveva risposto, le parole piene di risentimento che voleva rivolgergli si erano dissolte.

«Come stai?» azzardò a chiedergli, dopo minuti di silenzio imbarazzante.

«Come uno che ha il cancro ai polmoni» rispose stizzito. Non riusciva ad essere gentile con lui. Perché lo aveva chiamato? Che gli era passato per la testa? Non era da lui perdere il controllo in quel modo. «Nei messaggi mi hai chiesto di volermi parlare, ma oltre ad insultarti, io non ho nulla da dirti.» si tirò sù lasciandosi andare sullo schienale, la sedia cigolò flebile.

«Non vuoi sapere? Non hai domande? Victor, io non voglio parlarti per pulirmi la coscienza. I miei errori non si dissolvono con una chiacchierata.»

«E allora perché ti sei ricordato solo adesso che sono tuo figlio?!» Senza rendersene conto aveva alzato la voce. Per impedirsi di piangere si strofinò velocemente gli occhi lucidi, come se qualcuno potesse vederlo.

«Non mi sono mai dimenticato che sei mio figlio. Non mi sono mai dimenticato di te.» Thomas sembrava calmo, deciso, come se ciò che avesse detto non ammettesse dubbi di alcun genere.

Di rimando Vick sbuffò una risatina nervosa e derisoria. «Non sembra.»

«Perché non ne parliamo di persona?»

«Non hai paura che possa prenderti a bastonate?» domandò con sarcasmo, o forse no. «O che possa ucciderti e seppellire il tuo corpo in una baita sperduta tra i monti?»

Con il sorriso nella voce: «Correrò il rischio.»

«Allora…» si morse il labbro inferiore e tastò la tasca dei jeans in cerca di un pacchetto di sigarette che non c'era. «Domani pomeriggio, all’Edera. Ti mando orario e indirizzo per messaggio.»

Thomas rimase in silenzio per qualche minuto. «Sembra un’ultimatum.»

Victor percepì dell’incertezza, come se ci fossero delle domande non dette incastrate tra i denti. Cosa voleva dirgli di così importante da farlo esitare e rinunciare? Sentì la porta della stanza aprirsi, si voltò ed incrociò lo sguardo di Charlie. «Lo è.»

«Domani, non darmi buca.»

«Non lo escludo.» rispose tenendo gli occhi fissi sullo zio. Chiuse la chiamata senza lasciargli il tempo di replicare. Inviò indirizzo ed orario e lanciò il telefono sul letto.

Clark poggiò la spalla sullo stipite della porta ed incrociò le braccia. Sollevò entrambe le sopracciglia, «Allora?»

«Domani vedrò quel pezzo di merda.» Fece per toccarsi il copricapo, ma solo in quel momento si ricordò che non lo indossava.

Charlie entrò in camera mentre Vick cercava il berretto per la stanza. «Pensavo ci sarebbe voluto più tempo», lo raccolse da terra e glielo porse.

«Tempo che non ho.» Lesto lo indossò. Nonostante lo avesse visto molte volte con la testa rasata, non riusciva ad abituarsi. Aveva paura di quello sguardo che gli ricordava perennemente che se si fosse specchiato, ci sarebbe stato il riflesso di uno sconosciuto ad attenderlo. Una mezza specie d’ombra del vecchio sé.

«Non dire stronzate, avevi già deciso.»

«Non ho deciso niente, l'ho chiamato perché ero stanco di ricevere i suoi messaggi.» Appoggiò il sedere sulla scrivania mettendo le braccia conserte.

«Potevi bloccarlo», si sedette sul letto e lo vide guardare ovunque tranne che lui. Sospirò, fece per parlare ma il nipote lo anticipò.

«Non lo so perché l'ho chiamato, okay? Volevo dirgli di smetterla di mandarmi quei messaggi, di chiedere di me a chiunque. Poi per chiedergli cosa avesse detto a Duke, poi per riversagli tutta la rabbia e rinfacciargli tutti quei momenti in cui lui non c'era e poi…» si passò le mani sul viso. «Ho pensato che mi sarei sentito più leggero.» sussurrò, come se avesse timore di ammetterlo soprattutto a sé stesso, «Per non avere rimpianti.»

«Non devi giustificarti con me. Se una cosa ti fa stare bene, falla! Ti farà sentire più leggero? Ben venga.»

«E se mi farà stare male?» si morse il labbro inferiore.

«È un rischio che fa parte del gioco della vita. È giusto avere paura, ma non farti bloccare, altrimenti ti dimentichi di vivere.»

«Questa dove l’hai letta? In un bigliettino uscito dai biscotti della fortuna?» ironizzò. Era la stessa cosa che aveva detto a Christopher in quel bagno a casa di Nick, lo sapeva, eppure non poteva evitare di aver paura del dolore.

Si alzò dal letto, «Non posso averlo pensato tutto da solo, Testa di rapa

«Andiamo, sii realista.» sollevò entrambe le sopracciglia per sottolineare l’idiozia detta.

Clark negò lentamente con un sorrisetto sul viso, poi si fece serio. «Devo accompagnarti, domani?»

«No, vado dopo le lezioni. Da solo.» puntualizzò. Cercò di apparire sicuro di sé, nonostante avesse il dubbio di essersi fatto trascinare dal risentimento verso Thomas.

Lo zio acconsentì senza protestare. Sarebbe intervenuto solo se quel cazzone avesse fatto un passo falso; Victor aveva già sofferto abbastanza per colpa dei suoi errori.

Il teppista lo vide uscire dalla stanza senza aggiungere altro e il nervosismo prese il sopravvento. Si sedette alla scrivania, il ginocchio aveva ricominciato a molleggiare e si aggiustò il berretto che continuava stranamente a spostarsi. Fissò il cassetto per alcuni minuti mordendosi l’interno della guancia. Un’idea lo aveva sfiorato da tempo, forse quello era il momento giusto, anche se il momento giusto non esisteva. Si decise ad aprirlo e ne estrasse dei semplici fogli bianchi. Nel silenzio della stanza, ma non della sua testa, si riempì i polmoni malati d'aria ed iniziò a scrivere.

§

Vick sostava davanti all’entrata dell’Edera, non aveva fatto altro che torturarsi il labbro inferiore, fino a farlo divenire rosso, e aggiustarsi il berretto, che non aveva nulla che non andava, per tutto il tragitto. Quello che non andava, era lui. Non faceva altro che domandarsi se avesse fatto la scelta giusta, se incontrare quell’uomo lo avrebbe alleggerito o il contrario. Aveva sentito per puro caso la versione di Hanna sull'accaduto, con lui non aveva mai voluto parlarne direttamente: quando era stato abbastanza grande da capire, gli aveva raccontato di Margaret, Duke ed Elisabeth senza aggiungere alcun tipo di dettaglio. Non aveva mai parlato male di loro e del padre in sua presenza, mai. Dubitava lo avesse fatto in sua assenza. Nonostante ciò, non era bastato ad impedire il rancore e la rabbia di un ragazzino invidioso degli altri, che un padre l'avevano.

Hanna però, nemmeno immaginava che lui fosse venuto a conoscenza di tutta la verità, molto prima, origliando per puro caso una conversazione tra lei e il dottor Barlow. Victor sapeva che loro due avevano una relazione, non era cieco, tantomeno stupido. Aveva notato gli sguardi che si scambiavano e il fatto che Mark avesse aumentato la frequenza in casa loro, non era passato inosservato. A quei tempi avevano una casa spaziosa, a due piani. La malattia di Hanna non aveva ancora bussato alla loro porta e Vick non era altro che un preadolescente con molta confusione in testa. Non dava peso a loro, Barlow rendeva sua madre felice e gli andava bene così.

Quel giorno, però, i loro discorsi sembravano più accesi e, dopo aver sentito nominare suo padre, il silenzio era sceso al piano inferiore. Bastò fermarsi sulle scale per capire che avevano abbassato di molto i toni. Non volevano farsi sentire.

Victor scese di qualche altro gradino, facendo attenzione a non far alcun rumore, incuriosito e allo stesso tempo ansioso. Non avrebbe saputo spiegare il perché, ma sentiva che se avesse ascoltato la loro conversazione, qualcosa in lui sarebbe cambiato irrimediabilmente.

«Thomas mi aveva detto che era stato una debolezza. Mi aveva promesso che non avrebbe fatto cazzate», si era giustificato Mark.

«Tu lo sapevi.» asserì Hanna con amarezza, ferita.

«Io volevo evitar—»

«Sarebbe successo comunque», lo interruppe, «È successo.» Ci furono alcuni minuti di silenzio, poi la donna prese un respiro profondo e continuò: «Non ha importanza se Thomas mi ha tradito con la sua segretaria e l'ha messa incinta. Ha messo incinta anche me. Mi dispiace che sia Victor a pagarne le conseguenze. È suo figlio quanto Duke, ma a Thomas sembra non importare.»

Vick sentì una goccia di sudore freddo scivolargli lungo la schiena, il respiro si fece pesante. Allargò e strinse ripetutamente le dita delle mani come se cercasse di afferrare l'aria. Un fischio acuto gli perforava le orecchie, impedendogli di continuare ad origliare. Sapeva che suo padre si era fatto una famiglia, ma non immaginava che avesse tradito sua madre, che avesse scelto Duke a lui. Era per questo che non si faceva mai vivo? Il lavoro era una scusa? Si sentì sbagliato come non si era mai sentito fino ad allora. Inferiore ad un fratello che non aveva mai incontrato. Gli occhi iniziarono a pizzicare, il mondo intorno a sé iniziava a perdere contorni, sempre più sfocato. Sbattè velocemente le palpebre e si morse il labbro per impedire alle lacrime di uscire. Risalì le scale, corse fino al bagno e si chiuse la porta alle spalle. Tirò sù con il naso ed incrociò il riflesso nel suo specchio. Le somiglianze con Thomas sembravano risaltare e divenire più evidenti solo in quel momento. I capelli biondi, le iridi azzurre… Lo odiò, si odiò. Non voleva somigliare a quell’uomo che di padre non aveva niente. Strofinò quasi con violenza le dita sugli occhi, non doveva piangere. Non si permise di farlo.

Solo qualche anno dopo prese la decisione di tingersi i capelli di un blu elettrico. Un sorriso triste solcò le labbra di Victor, al ricordo dell’espressione di stupore sul volto di Hanna, dopo averlo visto per la prima volta con i capelli colorati.

«Ti stanno bene, sono sicura farai strage di cuori!» affermò dopo che lo stupore aveva lasciato il posto ad un dolce sorriso. Hanna non sapeva la vera ragione dietro quel cambiamento e Victor era sicuro non ne fosse mai venuta a conoscenza.

Fece un respiro profondo, non doveva pensarci. Il ricordo di sua madre riaccendeva in lui un senso di vuoto che non sarebbe mai riuscito a colmare. Si fece coraggio ed entrò nel locale, c’era un’atmosfera calda e tranquilla, accogliente. Il profumo del caffè si mescolava con l’odore dei libri.

«Vick?» tentennò Danny, dietro al bancone con le sopracciglia aggrottate, stupito e confuso di vederlo lì. «Che ci fai qui?»

«È da un po' che non ci vediamo, Victor.» lo salutò invece Phil. In effetti era da quando era stato costretto a licenziarsi che non lo vedeva.

«Daniel, Phil» ricambiò il saluto con un cenno del capo, avvicinandosi al bancone. «È un bar, sono qui per prendere lezioni di nuoto.»

«Mi sembra ovvio», annuì Mcdaniel alzando gli occhi al cielo con un sorrisetto divertito. «Cosa ti servo?»

«Un caffè.» rispose osservandoli scambiarsi degli sguardi d'intesa. Era sicuro che c'era qualcosa di nuovo che gli sfuggiva, non che fossero affari suoi.

«Al locale manchi a tutti.» prese a raccontare Garrow, mentre versava un cucchiaino di zucchero nel suo tè.

Il teppista si trovò a sorridere nostalgico, aveva passato anni a lavorare in quel locale. Conosceva ogni angolo ed ogni dipendente. «Devo venirvi a trovare. Come sta il signor Harden?»

«Sempre chiuso nel suo ufficio, lo sento chiedere sempre di te al signor Clark.» ridacchiò, «Quando viene lui, l’ufficio silenzioso di Harden diventa rumoroso.»

«Tipico», ghignò. Gli sarebbe piaciuto vedere Bob, sempre serioso, riprendere Charlie per le sue battute di dubbio gusto. Lo faceva anche con lui, ma le sue erano divertenti. Anche suo padre era stato al locale, chissà se Phil lo aveva incrociato. Prese a guardarsi attorno in cerca del motivo per cui era lì. Che non fosse ancora arrivato? Gli aveva dato buca? Poi lo vide, seduto ad un tavolino. Si era già servito, una tazza fumante sostava di fianco al computer che sembrava avere tutta la sua attenzione. Di tanto in tanto si limitava a sorseggiare per poi ricominciare a scrivere chissà cosa.

«Ecco a te», esordì Danny, poggiando la tazza sul bancone.

Il teppista sussulto, come se il barista avesse fatto esplodere la sua bolla. «Daniel», afferrò il caffè senza distogliere lo sguardo da Thomas. «Ad un mio cenno con la mano procurati un bastone, una vanga ed una corda. Phil, tu pensa ad un alibi credibile e prenotami una baita nei boschi sotto falso nome.»

«È preoccupante che tu sia stato così accurato.» notò il cuoco.

«Aspetta, cosa?» domandò Mcdaniel nello stesso istante, confuso. «Perché?»

Ma era già troppo tardi, il teppista si era allontanato senza attendere alcun tipo di risposta, dirigendosi al tavolo con passo deciso. Si sedette senza salutarlo ed iniziò a bere in silenzio.

Il padre smise di scrivere, i loro occhi s’incrociarono solo un istante prima che il figlio lo distogliesse. «Victor.»

Vick non riusciva a guardarlo, gli sembrava strano sedere allo stesso tavolo di un uomo pressoché sconosciuto. Aveva passato pochi momenti con lui che con il tempo erano sbiaditi. Udì l’uomo sospirare, chiudere il portatile e toglierlo dal tavolo.

Tra loro gravò un silenzio imbarazzante e teso, fatto di sguardi che Victor cercava di evitare preferendo porre l’attenzione sulle Edere che facevano da cornice agli scaffali delle librerie o cercare delle eventuali crepe sul soffitto. «Allora…» iniziò Thomas sistemandosi sulla sedia. Prese tempo bevendo un sorso di tè. «La fidanzatina?»

«Sono gay.»

«Oh. Oooh» esclamò poi, come se avesse realmente compreso il significato della frase solo in quel preciso istante, trascinò la vocale. «Tua madre…»

«Mamma lo sapeva.» lo interruppe.

L'uomo annuì una volta sola. «Victor, perché hai scelto questo posto per incontrarci?» domandò preso dalla curiosità.

Il perché gli avesse chiesto di vedersi proprio lì, non era ben chiaro nemmeno a lui. Forse inconsciamente voleva incontrare Thomas in un luogo neutro e scarno, se non del tutto privo, di ricordi. Se avesse scelto il suo appartamento, aveva paura che potesse carpire informazioni di qualche tipo su di lui, semplicemente guardando le pareti scarne del salotto. Erano delle irrealistiche ed inutili paranoie, ne era ben consapevole, ma non era riuscito ad impedir loro di influenzarlo nella decisione. Avrebbe potuto scegliere il locale dove lavorava, ma lì c’erano troppe persone che conoscevano entrambi. Si limitò a rispondere con un’alzata di spalle.

«Victor» sospirò. Sapeva che non sarebbe stato facile parlare con suo figlio, ma non si aspettava quel muro alto e fitto che aveva innalzato.

«Volevi parlarmi, no? Parla. Io non ho nulla da dire ad un padre che non lo è mai stato.»

«Mi dispiace.»

«Ti dispiace» ripete con stizza. «Ti dispiace?» sbuffò con un sorriso sarcasticamente amaro mentre negava lentamente il capo. «Di cosa, esattamente? Per aver tradito mia madre o per esserti ricordato di me solo adesso che ho un cazzo di cancro ai polmoni?»

«Hanna ti ha raccontato tutto.»

«La mamma non mi ha raccontato niente, ho origliato quando ho sentito il tuo nome.» Vick non aveva mai fatto parola a nessuno di quel giorno, aveva continuato a far finta di non sapere. Dopo anni stava vuotando il sacco, stava vomitando tutta la sua rabbia, la sua frustrazione, la sua… Che senso aveva prendersela con lui? Il danno era fatto e Thomas aveva scelto. Prese un profondo respiro, guardò il soffitto cercando di tirare indietro le lacrime. «Perché?»

«A cosa ti riferisci, Victor?»

«Perché… Tutto. Perché hai tradito la mamma? Perché hai preferito Duke a me? Perché? Perché? Perché?» Si coprì il viso con le mani. «Merda», latrò con il nodo in gola che si faceva sempre più grande.

«Io, Charlie e Bob eravamo un trio sin dall'infanzia. Si può dire che conoscevo Hanna da sempre.» al ricordo di quei tempi passati, sereni e spensierati, sul suo volto spigoloso apparve un accenno di sorriso. «Ma ci siamo messi insieme solo al liceo e dopo il college ci siamo sposati. Qualcosa però non andava, quel rapporto tra me e Hanna era diventato un’abitudine, sentivo che i miei sentimenti nei suoi confronti erano cambiati. Non ci diedi molto peso, a quel tempo. Pensavo che fosse inevitabile in un rapporto duraturo.»

«E poi hai tradito la mamma.»

«E poi ho conosciuto Margaret, che mi ha smentito.» continuò carezzando distrattamente la ceramica della tazza. «Mi sono innamorato di lei e lo sono tuttora.» Si passò una mano tra i capelli, «Purtroppo l’ho capito troppo tardi.»

«E siamo arrivati io e Duke», ricordò con scherno.

«Appena ho saputo di Duke ho capito che amavo Margareth, che avrei passato la vita con lei e che mi sarei preso le mie responsabilità perciò lasciai Hanna. Solo dopo seppi di te.» Incrociò lo sguardo ferito di suo figlio, «Volevo prendermi cura di te, fare il padre, anche se io e Hanna non stavamo più insieme.»

«Peccato che tu ti sia dimenticato completamente di me.»

«Versavo i soldi per il mantenimento ogni mese e li verso tutt’ora. Volevo aiutare anche Hanna versandole una somma di denaro, ma me lo ha impedito.»

«Non ha mai utilizzato un centesimo.» ammise Victor. «Ma quando a mamma è stato diagnosticato il cancro e ha dovuto smettere di lavorare», abbassò il capo torturandosi le dita, «Li ho spesi, per lei. Per le cure, la Chemioterapia, le visite… Se lo avesse saputo non credo sarebbe stata d'accordo, ma con il mio stipendio da quindicenne apprendista non avrei mai potuto pagarle.»

«Non mi importa per cosa o per chi è stato speso quel denaro, mi rincuora sapere che inconsapevolmente vi ho aiutati in qualche modo.»

«Non basta a pulirti la coscienza.» sottolineò acido, «Il fatto che tu versassi i soldi del mantenimento non fa di te un padre. Non ci sei mai stato per me, sei pressoché uno sconosciuto con il mio stesso cognome a cui somiglio vagamente. Mi hai dato buca così tante volte quando ero piccolo, che nemmeno ricordo quelle rare volte in cui ti facevi vivo.»

«Per lavoro», si giustificò Thomas, come se bastasse. «Poi hai iniziato a darmi tu buca, ad evitarmi e odiarmi.»

«Perché ho sentito quella maledettissima conversazione!» sbottò prima di mordersi il labbro inferiore e cercare di mantenere il controllo. «Come pensi mi sia sentito quando ho saputo di Duke?!» Non riusciva più a trattenere le lacrime, le stesse che si erano affacciate quel giorno su quelle scale e che non aveva versato, ormai rigavano il suo volto scarno e pallido. Si sentì piccolo, debole, patetico. Provò vergogna nel farsi vedere in quello stato. Era stato un errore incontrarlo, si sentiva perfino più pesante. «Un errore, sono stato un cazzo di errore!» sibilò mentre tirava sù con il naso e cercava di asciugarsi velocemente il viso, come se ormai non fosse tardi per non farsi vedere. Si alzò velocemente, doveva chiudersi in bagno e riprendere il controllo di sé. Fece per lasciare il tavolo, ma si sentì afferrare per un braccio.

Thomas lo tirò a sé e lo avvolse in un abbraccio caldo, il primo in assoluto. Poggiò un palmo sulla sua nuca gabra e la carezzò lentamente con il pollice, mentre lo cingeva con l'altro braccio. «Non lo sei, Victor. Sono stato io a sbagliare, non metterti colpe che non hai. Non caricarti di un peso che non dovrebbe gravare su di te.»

Vick, con il volto premuto nell’incavo del collo, non riusciva a smettere di piangere. Ci provò con tutte le sue forze. Quell'abbraccio sapeva di nostalgia. Era strano, come si poteva provare nostalgia per una cosa mai vissuta? Lo aveva desiderato così tanto, quando era piccolo. Quando osservava gli altri bambini abbracciare i loro papà. Poi aveva smesso. «Vaffanculo», tirò sù con il naso, la voce ovattata. «Lasciami.»

«Non devi perdonarmi, non volevo parlarti per chiederti perdono o per pulirmi la coscienza, mi sentirò sempre in colpa per ciò che ho fatto.» il suo tono si fece più basso e pacato per non farsi udire dai clienti del bar. Era un momento solo loro, tra padre e figlio. «Voglio solo aiutarti, alleggerirti da quel peso di cui ti sei fatto carico tutto da solo per troppo tempo.»

«Ma cosa vuoi saperne tu di ciò che ho passato, della malattia della mamma, della mia…» Il suo corpo singhiozzante sembrava quasi scomparire, nonostante fosse alto quasi quanto Thomas.

«Per favore, lasciami fare il padre, figlio mio.» Non si sarebbe arreso all'ennesimo rifiuto questa volta, non avrebbe fatto lo stesso errore che li aveva definitivamente allontanati.

«Per il tempo che mi rimane», concluse la frase come se ormai fosse una verità quasi del tutto assoluta.

Il padre lo afferrò per le spalle e lo allontanò quanto bastava per poterlo guardare in faccia: teneva il capo leggermente chinato in avanti ed incavato tra le spalle, il viso paonazzo per il pianto, gli occhi rossi e le guance rigate da lacrime salate. «Non dire stronzate!»

Era la seconda persona che glielo diceva, ma non riusciva a crederci. Abbassò il capo e si asciugò goffamente il viso. La bocca era impastata dal pianto e le labbra erano salate. «L’hai mai amata?»

Thomas capì subito a chi si riferisse, per quanto quella domanda fosse sconnessa dal resto. «A modo mio, si. Amavo il suo modo di affrontare la vita, sempre a testa alta, decisa, sicura. Mentre io ero totalmente l'opposto.»

«Perché non sei venuto al suo funerale, allora?» Il teppista a quel punto risollevò la testa.

«Perché non ci sono riuscito. Non avrei retto vederla senza vita in una bara, la sua lapide…» strinse leggermente la presa sulle spalle di Vick. «Sei più forte di me, hai preso da Hanna.»

Qualcosa gli diceva che non stava mentendo, che quella era la verità. A quel punto, cosa sarebbe cambiato? Forse era vero, forse no. Victor decise di credergli. «Non sono forte.»

Thomas sorrise, «Lo sei. Che ne dici se ci sediamo ed ordiniamo qualcos’altro e ci facciamo una bella chiacchierata?» indicò il tavolo dietro di sé con un cenno del capo.

«Solo se paghi tu, compreso il conto della baita nei boschi prenotata sotto falso nome.» tirò sù con il naso, le labbra s’incurvarono in un flebile sorrisetto. La rabbia e il rancore nei suoi confronti era svaniti nel nulla? No, sarebbe stato ipocrita da parte sua affermare il contrario. Sentimenti del genere non svanivano con uno schiocco di dita. Si sentiva ancora un errore indesiderato. Il fatto che avesse il cancro, che si sentisse la morte accarezzargli dolcemente la schiena, non cambiava nulla. Ma voleva provare a viverlo, a conoscerlo e capire. Forse, solo quei sentimenti sarebbero mutati. Lo sperava.

«Che?» domandò confuso, ma poi preferì non fare domande, «Affare fatto.» In quel preciso istante, Thomas, si ripromise di provare ad essere un ottimo padre per tutti i suoi figli. Sentiva che era stato molto fortunato, quella era un’occasione che non sarebbe mai ricapitata due volte.

Angoletto a piè di pagina:

Tranquillɜ, non mi dilungherò come al solito. Volevo solo mostrarvi questi bellissimi aesthetic /collage creati da TeresaAnnaLu, che ringrazio!


Mi emoziono sempre quando voi lettorɜ decidete di dedicare tempo ed impegno per creare qualcosa di vostro sui miei personaggi.
A costo di risultare ripetitivo, vi ringrazio.

A presto!

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