Cieli di Sangue - La nuova di...

By Chiarasaccuta_writer

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{Libro Secondo della trilogia Cieli di Sangue} I regni di Kaewang e Sunju sono in pace, ma i sovrani si trova... More

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By Chiarasaccuta_writer


Dier non aveva avuto modo di riappacificarsi con Areum. E avrebbe voluto farlo, più di ogni altra cosa. Perché vederla allontanarsi in quel modo, con le lacrime agli occhi la sera prima, l'aveva fatto sentire un mostro. E lui non era questo.

Dannazione, l'aveva portata nel Khusai per aiutarla a ricomporre i pezzi della sua vita. Invece, l'aveva distrutta ancora di più. E, quel che peggio era che la vedeva così vicina ad altri.

Così vicina a suo zio. Dier non era stupido, la sera prima l'aveva cercata, in lungo e in largo, e lei e Tomur erano stati gli unici a scomparire alla fine del rito propiziatorio. Qualcuno aveva parlato. Qualche voce aveva cominciato a girare. La situazione si era fatta ambigua e un sottile timore aveva cominciato a farsi spazio nel petto del giovane.

Dier ricadde al suolo e affondò la spada sul petto di uno dei nemici, in un tripudio di terriccio e sangue. Digrignò i denti e si rialzò in piedi, mollando l'elsa e incoccando lesto una freccia che scagliò in direzione di un secondo soldato, colpendolo in pieno petto.

La battaglia andava avanti dalle prime luci dell'alba. Areum si era gettata all'interno di essa in groppa al suo cavallo e Dier l'aveva persa di vista a nemmeno pochi minuti dall'inizio della guerriglia.

Dier afferrò altre due frecce e le incoccò a destra, colpendo due uomini, per poi risalire in groppa al suo cavallo e calciare sui fianchi. Scorgeva Tomur in lontananza, intento a confrontarsi con Ogodei. Suo zio non aveva occhi che per il suo nemico, non gli permetteva nemmeno di scappare, come un lupo che cercava di spingere la sua preda con le spalle contro il muro, negandogli ogni via di fuga.

Dier sapeva cosa stava facendo.

Se cadeva il khan cadeva la tribù, e i Taigat avevano bisogno di prendere tempo. Ore. Affinché il padre di Delger arrivasse in fretta. I membri della tribù delle montagne si trovavano all'altezza della cascata dell'Orkhoj. Ci sarebbe voluto almeno mezza giornata di cammino prima di raggiungerli al passo Gangwon.

Dier non ebbe il tempo di correre in difesa dello zio, che era stato appena accerchiato da altri due uomini, che una donna agile salì sul cavallo di Dier. Con un urlo disumano, la donna avvolse una corda tagliente intorno al suo collo che gli fece mancare l'aria.

Il giovane ricadde lontano dalla sella, perdendo il suo cavallo, mentre la ragazza avvolgeva le gambe intorno alle sue spalle e spingeva con forza la corda tesa sul suo collo.

«Muori, bastardo Taigat» sibilò la giovane, mentre Dier si dimenava come un animale.

Non poteva morire. Non quel giorno. Non in maniera tanto triste... Il ragazzo urlò, ritrovando l'aria nei polmoni nel momento in cui la donna venne allontanata di forza dal suo corpo. Dier sgranò gli occhi e si mise a scarponi, pronto a reagire, quando vide la sua avversaria venire scaraventata con brutalità su di un masso da Areum.

La cugina aveva le mani e la gonna del deel sporca di sangue, lo stesso che colava dal naso fin sulla bocca. Dier incrociò il suo sguardo, solo per un istante, prima che Areum gli facessi un cenno con il capo e incoccasse una freccia. La principessa lasciò la corda dell'arco e la freccia sfrecciò verso di lui, che si scostò, facendo in modo che l'arma colpisse l'ennesimo nemico dietro di lui.

Il principe si riappropriò così della sua spada e corse in direzione della cugina, saltando agile fra le carcasse de cavalli morti. Areum raccolse la gonna verde dell'abito e corse insieme a lui in direzione della parete a strapiombo del passo Gangwon, aggrappandosi a delle pietre spioventi. Una volta sola, si permisero di riprendere fiato, piegati in due dalla fatica.

«Credo tu mi debba dei ringraziamenti» mormorò Areum, portandosi alcune ciocche corvine dietro un orecchio. Gli orecchini che portava erano stati rovinati, tranciati a dir poco.

«Puoi dirlo forte, Areum» ansimò Dier, passandosi un braccio sotto il collo percorso da alcune stille di sangue. Era così felice di vederla sana e salva, che sarebbe potuto scoppiare a piangere. «Come stai?»

La principessa diede voce a una risata mesta, portandosi una mano alla faretra per contare le frecce rimaste. Erano sette. «Non mi hanno ferito gravemente, se è quello che vuoi sapere. Posso continuare.»

Era fredda come il ghiaccio. Dier imprecò a mezza voce e raccolse la sua mano nella propria, mentre l'orda di Ogodei si lasciava andare a versi animaleschi nel tentativo di scoraggiare e spaventare i Taigat. «D'accordo.... Siamo in svantaggio.»

«Non è vero» sibilò Areum, sollevando lo sguardo in direzione del Cielo Azzurro. Vi erano alcuni falchi dal manto marrone, natii di Kaewang, che sorvolavano il passo Gangwon. Dier non fece in tempo a formulare un pensiero logico che si ritrovò a roteare l'elsa della spada in una mano per ferire un avversario al suo fianco. Strinse i denti prima di elevare un urlo, quando avvertì il peso di due frecce si conficcarono all'altezza delle sue spalle.

«Dier!» urlò Areum, prima di avanzare e fargli da scudo con il proprio corpo. Dier avrebbe voluto spintonarla al suolo per impedire a una delle donne guerriere di venirle addosso, ma la principessa caricò sul petto della nemica e la colpì con una testata sul mento.

«Areum!» la chiamò Dier, estraendo la spada dal fianco del suo avversario e le due frecce dalla schiena, in un movimento secco. Nel frattempo la donna era caduta al suolo e Areum le era salita sopra, a cavalcioni, per poi afferrare un pugnale dalla cinta e piantarlo in mezzo agli occhi della sua rivale.

Spietata. A volte non la riconosceva. Aveva troppa rabbia, dentro di sé.

E, a quanto pareva, Dier aveva fatto male a preoccuparsi: Areum non aveva bisogno di lui. Sostare alla tribù dei Taigat per quattro anni l'aveva forgiata abbastanza da permetterle di affrontare quella battaglia senza farsi proteggere né da lui né da altri.

D'altra parte, gli uomini e le donne del Khusai e del Biyu non combattevano secondo schemi ordinati. Le guerre erano una caccia continua, per questo non venivano utilizzati i trentasei stratagemmi. Dier li aveva studiati a fondo, durante i suoi anni a Kaewang, salvo poi essere preso sotto l'ala di Tomur e capire che le tribù utilizzavano metodi ben diversi per vincere le guerre. Le formazioni erano simili a quelle utilizzate per mettere alle strette un animale.

Dier udì il suono acuto di un corno ganlin suonò nel cielo e comprese.

Il giovane voltò lo sguardo verso una delle formazioni capitanate dal secondo in comando, Balgan. L'uomo soffiò di nuovo il corno a un cenno di Tomur. Il khan si era lasciato sfuggire Ogodei e avrebbero assolutamente dovuto riprenderlo.

«Il nerghe?» domandò Areum, animando ad alta voce.

Dier annuì, incrociando gli occhi neri di Tomur. Suo zio lo fissava come quando voleva imporgli di prendere iniziativa, mostrando tutto il suo coraggio, in qualità di erede.

Dier doveva unirsi al nerghe, ma non voleva andare da solo. Si voltò così verso la cugina e sollevò una mano verso di lei. «Vieni con me...»

«Areum!» la voce di Ovaal, in lontananza, irruppe la loro conversazione. La khatun era ferma al lato opposto dell'accampamento, in groppa a un cavallo bianco e con la spada lorda di sangue. «Raggiungi il terzo minghaan a ovest! Abbiamo bisogno di tutto l'aiuto possibile! Attacchiamo i civili.»

La situazione era disperata, fin troppo se si era giunti a prendere una decisione del genere. E Dier lo sapeva, come sapeva anche che non avrebbe fermato quella barbarie. Nel Khusai funzionava così, sottometti o vieni sottomesso. Uccidi o vieni ucciso.

Areum si voltò a fissarlo, alcune ciocche corvine erano sfuggite alla crocchia e le sfioravano il viso pallido. Dier, di contro, sentiva i capelli bruni venire agitati dal vento impetuoso che soffiava senza sosta in quella gola piena di morte. Poteva essere l'ultima volta che la vedeva.

Prima di andare, il ragazzo decise di mettere da parte ogni cattivo pensiero e si lanciò sulla cugina. stringendola in un abbraccio protettivo. «Scusa per quello che ti ho detto, Areum. Scusami per tutto. Sappi che quello che è successo... Non cambia i miei sentimenti per te. Io ti amo. E questo non lo cambierà mai niente e nessuno.»

Dier strinse i pugni sulla schiena di Areum, sopprimendo un singhiozzo. Non poteva fare altro che rendersi vulnerabile, ai suoi occhi, prima di diventare l'erede che Tomur voleva che fosse. Si sarebbe aspettato, però, che la cugina ricambiasse il suo abbraccio e lo rassicurasse.

Invece, Areum divenne più rigida che mai.

Allora era vero. Nei dubbi di Dier doveva esserci un fondo di verità.

Il principe si di staccò da quell'abbraccio quando udì gli zoccoli di un cavallo che ben conosceva alle spalle. Doveva chiederglielo, doveva chiederle se fra lei e il khan ci fosse stato qualcosa. Li aveva visti insieme troppe volte, per non poterlo credere. «Areum...»

La principessa lo fissava con gli occhi a mandorla sgranati, velati di lacrime. Le labbra socchiuse, il pentimento riflesso nel viso, ma prima che Dier potesse chiederle delle spiegazioni, la mano di Tomur si strinse sulla sua casacca e lo costrinse a voltarsi. Dier spalancò le palpebre quando si ritrovò di fronte lo sguardo adirato del khan. «Zio...»

«Sali sul tuo cavallo, adesso» sibilò Tomur, dalla sua sella, ormai allo stremo della pazienza. «Ci penserai dopo ai convenevoli. E tu» asserì dopo, rivolgendosi ad Areum, in tono glaciale. «Segui gli ordini della khatun, questo non è un gioco.»

Areum non gli rispose. Si limitò a fissarlo di sottecchi, prima di correre in direzione di Ovaal senza proferire una sola parola. Il pugnale insanguinato era ancora nella sua mano destra.

Dier la fissò in tralice, che si fosse sbagliato? Che fosse tutto nella sua testa? Il giovane sospirò, per poi voltarsi verso lo zio e annuire. «Vi raggiungo subito, mio khan.»

Tomur si ripulì le labbra dal sangue e sbuffò una risata nervosa, scuotendo i fianchi del cavallo per caricare alla volta di Ogodei, il quale si stava confrontando con un plotone di Taigat insieme a Subedei, suo fratello maggiore.

Dier sentì di nuovo il corno ganlin riecheggiare nell'aria e corse, adocchiando il primo cavallo libero che incontrò. Ci salì in groppa e si appropriò delle redini, sollevando un braccio e lanciando un grido di richiamo verso il cielo, così che i guerrieri lo seguissero. «Dietro di me!»

Detto ciò, una moltitudine di uomini provennero da tre direzioni diverse. La prima, la più corposa, a seguito del khan, la seconda alle spalle di Dier e la terza dietro Balgan, il secondo in comando. Dier strinse le cosce sui fianchi del cavallo mentre i Taigat si univano in un unico grande cerchio attorno a Ogodei e ai suoi uomini. Dier cercò la figura dello zio in mezzo alla calca e, quando lo vide, Tomur aveva già incoccato non una, bensì due frecce sul suo arco. Dier fece lo stesso, ma fu in quell'istante che vide Subedei fare un cenno veloce con le mani ai suoi soldati e, quando Tomur scagliò la prima freccia, dando il via a una vera e propria pioggia di metallo, gli uomini di Ogodei sollevarono gli scudi in una formazione di difesa.

Dier digrignò i denti nell'istante in cui il nerghe venne rotto da un fiume di uomini nemici che piombarono a cavallo su di loro, sfasciando le file Taigat.

Fu allora che Dier vide Ogodei khan salire in groppa al proprio cavallo e lanciare un pugnale in direzione di Tomur. Suo zio era distratto, a causa di alcuni movimenti che provenivano dalla parte superiore del passo Gangwon, sulla superficie le parete di pietra. Dier agì di scatto, lanciando la sua ultima freccia in maniera tale che deviasse il pugnale e questo si conficcasse al suolo.

Lo zio gli lanciò uno sguardo di ringraziamento, ma c'era ben poco di cui gioire. Il suo cavallo nitrì, venendo colpito da una sciabola sul fianco. Dier crollò al suolo e la bestia piombò sulla sua gamba destra, facendolo urlare a causa dell'impatto. Era stato Subedei, il fratello di Ogodei, ad averlo ferito e ora lo fissava con un ghigno malvagio sul volto.

«Arrendetevi!» urlò Ogodei, ansimando. Nonostante fosse in superiorità numerica, i Taigat gli stavano dando filo da torcere. «Se lo farete, riusciremo ad arrivare a un accordo, Tomur.»

Dier strinse i pugni e cercò di allontanare la carcassa del cavallo dalla propria gamba, mentre Subedei si avvicinava a passo pesante verso di lui.

Tomur strinse i pugni sulle redini del proprio cavallo nero, fulminando Ogodei con lo sguardo. «Che il Cielo Azzurro mi colpisca adesso con un fulmine, semmai osassi ritirarmi.»

«Ci tieni così tanto a morire, figlio di puttana? Hai governato per troppo tempo, sul Khusai» urlò Ogodei, mentre Dier riusciva a scardinarsi dalla presa dell'equino. La gamba doleva, ma non era rotta, gli consentì abbastanza velocità da afferrare la propria spada e scagliarla in direzione del cavallo Ogodei. Il khan fu più veloce e tirò le redini in maniera tale che il cavallo scartasse di lato. Tomur, però, era riuscito a prendere tempo e gli si era lanciato addosso. Dier vide lo zio afferrare il khan per la treccia e scaraventarlo al suolo. Lo raggiunse e fece per finirlo con un colpo di spada sulla gola, quando Subedei afferrò Dier per il collo già ferito, impedendogli di respirare.

«Fermatevi, mio khan. O per vostro nipote è la fine, e anche per voi» asserì Subedei, tenendo la sua lama dritta sulla giugulare di Dier. Il giovane respirava a stento, i capelli sugli occhi e il fiatone che fuoriusciva dalla bocca.

Quando Tomur vide quella scena, il braccio che tratteneva la spada si irrigidì. Ogodei si mise a ridere, ancora sdraiato al suolo e con la spada di Tomur a poco più di un palmo dalla sua faccia. «Guarda un po', il khan senza eredi che non riesce a sacrificare il solo che gli è rimasto.»

Dier vide lo zio contrarre il video in una smorfia di sopportazione e gettare la spada al suolo. «Lascia mio nipote, Subedei.»

«Non così in fretta» rise l'uomo, premendo la lama sul collo di Dier, ormai sempre più convinto che sarebbe morto. Almeno lo avrebbe fatto senza rimpianti. «Mio fratello, il grande khan della tribù degli Ongirrat, ha delle condizioni.»

«Come quella di ritirarvi dalla valle dell'Arkhangan, lasciarmi le vostre terre e possedimenti. Pagarmi tributi. D'altronde, i Taigat hanno accumulato ricchezze di ogni tipo. Non sarà un problema per voi, adeguarvi, non è vero, Tomur?» chiese Ogodei, alzandosi in piedi con fare strafottente.

Dier sentì il respiro mozzarsi quando suo zio avanzò a falcate contro Subedei, la veste blu che si increspava sugli stivali, i capelli neri lordi di sangue che gli frustavano il viso. Era fuori di sé. «Sei un cane bastardo che...»

«Fate un altro passo e taglio la gola di questo stronzo» sibilò Subedei, frenando così la furia di Tomur, che si ritrovò costretto a calmare la rabbia.

Ogodei rise di nuovo, scrollando le spalle coperte da una lunga pelliccia. Aveva la vittoria in pugno, e lo sapeva. Come lo sapeva anche Dier.

Eppure, un'altra voce sopraggiunse dietro di loro. Una voce che Dier conosceva bene.

Quella di Areum.

**

«Ordina di lasciare l'erede dei Taigat, se non vuoi vedere il tuo bastardo crepare, Ogodei» sibilò Areum, tenendo la lama del suo pugnale premuta sotto il collo di Genghis, il bambino che aveva visto al fianco di Ogodei la prima volta che era discesa a spiarlo. Lo aveva scovato nella prima tribù che Ovaal le aveva chiesto di bruciare, stretto a sua madre, una ragazzina di quindici anni.

Mettere fuori gioco la madre non era stato un problema, il problema era stato fare i conti con sé stessa e accettare di starsi di nuovo sporcando le mani del sangue di un infante.

Eppure, non poteva lasciare morire Dier. Passi la notte con Tomur, la distanza del cugino, i propri sensi di colpa, ma Areum non sarebbe rimasta a guardare mentre uccidevano la persona a cui teneva di più.

Quando Ogodei vide il proprio figlio stretto fra le sue braccia, spalancò le labbra e le palpebre, marciando fino a superare con grandi falcate il fratello. «Molla subito mio figlio, donna!»

Areum inarcò un sopracciglio e strinse la lama sul collo del bambino in lacrime. Doveva essere fredda, ponderata, solo così avrebbe vinto. «Dopo di te. E forse potremmo contrattare.»

«Non c'è niente da contrattare, i Taigat hanno perso!» urlò Ogodei, e Areum inspirò a fondo quando lo sentì ripetere, allo stremo delle forze: «Avete perso.»

«Non abbiamo perso niente» sibilò la principessa, che ormai sentiva di appartenere a quella tribù. Ci aveva passato quattro anni della sua vita e non si era mai sentita più viva di così. Non sarebbe rimasta a guardarla cadere. «Di' ai tuoi uomini di ritirarsi e io lascio in vita tuo figlio. Altrimenti lo ammazzo, davanti ai tuoi occhi. Non sto scherzando.»

Subedei guardò il fratello in tralice, scuotendo la testa. «Non ci cascare, la vittoria è nostra Ogodei. Quel bambino è un bastardo, figlio di una schiava...»

«No, quel bambino è mio figlio!» urlò il khan, avanzando di un altro passo verso Areum.

La principessa lasciò vagare il proprio. Prima si soffermò su Dier, il quale scuoteva la testa, come a dirlo di non farlo, di non cadere di nuovo così in basso. Come se potesse biasimarla. Poi, Areum adocchiò Tomur. Il khan era impenetrabile, il corpo rigido, come un animale sul punto di attaccare. Quando si era svegliata, Areum non lo aveva trovato al suo fianco. Le pellicce erano vuote, le avevano fatto comprendere più di quanto non avrebbe voluto.

«Puttana! Lascia mio figlio, questa non è la tua guerra!» strepitò Ogodei, sul punto di un esaurimento nervoso. «E fatti da parte! La mia Orda prestò eliminerà i Taigat e di voi non resterà niente!»

Areum sbottò una risata, sentendo l'odore del sangue pizzicarle le narici e i pianti del bambino riempirle le orecchie. «Non è la mia guerra? A meno di mezza giornata di cammino da qui, vi è la città di Goryeo. Il primo baluardo di Kaewang. Cosa avete intenzione di fare, togliere di mezzo i Taigat e poi prendervi anche il mio regno?»

Ogodei affinò lo sguardo di fronte quella provocazione. Areum, però, sapeva di poter osare, perché non era sola.

«Il tuo regno?» mormorò Subedei, allentando la presa sul collo di Dier.

Areum annuì e fu in quell'istante che dalle alture del passo Gangwon, emersero numerosi arcieri, con le frecce puntate al di sotto della gola, dove gli Ongirrat si trovavano ancora. «Il mio regno» asserì, di nuovo, quando vide Yong in groppa al suo cavallo capitanare quell'armata. Non si aspettava che il gemello l'avrebbe raggiunta. Non dopo anni di silenzio punitivo. «Se non volete toccare la furia di Kaewang vi conviene lasciare mio cugino adesso, Ogodei.»

Ogodei contrassegno il viso in una smorfia di sdegno e, in un movimento repentino, Areum lo vide afferrare una freccia dalla faretra per incoccarla verso di lei. Non riuscì nemmeno a tendere la corda, perché una spada lo aveva colpito in piena schiena. La lama aveva trapassato le scapole, conficcandosi proprio al centro di esse, in tonfo secco.

Subedei lasciò allora cadere Dier al suolo, lanciando un urlo di dolore. Areum, invece, puntò il proprio sguardo oltre il corpo di Ogodei, incontrando di nuovo gli occhi di Tomur, il quale era riuscito a uccidere il bastardo prima che lui cercasse di colpirlo.

Areum spinse così il piccolo Genghis da un lato, senza osare sfiorare la sua carne. Non aveva senso ucciderlo. Non più ormai. Tomur, invece, rilassò le spalle e le fece un cenno con il viso. Sembrava quasi quasi soddisfatto. Areum si umettò le labbra, mentre Subedei si chinava al fianco del fratello, per cercare di rianimarlo. Non sarebbe servito a niente.

Tomur richiamò i suoi uomini con urlo che lasciava davvero poco spazio alla compassione esordì: «Il khan è caduto, ucciderli tutti!»

Areum comprese che avrebbe dovuto fare la sua parte, così voltò lo sguardo verso il gemello e sollevò una mano in segno di attacco. Bastò quello, affinché l'esercito di Kaewang discendesse come una tempesta dallo strapiombo, pronto a unirsi ai Taigat e a falciare chiunque sul proprio cammino. 

**

corno ganlin: corno fatto di ossa animali
Nerghe: formazione tipica dell'esercito mongolo, consisteva nell'accerchiare un nemico e finirlo a colpi di frecce. 
Deel: tipico abito mongolo, di solito foderato di pelliccia, lungo per le donne più corto per gli uomini.
Minghaan: formazione di cento soldai.

E quindi, c'era chi pensava che Dier fosse stupido e chi mentiva. Chi pensava che Areum si sarebbe messa con Tomur e chi mentiva. E invece no, invece Dier si è confessato, LE HA DETTO TI AMOH, E lei? Lei si è lasciata mangiare dai sensi di colpa :D. E Tomur? Tomur si sta combattendo LA SUA GUERRA, facendo l'ambiguo. 

Alla fin fine, c'è ben poco da dire. Dier qualcosa l'ha capita, non è certamente un idiota, ma c'è da dire che Areum oggi ha rischiato un bel po' di cose per salvargli la pelle DUE VOLTE. Riusciamo a perdonarla? D'altra parte, a un passo dalla morte, tutti e due hanno cercato di lasciarsi ogni vergogna e risentimento alle spalle. 

Ma questa cosa perdurerà? Beh, noi lo scopriremo presto. Prossima settimana vi lascerete deliziare fra un confronto magnifico, quello fra Yong e Areum. E fidatevi, ci sarà da divertirsi <3

A lunedì!

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