Spogliatoio. Dieci minuti alla chiamata in campo.
Louis è qui. Lo sento che si muove. Mi sono messo in un angolo defilato della sala, dietro un divisorio di armadietti, per non doverlo vedere prima dell'inizio.
È silenzioso, non credo ci sia nessuno con lui. Con me ci sono sempre e solo Armando ed Ethan. Quest'ultimo mi sta facendo un rapido massaggio alle gambe, per tenerle calde prima di uscire.
Non riesco a evitare di pensare alla bustina di Zoe.
Mi ha terrorizzato.
Ieri sera sono andato nel panico e l'ho buttata nel WC. Lo sciacquone non la faceva scendere, l'ho dovuto tirare tre volte.
Poi mi sono lavato le mani due volte. Ho il terrore che qualche particella di droga possa essere fuoriuscita e io l'abbia respirata e mi sia entrata in circolo. La bustina sembrava ben sigillata, ma non si sa mai! Magari l'esterno era contaminato, e io l'ho toccato! Per non parlare di possibili particelle sui vestiti o sul corpo di Zoe: ci abbracciamo spesso, se mi fossero finite in circolo così? Sono terrorizzato dal risultato del mio prossimo esame antidoping.
E non è l'unico pensiero che mi assilla. C'è anche il problema di cosa penserà Zoe: si renderà conto che sono stato io a buttare la bustina? Per ora non mi ha detto niente, ma magari non se n'è ancora accorta.
Ieri sera sono rimasto così sconvolto dalla cosa che mi è passata qualsiasi voglia di rubarle di nuovo i biscotti.
«You're tense» mi dice Ethan. Sei teso. Sì, lo sono.
Sento un borbottio, nello spogliatoio: è la voce di Louis. La riconosco. Anche se non capisco cosa sta dicendo perché parla a un volume troppo basso, riconosco il suo timbro, la sua vibrazione caratteristica. Cosa sta dicendo? Con chi sta parlando? Allora c'è qualcuno del suo staff con lui? O sta parlando al telefono?
Cinque minuti. Mi alzo. Bevo un po'. Controllo di avere tutto in borsa. Prendo la racchetta: mi piace sempre uscire in campo tenendo in mano la prima racchetta con cui giocherò. Sulle corde c'è l'antivibrazioni che mi ha regalato Louis: il disegno della piccola Cloe. Vederlo mi riempie di nostalgia, ma anche di pensieri felici. Mi piace usarlo. Mi piace guardarlo.
Per uscire devo passare davanti a lui.
Avvicinandomi, mi accorgo che le parole che sta pronunciando sono in russo. Non le capisco, ovviamente, ma identifico dei "Vanja", in mezzo.
Eccolo.
Sta parlando da solo.
Ha lo sguardo perso nel vuoto, ondeggia il busto avanti indietro, e mormora una cantilena in russo. Cosa sta dicendo? Sta parlando a se stesso?
Mi guarda. Interrompe il borbottio. Mi fissa, con la bocca socchiusa, e lo sguardo un po' vacuo. Ha una fasciatura stretta sotto al ginocchio destro, e anche del kinesio-tape lungo l'adduttore.
Non si sta divertendo.
Ho visto delle grosse porzioni dei quattro incontri che ha giocato qui a Montréal, e non ha giocato come al solito. Ha sofferto. Forse perché gli faceva male il ginocchio. Forse per qualche altro motivo. Non ho ancora visto come ha giocato a Umag, al torneo che ha vinto. È cambiato qualcosa in lui? O è solo il recente dolore fisico che ha cambiato il suo modo di giocare?
Mi fa un cenno di saluto con la testa. Glielo faccio anch'io.
Vado.
Esce dallo spogliatoio poco dopo me e mi si mette davanti, perché deve uscire in campo per primo, il suo ranking è più basso del mio.
Il centrale è pieno.
Sorteggio. Riscaldamento. Spingo un po' la palla, per testare le sue reazioni e capisco subito che sarà un incontro orribile. Non è al cento per cento. Ma nemmeno all'ottanta. Ma nemmeno al cinquanta. Perché si è presentato? Sarebbe stato meglio se si fosse ritirato. Mi aspetto che da un momento all'altro dia forfait, prima ancora di iniziare.
Ma non lo fa, e l'incontro comincia. Ha vinto lui il sorteggio e ha scelto di ricevere, quindi servo io.
Cerca subito di darmi del filo da torcere in risposta, esasperando gli angoli, e inaspettatamente mi porta ai vantaggi. II game dura dieci minuti, ma riesco infine a risolverla.
In questi dieci minuti, non ho mai avuto la sensazione che sarebbe riuscito a farmi break. Restava lì, appeso al gioco in maniera un po' disperata, ma senza mai affondare un colpo decisivo.
Il suo servizio è preciso, ma meno potente del solito: non riesce ad appoggiare bene sul ginocchio. Tiene comunque il suo game, giocando dei colpi insoliti, insoliti persino per i suoi già insoliti standard.
Passano due turni, e al quarto game arriva il mio primo break, che gli tolgo a zero: ho studiato i suoi movimenti e stavolta è stato facile prevederlo. Si sposta malissimo.
Lui si innervosisce, in maniera ai miei occhi immotivata, considerando come sta: esclama qualcosa in russo e rompe la racchetta a terra, picchiandola più volte sul cemento.
«Warning, code violation Mr. Tomlinson, racket abuse» dice l'arbitro, Mila Vuković.
È la prima volta che gli vedo rompere una racchetta. Si dirige alla sua panchina, lancia la racchetta rotta al pubblico, e ne prende una nuova. Alza la mano per chiedermi scusa. Ricominciamo dal mio servizio.
Il primo set finisce sei uno per me. È un risultato menzognero: ogni suo turno di battuta è riuscito a portarlo ai vantaggi, e ci è rimasto attaccato coi denti. Ma il suo gioco si fa via via più sofferente man mano che continuiamo.
Mi aspetto che venga a stringermi la mano alla fine del set, per terminare qui l'incontro, ma invece chiede un medical time out. Arriva il fisio, gli aggiusta le bende, gli dà una pasticca per il dolore.
E dopo dieci minuti riprendiamo.
Serve lui.
Il servizio è penoso. Persino peggio del primo set. A un certo punto fa un doppio fallo, dovuto al fatto che è rimasto troppo rigido sulle gambe e ha colpito solo di braccio, calibrando male.
E io non ce la faccio più.
«Louis, t-tutto ok?» gli grido.
L'espressione con cui mi guarda è... come potrei definirla? Oltraggiata. «Sì» grida.
Serve ancora, e non so come, credo più per demeriti miei che meriti suoi, tiene il servizio. Cambiamo campo sullo zero uno. Il mio servizio va via in cinquanta secondi, e tocca di nuovo a lui.
Non ce la fa. Non ce la può fare. Non si muove, e se continua così non farà altro che peggiorare il suo infortunio. Non posso vederlo giocare in queste condizioni.
Lo attacco in risposta sul secondo punto, e dopo aver chiuso a rete con una volée vincente, lo chiamo. «Louis!»
«Cosa vuoi?»
Scuoto la testa. Lo chiamo a rete con un gesto della mano.
«Everything ok?» chiede l'arbitro.
«Yes» risponde Louis. «Tell Styles to leave me alone!»
La Vuković mi ammonisce: mi darà un warning per perdita di tempo se non torno a giocare.
Mi arrendo. Torno a fondo campo.
Lottiamo. O meglio: Louis lotta, contro dei colpi che io faccio in tutta facilità. Vorrei chiudere rapidamente, ma lui riesce a sorprendermi coi suoi colpi sempre più strani, sempre più insensati, e l'insensatezza per un po' paga, ci fa restare impelagati in una serie di parità e vantaggi che non finiscono più.
Ma è solo questione di tempo: la vinco io. Lo attacco, in modo un po' brutale, gli faccio un vincente imprendibile, e ho preso il mio break anche nel secondo set.
Ma questo incontro non può continuare.
Ci incrociamo a rete per cambiare campo e lo fermo, lo prendo per una spalla. «Louis, b-b-b-asta.»
«C-c-c-che c-c-c-caaaazzo vuoi?» mi fa lui, con un tono di voce cattivo, rabbioso, scacciando la mia mano con un gesto stizzito.
«Guys...» cerca di intervenire la Vuković.
Non rispondo alla sua presa in giro. «Se c-c-continui a giocare p-p-peggiorerai il tuo infortunio.»
«Hai paura di perdere?» mi provoca lui.
«Ma sei scemo? È imp-p-p-ossibile che vinci in queste condizioni! Smetti di g-g-giocare immediatamente! Ti distruggerai il ginocchio!»
Lui stringe le labbra. «Io non smetto. Non mollo.»
E finalmente capisco.
È per quello che gli ho detto a Wimbledon. Gli ho detto che mi sono sentito mancare di rispetto dal suo modo di giocare, e ora cerca di rispettarmi giocando a costo della sua salute.
«Non la conto» gli dico.
La Vuković mi dà un warning, non capisco nemmeno per cosa, non la ascolto.
Louis mi guarda aggrottando le sopracciglia.
«Sia che resti in campo, sia che ti ritiri, io non conto questa vittoria. Questa non è una vittoria. Siamo ancora t-t-tre a zero per te.»
Louis continua a fissarmi, i suoi occhi chiarissimi scintillano.
«Le statistiche ufficiali c-conteranno uno per me, ma per me quell'uno non esiste.»
Ed è in questo momento che scoppia a piangere. Si avvicina a me, lo abbraccio, si fa abbracciare, e spero che le telecamere non si accorgano del subbuglio emotivo che mi sta sconvolgendo internamente. «Io ci tengo...» dice.
«Lo so» rispondo.
Le mie dita stringono le sue spalle. Sento il suo odore salmastro, intensificato dall'attività fisica: mi sembra ieri che mi ha accarezzato la bocca con il dito.
Piange ancora qualche secondo, poi si stacca da me, si asciuga gli occhi col dorso della mano, e me la porge.
È il segnale che si ritira. Gliela stringo. Louis stringe la mano anche all'arbitro, le spiega rapidamente di stare troppo male per continuare, e lei avvisa il pubblico del ritiro di Louis per infortunio.
Quando esce dal campo, alzo le mani per applaudirlo, lui non risponde all'applauso del pubblico, non saluta, va dritto negli spogliatoi. È stanco e triste.
Arriva l'intervistatore, con l'interprete di lingua dei segni. Mi chiede cosa ho detto a Louis che l'ha fatto tanto arrabbiare, gli dico che non voglio parlarne. Sono ancora un po' scombussolato dall'abbraccio e non so cosa dire.
Mi chiede se sono dispiaciuto del fatto che la mia prima vittoria contro Tomlinson sia arrivata in questi termini, con un suo ritiro. Gli rispondo che questa non è una vittoria, io non la considero tale.
Le statistiche ufficiali conteranno uno per me, ma per me quell'uno non esiste.
Ci incontreremo di nuovo, Louis, e ti batterò. Ti batterò onestamente e sarà una vittoria bellissima.