E il tempo scivola via

By Maschera_di_fumo

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Premessa
Playlist
Dedica
Prologo
[...]
Capitolo 1
Capitolo 2
Capitolo 3
Capitolo 4
Capitolo 5
Capitolo 6
Capitolo 7
Capitolo 8
Capitolo 9
Capitolo 10
Capitolo 11
Capitolo 12
Capitolo 13
Capitolo 14
Capitolo 15
Capitolo 16
Capitolo 17
Capitolo 18
Capitolo 19
Capitolo 20
Capitolo 21
Capitolo 22
Capitolo 23
Capitolo 24
Capitolo 25
Capitolo 26
Capitolo 27
Capitolo 28
Capitolo 29
Capitolo 30
Capitolo 31
Capitolo 32 (Prima parte)
Capitolo 33 (Prima parte)
Capitolo 33 (Seconda parte)
Capitolo 34 (Prima parte)
Capitolo 34 (Seconda parte)
Capitolo 35
Capitolo 36 (Prima parte)
Capitolo 36 (Seconda parte)
[...]
Capitolo 37
Capitolo 38
Capitolo 39
Capitolo 40
[...]
Epilogo

Capitolo 32 (Seconda parte)

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By Maschera_di_fumo

Lo aveva appena lasciato davanti al bar. Se non gli avesse chiesto di fermarsi, Dean si sarebbe tenuto sotto ai 20 km/h per farlo ruzzolare sull’asfalto in posizione fetale, senza fermarsi. Come se Danny non si fosse pentito di avergli chiesto un passaggio, aveva visto la luce ad un paio di incroci. Al ritorno sarebbe andato felicemente a piedi. Osservò il locale dall’aspetto anonimo sfilandosi il pacchetto dalla tasca del giubbotto. Poggiò la sigaretta tra le labbra e l’accese con mano tremante. Era agitato, non era da lui. Era sempre stato il fratello maggiore, il ragazzo sbruffone e sicuro di sé. Ma era davvero così? Probabilmente si, quando si limitava a fuggire dai problemi. Ma da quando la vita aveva iniziato a dargli calci nel sedere, era caduto al minimo ostacolo. Dal pensare di avere il mondo sul palmo della mano, era passato a raschiare il fondo di un burrone buio, dove poteva sentire solo l’eco dei suoi pensieri. Per un po' aveva cercato di tapparsi a forza le orecchie e non ascoltarsi, aveva provato a chiudere gli occhi a forza desiderando di ritrovarsi in un posto migliore. Ma non era successo. Inspirò una boccata di fumo e lo lasciò danzare tra le labbra. Adesso aveva la possibilità di rialzarsi ed iniziare a camminare. Anche se sembrava un agnellino che muove i suoi primi ed incerti passi.

«Sembra tu stia fumando l’ultima sigaretta prima di dirigerti verso il patibolo», una voce lo riscosse dal fiume dei suoi angosciosi pensieri.

Con quel bastoncino di tabacco che bruciava tra le labbra, si voltò leggermente incrociando due iridi castano chiaro. Quelle iridi sembravano fatte di cioccolato a latte. Aveva dei capelli castani che gli cadevano leggermente sul viso, dai tratti dolci ma con la mascella definita a spezzare la delicatezza, in un “finto” disordine. Era leggermente più alto di lui, le spalle erano larghe, le braccia sembravano fin troppo allenate. Frequentava sicuramente una palestra. «Se così fosse?» fece un sorriso sghembo e sbruffone.

«Direi che sopravviverai», sghignazzò. Aveva gli occhi ed il sorriso gentili. «Lì dentro non morde nessuno, e soprattutto non fanno esecuzioni», indicò con il capo la porta da cui era uscito.

Peccato non si riferisse al colloquio. «Non mi riferivo a quello», sussultò e spalancò impercettibilmente gli occhi. Non voleva dirlo, soprattutto non ad uno sconosciuto. Lo sapeva, ad uno di quegli incroci aveva attraversato quel tunnel e corso verso la luce mentre batteva la testa sull'asfalto. Stava sicuramente sognando, o qualcosa del genere. E se fosse finito in coma e quel ragazzo fosse frutto del suo cervello pieno di arcobaleni e unicorni, come diceva sempre Kevin, riferendosi agli omosessuali? Fece un tiro, a disagio.

«Immaginavo».

Incrociò nuovamente lo sguardo, era serio, fermo. Il silenzio che ne seguì era pieno di imbarazzo. Solitamente avrebbe iniziato a parlare in modo fluido, non era timido, anzi. Ma non era in forma, era agitato per il colloquio e in quei giorni aveva dormito poco e male, tra un pianto e l'altro mentre si dava della femminuccia isterica. «Mi chiamo Daniel».

«Daniel» ripeté rimuginando come se volesse dire qualcosa, negò con il capo. «Phil, piacere», gli sorrise, «Che fai qui, Daniel? Non ti ho mai visto da queste parti».

«Sono qui per un colloquio», non era un criminale, vero? Non era uno di quei serial killer di cui parlavano le testate dei giornali, in televione e, dopo anni, in quei programmi televisivi dove i suoi cari raccontano che non sospettavano di nulla, nonostante vivessero sotto lo stesso tetto? Sperava di no. Già lo vedeva Dean, con un velo nero davanti al viso sfigurato dalle lacrime, come le vedove addolorate, raccontare singhiozzante la perdita del suo adorato e perfetto fratellone.

Phil annuì, poi guardò l’ora sul telefono. «Devo scappare, spero di rivederti».

«Spero di rivederti anche io», sussurrò senza volerlo mentre osservava le spalle del ragazzo allontanarsi sempre più. Quella era stata la conversazione più strana che avesse mai fatto, e ne aveva conosciuta di gente. Anche lui non si era comportato come suo solito, che fosse dovuto a quel pessimo periodo? Ne era quasi certo. Si decise a spegnere la sigaretta nel posacenere di uno dei tavoli che contornavano l'ingresso anonimo. Anche i tavoli, grigi in plastica e le sedie del medesimo colore, lo erano. Non aveva mai avuto paura di parlare, di presentarsi, né tanto meno di un colloquio. Lui aveva il dono della parlantina, della sicurezza quasi innata che gli permetteva di mantenere la calma anche nelle situazioni più stressanti. Aveva provato a dare qualche esame al college e se l'era cavata grazie a questo. Ma ora? Aveva perso tutta quella sicurezza da quando il mondo in torno a sé aveva incominciato a vacillare e lui era collassato con esso. Non aveva più tutte quelle sicurezze, non sapeva cosa ne stava facendo della propria vita. Aveva lasciato gli studi senza dire nulla ai suoi, era stato rifiutato e, come se non bastasse, i sensi di colpa del passato stavano bussando prepotentemente alla porta. Si era comportato come uno stronzo con Vick, fino alla fine. Anche se aveva cercato di rimediare, di rimettersi con lui per non lasciarlo solo. Sapeva che era pietà, quella che odiava tanto il teppista. Perché tra loro, l'amore era già svanito da molto tempo, se così si poteva chiamare. Sospirò. Ciò che lo preoccupava era la paura di fallire ancora, di sprofondare ancora di più in quelle sabbie mobili. Avanzò verso la porta, l’aprì e seguì il suono della campanella sulla cornice della porta, ad avvisare il suo ingresso. L’atmosfera era calda ed accogliente, come se fosse in una casa vissuta con una famiglia amorevole. I tavolini erano in legno e le sedie avevano imbottiture bordeaux. Lungo le pareti, e a fare da separè tra uno spazio e l'altro, c’erano librerie abitate da libri vecchi e nuovi. Alcuni avevano la costa più vissuta, altri sembravano immacolati. Ma nulla stonava, nemmeno le piante di edera che circondavano gli scaffali dando un tono di verde acceso, come se fossero entrati in un mondo a sé. Il bancone era nuovo, con qualche decorazione in legno lungo la base e due donne chiacchierano tranquille. I clienti erano pochi, come potevano aver bisogno di altro personale? Che fosse una vendetta di Price? Si avvicinò, poggiando i gomiti sul pianale e sfoggiando il sorriso più tranquillo e sicuro che avesse in repertorio. Sperava non sembrasse una smorfia. «Salve.»

La ragazza con il caschetto castano, che gli dava le spalle, si voltò, lo scrutò velocemente e sgranò gli occhi, incredula. Sembrava avesse visto una celebrità defecare dietro un cassonetto nel giorno di San Patrizio. «Daniel Macdaniel?!» esclamò a bocca aperta, si intravedeva l'apparecchio.

«Diana, lo conosci?» domandò la donna al suo fianco con cui stava parlando. Aveva dei capelli castani come la ragazza, ma delle ciocche grigio-biancastre rendevano quel castano ancora più chiaro. Ma gli occhi erano molto simili.

«Ci conosciamo?» disse Daniel nello stesso momento. Lo conosceva? Era un cattivo segno? Non ricordava tutte le persone con cui era stato stronzo.

«Non proprio», fece, «Eri molto popolare alla Boston High School. Comunque, sono l’amica di Ellen White, ci siamo incrociati qualche volta».

Era fottuto. Poteva dire addio al lavoro.

«Vuoi ordinare, little boy

Alzò gli occhi al cielo, «Zia!»

«Veramente sarei qui perché mi hanno riferito che cercate personale. Vorrei chiedere un colloquio al proprietario».

«Sono io la proprietaria», fece il giro del bancone, parandoglisi davanti e porgendogli la mano, che Mcdaniel strinse immediatamente. «Patricia Gardner, piacere di conoscerti…»

«Daniel Mcdaniel», si presentò.

«Sembra uno scioglilingua», sghignazzò. Era una donna, ma ridacchiava come una sedicenne. Già gli piaceva, aveva senso dell’umorismo. «Lasciatelo dire, little boy suona decisamente meglio», strizzò l'occhio mentre Diana sembrava morire dall’imbarazzo per il comportamento della zia. «Ti hanno riferito giusto, cerco personale. Diana ha la scuola e non può aiutarmi sempre».

«A proposito di scuola», la ragazza lesse l'ora sul telefono, «Sono ufficialmente in ritardo se non vado via ora». Si slacciò velocemente il grembiule nero, afferrò lo zaino abbandonato su una sedia. «Comportati bene, zia! Ciao Daniel!» li salutò uscendo di corsa.

Danny sperava davvero che lei fosse all’oscuro dei diverbi avuti con Chris e Vick. Fece un respiro profondo, ricordandosi di fare un passo per volta, non poteva fuggire dalle conseguenze.

«Stai sereno.» La sua preoccupazione gli si leggeva in faccia? «Il colloquio sta andando bene, hai qualche esperienza?».

Quello era un colloquio? «Ho lavorato per qualche mese nel bar del college».

«Perfetto, little boy. Spero supererai il periodo di prova». Perché quella frase gli sembrava una minaccia? Danny si ritrovò a pensare alla seria possibilità della vendetta di Victor.

§

Le parole di quell’idiota di suo nipote non avevano fatto altro che rimbombargli nella testa. Gli sembrava essere passato solo qualche giorno da quando correva per casa con il pannolino sorridendo come un ebete. Doveva essere passato poco tempo da quando Hanna aveva in braccio quella peste dagli occhi celesti ed i capelli biondo ramati e lo chiamava “vecchio” con quella sua vocina stridula. Ma la sera passata con Victor gli aveva fatto capire che ormai era un uomo, e non si era reso conto di quando fosse avvenuto questo cambiamento, questa trasformazione.

In tutti quegli anni aveva cercato di fuggire dal suo dolore, ma non vi era riuscito. Lo aveva seguito impedendogli di vivere, il dolore del lutto lo aveva divorato da dentro, gli aveva lasciato un vuoto impossibile da riempire. Aveva imparato a conviverci, ma non l’aveva affrontato, non era riuscito ad andare avanti. Hanna. Leena. La sua bellissima Leena. Aveva lottato con il suo migliore amico Bob per conquistarla. Aveva lottato anche con lei, a dirla tutta, era una ragazza forte ed indipendente. Era una di quelle persone che un semplice sorriso sapevano risollevarti la giornata, farti stare bene. Era la sua forza. Ma doveva andare avanti e si sentiva tremendamente in colpa per questo. Lei non avrebbe mai avuto la sua età, non aveva e non avrebbe mai vissuto ciò che stava vivendo lui. Perché gli era stata strappata via l'opportunità di farlo. Hanna non avrebbe mai visto il futuro di Vick, si sentiva uno schifo, perché lui avrebbe potuto farlo. Scese dall’auto ed osservò il locale dell’amico, era arrivato il momento di ricominciare a vivere e provare ad essere felice. Doveva per sé, per Hanna, per Leena e per quella Testa di rapa. Entrò, la musica del piano faceva da sottofondo rendendo la sala più elegante di quanto non lo fosse già. Prima di affrontare il passato, però, constatò di aver bisogno di un aiutino. Quale miglior aiuto di un po' di alcool in corpo? Si sedette sullo sgabello, davanti al bancone. «Buona sera», salutò il ragazzo.

«Buona sera, signor Clark», gli sorrise, «Ti servo qualcosa?»

«Bourbon, decisamente Bourbon».

Charlie lo osservò poggiare un sottobicchiere sul bancone, poggiarci un bicchierino di vetro e versarci la bevanda richiesta. «Come sta Price?» domandò a bruciapelo.

Cosa doveva rispondergli? Doveva dirgli la verità? Doveva dirgli che passava notti insonni a rigettare il cibo nella tazza del water? O che notava che lentamente si stava spegnendo, stava perdendo peso e cercava di sorridere come se nessuno si accorgesse che stava fingendo? Suo nipote era un disastro, ma era forte. «Sta facendo del suo meglio», decise di dire la verità senza esporlo troppo. Bevve un sorso ed il sapore dell'alcol gli invase la bocca, facendolo rilassare un minimo. Le spalle tese si sciolsero rendendo la posizione sullo sgabello più sciolta. Aveva bisogno di fare quel fatidico passo prima di cambiare idea, o prima di sbronzarsi come un barbone in auto mettendo alla radio Yesterday dei The Beatles a tutto volume e cantarla a squarciagola. «Dov'è Bob?»

«Papà è nel suo ufficio», rispose con voce esitate mentre puliva distrattamente il pianale. Lo guardò in un modo che non riuscì a decifrare, corrugando le sopracciglia in modo apprensivo.

L'uomo si alzò con il bicchiere in mano, aveva bisogno di tutto l’aiuto possibile, «Vado a salutare quella vecchia volpe». Arrivò alla porta dell’ufficio di Harden. Perfino l'etichetta affissa alla porta con inciso il suo nome trasudava eleganza. Alzò gli occhi al cielo, bussò ed aprì la porta senza aspettare risposta, «Volpone, sono venuto a trovart-».

Si bloccò sulla soglia. «Charlie», lo chiamò Bob dalla sua scrivania. Si mosse nervoso sulla sedia girevole e sospirò.

«A quanto vedo qui abbiamo due traditori», bevve un lungo sorso del suo Bourbon chiudendosi la porta alle spalle. Aveva ragione, gli sarebbe servito.

«Ciao, Clark», lo salutò seduto su una delle due poltrone davanti alla scrivania.

«Price», calcò acido, allo stesso modo. «Che spiacere rivederti». Si sedette nel posto a fianco senza degnarlo di uno sguardo. Aveva deciso che avrebbe ignorato Thomas per il resto della permanenza.

«Charlie», lo ammonì Harden alzandosi, «Eravamo un trio di amici, non ti ho tradito».

Era vero. Charlie, Thomas e Bob erano amici fin dal liceo. Lui era il bello e affascinate Don Giovanni, Thomas era lo sportivo popolare e Bob era il più coscienzioso e maturo dei tre. Una specie di Grillo parlante che li teneva a bada dal fare idiozie. Era stato lui a far conoscere Price e la sorella e, con il senno di poi, si era sentito responsabile delle azioni del suo ex amico. Il trio si stava lentamente sgretolando quando lui ed Harden si erano innamorati di Leena. Nessuno dei due si era fatto da parte ed avevano lottato per concquistarla. Ma erano rimasti amici e pareva che il suo amico fosse andato avanti a testa alta. Adesso aveva una moglie e dei figli, non gli era andata male. Affatto. Il loro gruppo ristretto di amici era andato a farsi benedire nel momento in cui Thomas aveva tradito Hanna. Già non gli era andato proprio a genio che loro due stessero insieme, figuriamoci dopo.

«Eravamo, hai detto bene», lo seguì con lo sguardo dirigersi verso la sua scorta personale di alcolici e versarsi un bicchiere. Sentiva quelle iridi, simili a quelle di suo nipote, perforargli la pelle. Sentiva che voleva dire qualcosa da come si muoveva agitato sulla sedia.

«Esatto, prima che voi due mandaste tutto a puttane» disse con voce roca. Charlie era fuggito come se si potesse fuggire dal dolore e dai problemi.

«Touchè», convenne Clark.

«Anche tu metti il dito nella piaga, eh?» convenne sarcastico Price, bevendo un sorso del bicchiere che non aveva fatto altro che rigirarselo tra le mani.

Harden era sempre stato lo spartiacque, in mezzo a due fuochi. L’unico che voleva che la situazione si risolvesse e che si appianassero le divergenze. «Allora», ruppe il silenzio teso, durato fin troppi minuti. «Come sta Victor?» domandò sedendosi di nuovo alla scrivania.

Quello sguardo incominciava ad irritarlo. Non avrebbe detto come stava davanti al padre. «Te lo dico un altro giorno», si protese in avanti e sussurrò: «Potrebbero sentirci. Ci sono spie ovunque». Vick aveva sicuramente ereditato da lui il sarcasmo inopportuno e fuori luogo.

«Andiamo», sbuffò il biondo, «Potresti anche essere gentile per una cazzo di volta».

«Se ti interessa di tuo figlio, potresti anche chiamarlo» rispose acido.

«Più di provare a chiamarlo e mandargli messaggi ogni giorno?!» alzò la voce, «Se mi presentassi a casa potrebbe denunciarmi». Roteò il bicchiere facendo avviare il whisky alle pareti.

«Aspetta, cosa?»

«Già, cerco di contattare mio figlio ogni giorno, Clark. Ma lui continua a darmi il ben servito».

Era passato un bel po' da quella cena dove quella Testa di rapa gli chiedeva consiglio, pensava avesse deciso. Ma forse, per certe cicatrici, ci voleva del tempo affinché smettessero di fare male. O erano le ferite? «Non lo sapevo, non me ne ha parlato», continuava a voler fare tutto da solo. Tra loro cadde ancora quel silenzio fastidioso prima che il corvino si decidesse a prendere parola, «I sintomi della Chemioterapia si stanno facendo sentire. È debole e devo forzarlo a mangiare, ma ce la sta mettendo tutta».

Thomas si passò una mano tra i capelli per poi passarsela sul viso, «Merda, vorrei vederlo».

«Victor è un ragazzo forte».

«È un uomo, Bob. Non so quando lo sia diventato, ma lo è. Giusto ieri sera mi ha fatto una bella lavata di capo sull’andare avanti». Sapevano a cosa si riferisse.

«Ha ragione», asserì il proprietario del locale. «È per questo che sei qui, vero? Per smettere di evitare il passato», quell'uomo era decisamente troppo intelligente e maturo per una versione di sé alquanto brilla. Non avrebbe mai potuto zittirlo con battute sagaci.

«Già», ammise rilassando le spalle. «Perciò, Mr. Muscolo, non demordere. Probabilmente si starà torturando e rimugianando, da più tempo di quanto abbia fatto io, con questi stessi pensieri. Devi solo avere pazienza ed aspettare». Price si limitò ad annuire lentamente, «Ha solo bisogno di tempo».

«Può anche essere un uomo, ma è giovane. Ha vissuto situazioni che nessun ragazzo della sua età avrebbe dovuto affrontare», intervenne Harden.

«Nonostante io gli abbia palesemente parlato male di te», lo stuzzicò Charlie. Stava mentendo, si era sempre astenuto, ma vederlo sudare freddo lo soddisfaceva. Di fatti, lo osservò con la coda dell’occhio mentre beveva un sorso di Bourbon, irrigidirsi nelle spalle.

«Charlie», lo riprese il Grillo parlante.

«Fanculo», aggrottò la fronte finendo tutto il whisky in un sorso. Lasciò il bicchiere sulla scrivania mentre si alzava, «Meglio che vada a casa».

«O la bellissima segretaria si preoccuperà», sorrise strafottente.

«Finiscila, Charlie».

Corrugò le sopracciglia bionde, «Fanculo, Clark». Fece un cenno di saluto con il capo a Bob ed andò via.

«Sei sempre il solito», sbuffò.

«Sono tornato», alzò in aria il bicchiere, come per brindare, prima di berlo in un sorso. Vick aveva ragione, doveva ricordarsi di vivere.

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