E il tempo scivola via

By Maschera_di_fumo

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Premessa
Playlist
Dedica
Prologo
[...]
Capitolo 1
Capitolo 2
Capitolo 3
Capitolo 4
Capitolo 5
Capitolo 6
Capitolo 7
Capitolo 8
Capitolo 9
Capitolo 10
Capitolo 11
Capitolo 12
Capitolo 13
Capitolo 14
Capitolo 15
Capitolo 16
Capitolo 17
Capitolo 18
Capitolo 19
Capitolo 20
Capitolo 21
Capitolo 22
Capitolo 23
Capitolo 24
Capitolo 25
Capitolo 26
Capitolo 27
Capitolo 28
Capitolo 29
Capitolo 30
Capitolo 31
Capitolo 32 (Seconda parte)
Capitolo 33 (Prima parte)
Capitolo 33 (Seconda parte)
Capitolo 34 (Prima parte)
Capitolo 34 (Seconda parte)
Capitolo 35
Capitolo 36 (Prima parte)
Capitolo 36 (Seconda parte)
[...]
Capitolo 37
Capitolo 38
Capitolo 39
Capitolo 40
[...]
Epilogo

Capitolo 32 (Prima parte)

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By Maschera_di_fumo

La mattina seguente, aveva sentito la porta del piccolo appartamento chiudersi dietro Charlie. Non era più riuscito a conciliare il sonno, rimanendo a fissare quel soffitto della propria stanza, stanco. Si girò su un fianco, ancora nel letto, sotto quelle coperte calde e sospirò rumorosamente. La testa gli doleva, gli occhi gonfi ed arrossati. Aveva pianto, non era riuscito a trattenersi. Dopo aver raccontato a Charlie della sua vigliaccheria, di essere scappato dopo aver visto Hanna morire, Victor non aveva potuto trattenersi. Aveva rivissuto l'accaduto, il dolore si era fatto più forte, dopo mesi che lo spingeva giù in fondo. Il petto sembrava dolergli, il cuore si era stretto e al sol pensiero della madre, adesso, gli occhi gli si inumidivano. Si mise in posizione fetale, si strinse a sé arpionando le mani sui suoi gomiti appunti. La pelle era calda, sotto il piumone scolorito. Aveva mai avuto tempo per elaborare la perdita? Aveva mai avuto tempo di vivere il lutto? Dopo il funerale, le giornate erano un susseguirsi di problemi, bollette, lavoro… Si era impedito di pensare, sapeva che sarebbe crollato, immerso nel suo dolore solitario. La suoneria del telefono lo riportò nel presente facendolo sussultare. Sbuffò come se avesse appena udito la sveglia dopo un sonno conciliante, si distese supino e lesse l'orario sulla sveglia, silenziosa, sul comodino. Erano le sei del mattino ed il telefono lampeggiava sul comodino. Chiunque fosse, doveva essere un folle con istinti suicidi. Puntò il gomito sul materasso e lo afferrò con l’altra mano. Aggrottò le sopracciglia, confuso, quando lesse il nome sullo schermo. Che diavolo voleva? Con tutta la lentezza da bradipo che possedeva, accettò la chiamata e se lo portò semplicemente all’orecchio.

«Era ora che rispondessi, Price.» la voce era irritata, dura, sembrava si stesse trattenendo dal dare di matto al di là del telefono.

«Sai, solitamente a quest’ora dormo», mentì, «E a dir la verità, anche tu, Kevin».

Era certo che avesse alzato gli occhi al cielo, si erano sempre detestati, loro due, e Vick non aveva fatto nulla per appianare le loro divergenze, anzi. Sputava sempre battute sarcastiche che lo facessero irritare, lasciando Daniel a fare da spartiacque. «Adesso non ho nessuno che copre i miei ritardi in officina», asserì seguito da dei minuti di silenzio che parverò ore, tesi.

Cosa doveva rispondere? Vick sapeva si riferisse a Danny, era l’unico che lo avrebbe coperto. Quella consapevolezza lo infastidì facendogli aggrottare la fronte, raramente aveva preso le sue parti, perfino per le cose più banali. Si ridistese sul materasso, continuando a tenere il cellulare all’orecchio. Thompson udì il fruscio delle lenzuola, il teppista continuava a sentire il respiro del ragazzo. Prese un respiro profondo, doveva calmarsi. Quella era una ferita ancora aperta che prima o poi avrebbe dovuto affrontare, ma non aveva intenzione di farlo alle sei del mattino, dopo una notte insonne, passata piegato sulla tazza del water a rigettare anche il pranzo di Natale dell'anno scorso. Fece per parlare, ma fu interrotto.

«Lo hai allontanato da me», sibilò con rabbia.

«Chi?» gli stava dando l’occasione di evitare il discorso. In realtà, era lui che stava provando ad evitarlo. Lo stava praticamente implorando di inventarsi qualsiasi scusa plausibile, e non. Lui avrebbe finto di crederci.

«Non fare il finto tonto, Price» grugnì seccato, «Sappiamo entrambi che sto parlando di Danny».

Non erano d'accordo nemmeno sul fatto di evitare di parlarne. Era ovvio, altrimenti non l’avrebbe chiamato. «Non sono stato io ad allontanarlo da te, sei stato tu a farlo.» chiuse lentamente gli occhi, era già stremato. Sapeva benissimo dove voleva andare a parare. Merda.

«Non dire cazzate! Mi ha detto che eravate fidanzati, lo hai reso frocio come te!»

Scoppiò a ridere, la stanchezza gli impedì di trattenersi. I freni inibitori erano andati a farsi benedire quella notte passata con suo zio, la situazione poteva degenerare. Sapeva che lo avrebbe fatto arrabbiare più di quanto non lo fosse già, anche se non lo aveva mai visto sorridergli o trattarlo con gentilezza.

«Che cazzo ridi?! Giuro vengo lì e- » urlò, sentì anche un tonfo, probabilmente aveva battuto un pugno su una superficie. Un tavolo?

«A rigor di logica, dovresti esserlo diventato anche tu, non credi?» domandò ironico con la voce intrisa di ilarità. «Senti», di colpo si fece serio, «Io e Daniel non stiamo più insieme, so che ha fatto coming out confessando i suoi sentimenti e non dovrei, non vorrei, immischiarmi. Ma, a te, sapere cosa, o meglio chi, gli piace e con chi va a letto, cosa cambia? È sempre lo stesso, cambia solo il fatto che tu lo sappia. Non puoi impedirgli di essere se stesso.» Osservò il soffitto senza guardarlo davvero, strinse la presa sull’apparecchio vicino all'orecchio. «Sapeva che non potevi ricambiarlo».

«Sapeva anche come avrei reagito», sottolineò piccato. Lo stava facendo innervosire, stava giocando con il fuoco.

Peccato che il teppista non avesse paura di lui, cosa poteva fargli? L’unica seccatura era sentirlo gridare direttamente nel suo povero orecchio, che già stava rimpiangendo quel silenzio assordante che gli aveva tenuto compagnia tutta la notte. «A volte…» iniziò, per poi correggersi dopo aver sospirato. «Spesso, bisogna fare qualcosa affinché le cose cambino, anche mettere un punto, voltare pagina. Lui sapeva come avresti reagito, ma che scelta aveva? Continuare a mentire? Lo avresti preferito?»

«Si», rispose d’impetò per poi bloccarsi, ghiacciato. Rimase in silenzio per qualche minuto, poi il suo respiro si fece meno rigido. «No», sussurrò come se non volesse farlo sentire nemmeno a se stesso.

Voleva chiudergli il telefono in faccia, era irritato. Cosa c'era da accettare? Daniel era libero di vivere la sua sessualità senza dover essere giudicato da un idiota, o coglione come spesso si divertiva a chiamarlo, come lui. Era libero di vivere la propria vita a modo suo senza tener conto a nessuno, come faceva lui, come faceva Kevin. «Senti», asserì secco, il filtro che collegava il cervello alla bocca ormai nello scarico. «Se vuoi essere suo amico, devi accettarlo così com'è», si maledisse mentalmente per quella scelta di parole, «E devi dargli tempo».

«Come puoi chiedermi una cosa del genere?!» domandò con un tono amaro nella voce, simile al sarcasmo.

«Non te lo sto chiedendo, dimentichi che non mi importa di ciò che farai, della vostra amicizia. Anche se non dovrei, e non lo meriti», sottolineò, «Ti sto consigliando un modo per rimediare a- », s’interrrupe. Stava davvero per dire “alla tua omofobia del cazzo”?! «A ciò che hai fatto», ringraziò mentalmente i freni inibitori tornati momentaneamente al loro posto.

«D'accordo», annuì dopo altri minuti di puro silenzio. Sembrava… Stanco? Arrendevole? Esausto? E per un attimo, Victor si chiese se stesse dormendo come si deve e non avesse preso la scusa dei ritardi in officina per coprire la sua insonnia, per aver perso il suo migliore amico.

«Perché hai chiamato me, Kevin? Perché hai chiamato me, che odi così tanto, un omosessuale, e per di più l’ex del tuo migliore amico per parlare proprio di quest’ultimo?»

«La noto anche io l'ironia», ridacchiò flebile.

«Questa è un’ironia che mi irrita», si sollevò sedendosi sul bordo del letto.

«Brucia, come quella che hai sempre rivolto a me», sottolineò.

«Ti blocco, a mai più omofobo del cazzo», cantilenò chiudendo la chiamata senza attendere che rispondesse con qualche altra frecciatina delle sue. Glielo aveva detto comunque, non gli importava più nulla. Lo bloccò, preso dall’esaurimento e lasciò malamente il telefono sul materasso. Perché lo aveva aiutato a riappacificarsi con Daniel? Lo aveva fatto per lui? No, era certo che lo aveva fatto per il suo ex, perché sapeva come ci si sentiva ad aver paura di mostrarsi, di essere se stessi. Aver paura di quegli occhi che si incollano malamente addosso fino a rendere sempre più difficili i movimenti più quotidiani, anche camminare. Poggiò i gomiti sulle gambe ed intrecciò le dita addocchiando, di tanto in tanto, il cellulare abbandonato tra quei tessuti candidi. Danny stava tentando di andare avanti, di non aver paura di essere, di vivere come voleva. Le scuse dall’altra parte della porta del bagno, l’ultima volta che si erano visti, risuonarono come un eco nella sua testa. Aveva sbagliato? Perché aveva avuto quella reazione così esagerata? Si passò entrambe le mani sul viso, sapeva benissimo il perché. Si era accorto che a Daniel serviva una persona che lo capisse, che proteggesse il suo segreto e lo facesse stare bene. Victor voleva un posto sicuro in cui rifugiarsi per fuggire dai propri problemi. Peccato che non avesse funzionato, aveva solo aumentato esponenzialmente la sua solitudine. Fissò il telefono, lo afferrò, scrisse velocemente un messaggio e lo inviò, per poi lasciarlo di getto sul materasso, come se si fosse scottato. Si morse il labbro inferiore e si costrinse ad alzarsi e dimenticarsi di quel messaggio appena inviato.

Quando suonarono alla porta, Vick aveva appena finito di vestirsi e stava tentennando sul prepararsi la colazione. Non aveva alcuna fame, la bocca dello stomaco era stretta e sentiva che avrebbe rigettato tutto se avesse mandato giù qualsiasi cosa. Ma chi poteva essere a quell’ora? Tra meno di un’ora avrebbe dovuto dirigersi verso la Boston High School. Quando aprì la porta, si ritrovò dinanzi il suo bel biondino allegro e sorridente. Aveva un sorriso ad illuminargli il viso, le iridi ambrate sembravano caramello fuso.

«Buon giorno», lo salutò entrando e poggiando lo zaino a terra. «Sembra che questa mattina dovrai accompagnarmi tu a scuola, Ambrogio».

Aggrottò la fronte, «Perché sei qui?» Lo osservò con sospetto. Non che non gli facesse piacere, ma si sarebbero visti tra meno di un’ora.

«Mio padre passava di qui, mi sono fatto lasciare per poter fare colazione insieme, da soli», gli accarezzò le dita.

«Te lo ha chiesto il vecchiaccio, vero?» chiese conferma, sospettoso, riferendosi a suo zio.

«In parte», fece il vago passando lo sguardo su tutto l'appartamento per evitare abilmente il suo, «Può darsi che eravamo preoccupati».

«Sto bene», sbuffò dirigendosi in cucina. No, non stava bene. Non gli aveva raccontato della visita del maggiore dei Mcdaniel, non gli aveva raccontato della sigaretta e lo pseudo risveglio con quella telefonata di Kevin non aveva certo aiutato. Erano settimane che si portava questo segreto, all’inizio non voleva nemmeno dirglielo perché avrebbe peggiorato le cose con Christopher, oltre ad essersi detto che non avrebbe più fumato. Odiava ammetterlo, ma Daniel aveva avuto ragione, quella volta. Ovviamente, non lo avrebbe mai ammesso ad alta voce.

Chris gli avvolse le braccia alla vita facendo aderire il proprio petto alla sua schiena sempre più spigolosa. «Stai diventando un pessimo bugiardo», gli sussurrò teneramente all’orecchio.

«Lo so», sospirò beandosi di quel calore. Le spalle si afflosciarono, la schiena si distese di poco. La tensione era comunque presente, sapeva cosa lo attendeva.

Ridacchiò. «Allora?» Gli intimò di sputare il rospo.

«Daniel è venuto a trovarmi», poggiò i palmi sul piano della cucina e lo strinse.

«Quando?»

«Circa due settimane fà», il biondo si staccò, lasciandolo infreddolito da quella mancanza di contatto. Chiuse gli occhi e si costrinse a continuare prima che il suo ragazzo traesse a conclusioni errate, «Ho fumato una sigaretta ed ho finito per litigare ancora con lui».

«È successo qualcosa tra voi due?» Il suo tono di voce era imperscrutabile.

Price spalancò gli occhi e si voltò finalmente a guardarlo. Stringeva i pugni ai fianchi, le nocche erano diventate bianche. Le spalle si erano irrigidite ed i suoi occhi puntavano dritti nei suoi azzurri. «Voleva qualcuno con cui parlare e mentre fumavamo insieme, il discorso è degenerato e…» deglutì costringendosi a non distogliere lo sguardo, «Mi sono riscoperto rancoroso. Le ferite che pensavo fossero chiuse bruciano ancora».

Si osservarono per alcuni istanti mentre le pupille di White saettavano da una iride all’altra, in attesa.

«Per lui provo solo rabbia», le spalle del biondino si rilassarono, «Ed anche se non sono pronto a perdonarlo, o almeno non del tutto. Ho cercato di aiutarlo a rialzarsi, questa mattina».

«Questa mattina?» alzò un sopracciglio ed allentò le dita chiuse sui palmi.

«Kevin ha saputo che sono stato insieme a Daniel, la loro amicizia è in crisi, ed anche se non volevo immischiarmi ci sono capitato in mezzo», sospirò passandosi le mani sul viso, esausto al sol pensiero.

Adesso iniziava ad unire i tasselli, Dean gli aveva raccontato che il rapporto con il fratello, dopo il coming out, era teso. L'unico che lo avrebbe ascoltato era Victor, nonostante sapeva che lo avrebbe fatto soffrire, com'era stato. «E la sigaretta?»

Sussultò, convinto che se ne fosse dimenticato. «Lo avrei ascoltato a patto che me ne desse una», ammise. «Mi dispiace, dopo mi sono sentito una merda. Non lo farò più.» Abbassò la testa, sapeva che avrebbe vanificato anche i sacrifici di chi gli stava intorno, nonostante avesse tentato di allontanare tutti. Anche loro stavano lottando con lui, al suo fianco. Sentì un sospiro e poi delle braccia calde lo avvolsero di nuovo.

«Se non commettessi errori, penserei che tu sia perfetto», lo strinse di più a se.

«Ma io sono perfetto», sghignazzò. Aveva decisamente un pessimo tempisto per il sarcasmo.

«Se lo fossi non mi piaceresti così tanto», gli sussurrò all’orecchio facendolo arrossire. Avrebbe voluto dirgli che, se non fosse stato così perfettamente imperfetto, non si sarebbe mai innamorato di lui. Ma si trattenne, come se avesse paura di dirlo ad alta voce. «Mi prometti che non fumerai più?»

«Prometto», affermò senza esitare mentre lo stringeva più a sé.

«Bene», annuì lui. Lo prese per le spalle, allontanandosi quanto bastava per guardarlo in volto. La tensione era svanita, ma gli occhi rossi intrisi di stanchezza, le occhiaie vistose, la pelle sempre più pallida, erano sempre lì. Gli sorrise dolcemente, avvicinò lentamente il viso al suo, i nasi si sfiorarono, poi toccò alle loro labbra. «Adesso vado a rendere figlio unico quella regina delle pettegole di Dean», si staccò dirigendosi verso l'ingresso, «Quando lo vedi, dagli le condolianz-». Una risata lo bloccò dal riprendere lo zaino. Era come ghiacciato da quel suono, dove lo aveva già sentito? Sollevò lentamente lo sguardo, come se la risata del teppista lo avesse fatto ubriacare. Da quando si erano conosciuti, non aveva mai riso di cuore come in quel momento, sembrava avesse il cuore un po' più leggero. Avevano vissuto insieme molti momenti difficili e spensierati come i cicli di chemioterapia, le chiacchierate nel letto, le litigate in auto per decidere la musica alla radio… Lo aveva già sentito ridere in quel modo, ne era certo. La voce sembrava accarezzare le pareti della cucina per farle baciare dalla luce calda del sole che entrava dalle finestre.

Era stato in terza liceo, nei corridoi caotici di scuola. Christopher era appoggiato con la schiena sugli armadietti in metallo mentre attendeva che Dean si decidesse a chiudere il suo per andare a lezione. Ricordava vagamente le lamentele dell’amico, che in quel periodo litigava spesso con suo fratello. “Si comporta da stronzo”, diceva ogni volta e quella mattina non aveva fatto eccezione. Daniel e i suoi amici erano dinanzi alla fila di armadietti opposta a loro e la giovane pettegola stava facendo di tutto per ignorarlo e far sentire la sua rabbia. Il biondino, dal canto suo, sbuffava annoiato senza immischiarsi nella lite. Si stava limitando ad ascoltare l'amico senza esporsi, non erano affari suoi infondo, non lo riguardava. Quando una risata attirò la sua attenzione, facendolo ruzzolare fuori dalla realtà. Quel teppista dai capelli blu elettrico, che girava sempre intorno al maggiore dei Mcdaniel, stava ridendo, ma la sua risata sembrava risaltare sul brusio di sottofondo degli altri studenti e sulle voci dei suoi amici. Non riusciva a staccargli gli occhi di dosso, il septum risaltava ancora di più su quel naso arricciato, quella scintilla di ilarità negli occhi era vivida. E quando Price si voltò, probabilmente sentendosi osservato, incrociò lo sguardo con il suo. Occhi negli occhi ed il mondo sembrò essere divenuto muto, come quando per sbaglio nonno White si sedeva sul telecomando e pensava che la sordità fosse ormai arrivata.

White si rese conto che lo aveva stordito, come fosse stato colpito da un teaser o si trascinasse una sbronza colossale da giorni. Lo aveva lasciato in uno stato confusionario fino a costringersi a dimenticare quel momento, pur di riprendere il controllo di sé. Aveva spinto quei pensieri dentro di sé a forza, seppelliti in qualche anfratto della sua testa fino a distaccarsi dagli affetti, dagli eventi che lo avrebbero scosso. Ed ora lo aveva lì, aveva potuto udirlo solo lui quella volta. Gli scaldava il petto ed annebbiava la mente come anni fà. Lasciò la presa sulla spallina dello zaino, che fece un leggero tonfo a terra, quasi vuoto, e come un’automa si avvicinò a Vick con ampie e veloci falcate, fino a stringere quel corpo, sempre più fragile, a sé.

«Da Signor Stalker a Signor Bodiguard geloso è un attimo» lo punzecchiò, trattenendosi dal ridacchiare, per sembrare il più serio possibile, mordendosi le labbra. Si sentiva più sereno, come se quel masso enorme che portava sulla schiena da anni si fosse alleggerito, nonostante tutto.

Dal canto suo, White sembrava concentrato su ben altro, lasciando cadere quella frecciatina. I suoi occhi erano puntati sul septum, una mano era sul suo fianco per stringerlo a sé e l’altra accarezzava il suo viso. Baciò la punta del naso per poi lasciarne una scia su tutto il volto fino a toccare le labbra. Le leccò e Price le schiuse permettendo di sfiorargli la lingua con la sua, lentamente, come a gustarsi ogni movimento, sensazione, sapore. Il tempo nella loro bolla sembrava essersi fermato, non dovevano andare a scuola, non era mattina, non era sera. Erano solo loro in un tempo indefinito.

Inforcò le dita tra quei biondi ricci mentre l’altra mano scorreva sotto la maglietta, incerta. I polpastrelli sfioravano la pelle calda del fianco, della pancia.

«Merda», sussurrò tra le labbra agganciando gli occhi sabbia ai suoi azzurri.

«Merda», ripeté Victor con un leggero ghigno divertito e provocante, sbruffone come se avesse la situazione sotto controllo. Per poi rimarenere con il fiato mozzato quando le labbra del ragazzo si poggiarono lungo il suo collo. Le sue mani gli strinsero le avambracci, mentre il biondino lo teneva per la vita per ottenere sempre più contatto, sempre più calore. «Merda», gemette ancora sottovoce.

Il telefono di Vick iniziò a squillare e Chris imprecò poggiando la fronte sulla spalla del teppista. Com'era possibile che li interrompessero ogni volta? Era una coincidenza? Il destino ce l’aveva con loro? Doveva darsi all’omicidio seriale? «Non è possibile».

«Eppure», ridacchiò con un po' di rammarico e sollievo allo stesso tempo. Se non fossero stati interrotti? Se fossero andati oltre? Christopher avrebbe visto il suo corpo sempre più pelle ed ossa, un corpo che non sentiva più suo. Un corpo sempre più malato, emaciato. Gli sarebbe piaciuto? Lo avrebbe trovato ugualmente attraente? Osservò lo schermo del telefono ed aggrottò la fronte, «Credo di dover rispondere, Signor Stalker geloso».

Sbuffò, «Io intanto preparo la colazione». Gli baciò le labbra, «Non me ne sono scordato, sono sicuro che non hai mangiato».

«Te ne eri scordato», sottolineò sornione con una scintilla di malizia nello sguardo mentre si mordeva il labbro inferiore arrossato dai baci, per poi rispondere finalmente alla chiamata.

§

Trascinò pesantemente i piedi, nelle sue ciabatte di gomma nere, sul parquet. Oscillando come un ubriaco tra la fase REM e il mondo reale. Non si spiegava perché continuasse a svegliarsi presto la mattina, era stato licenziato da lavoro ed aveva abbandonato il college, non ce n'era alcun bisogno. Era certo che ormai i suoi genitori lo sapessero, era evidente. Rimaneva quasi tutto il giorno a casa a poltrire e da quando era tornato non aveva toccato libro, nemmeno per riporlo nella libreria di camera sua. Stavano aspettando che Daniel si decidesse a renderli partecipi delle sue scelte di vita, peccato che lui non avesse il coraggio di dire loro le cose come stavano, soprattutto dopo ciò che era successo al suo ultimo atto di coraggio. Era stato licenziato e per spiegarne il motivo avrebbe dovuto fare coming out. Non era pronto, era incastrato. Era questione di tempo prima che gli facessero domande e avrebbe potuto abilmente evitarle se avesse trovato qualche lavoro di ripiego. Avrebbe procrastinato quel confronto fino all’ultimo momento, lo sapeva lui e lo sapevano loro. Era un codardo.

«Buon giorno», Dean era seduto al tavolo della cucina a fare colazione con una tazza di latte e cereali. Ultimamente sembrava essersi ripreso, era tornato a sorridere e a spettegolare peggio di prima. Doveva essere successo qualcosa che gli era sfuggito, ne era quasi certo. L’altra opzione era che fosse stato sostituito da qualche razza aliena o manovrato da qualche parassita. Pensò anche di smetterla di vedere film fantascientifici prima di andare a dormire.

Grugnì di risposta, dirigendosi verso il suo caldo e amaro caffè americano già pronto nella caraffa, senza nemmeno rivolgergli uno sguardo. Erano sempre stati l'opposto. Se Danny non fosse preoccupato, per qualsiasi cosa lo fosse, avrebbe dormito tutto il giorno sotto quelle calde e morbide coperte. Mentre Dean, fin da piccolo, si svegliava presto fresco, pimpante e soprattutto rumoroso, fin troppo per i suoi due neuroni che facevano fatica a carburare appena sveglio.

Ricordava quando erano piccoli, avevano passato l’estate a casa dei nonni, in campagna. Lui aveva sempre odiato andarci, in quel posto non c'era nulla, se non campi pieni di verde, e aveva dovuto lasciare gli amichetti di allora. Mentre Dean amava quel posto, gli brillavano gli occhi. Si svegliava presto per aiutare la nonna e passava pomeriggi interi ad aiutare il nonno nell’orto e con gli animali. A Daniel non avrebbe dato nessun problema, se non fosse stato rumoroso quando si alzava all’alba dal letto dopo aver passato la notte insonne a farmi divorare da quelle bestie di Satana, comunemente chiamate zanzare.

Afferrò con un gesto automatico, dettato dall’abitudine, il manico della caraffa con il caffè fumante e lo versò nella tazza. L’avvicinò alla bocca, soffiò e beve finalmente il nettare degli dei sceso in terra sotto forma di caffè, per risvegliarlo come uno zombie che si prepara per l'apocalisse. Si voltò verso il fratello appoggiandosi sul bancone in marmo della cucina. «Mamma e papà?» non li aveva ancora visti, solitamente facevano colazione con loro prima di andare a lavoro.

«Mamma è appena rientrata dal turno notturno in ospedale, mentre papà è partito prima perché pare debba incontrare un cliente fuori città», rispose leggendo distrattamente l'etichetta sulla scatola dei cereali. «Pensavo lo sapessi».

La verità era che ultimamente era distratto, nulla era andato come voleva. E domande, ricordi e soprattutto pensieri che aveva evitato per troppo tempo, si erano fatti strada prepotenti nella sua testa. Aveva riconsiderato ogni scelta fatta, ogni scelta non fatta, la sua vita di prima che finisse la scuola, il suo tentativo al college e il suo licenziamento al suo coming out. Guardò il caffè fumante nella tazza e solo allora si rese conto di essere rimasto in silenzio per diversi minuti. «Sembra che il criceto Larry abbia ricominciato a suonare il violino», ghignò mentre sorseggiava con gli occhi ancora intrisi di sonno, sfoggiando una tranquillità e scioltezza che in quel momento non gli apparteneva affatto.

«Invece sembra che ultimamente Larry, il criceto violinista, ci abbia lasciati e che tu sia in lutto», ribadì tra un boccone e l'altro. Touchè. Sapeva che non gliel’avrebbe fatta passare liscia, non questa volta.

Entrambi non distolsero nemmeno per un secondo lo sguardo, puntato l’uno negli occhi dell'altro. Sapevano che era arrivato il momento di parlare e di ritrovare quel rapporto fraterno che si erano persi lungo la strada.

Il maggiore sospirò, cedendo per primo. «Prima tu?» lo invitò ad aggiornarlo. Prima lo facevano sempre, soprattutto quando avevano entrambi bisogno di parlare, di un consiglio o semplicemente di una spalla su cui piangere. Sarebbe stato impossibile avere un rapporto identico, niente sarebbe tornato come prima, ne erano consapevoli. Ma potevano provare ad averne uno più maturo, comprensivo e non sarebbe stato facile.

Annuì, «Ho risolto con Wendy. Ci siamo lasciati». Lo aggiornò con tono pacato, del Dean a pezzi non ce n'era più alcuna traccia.

«Pensavo di vederti con il cuore spezzato mentre cerchi di sfogarti mangiando cioccolatini al liquore sul divano e piangere guardando “Le pagine della nostra vita”». Lo scrutò come se gli stesse facendo i raggi x. Si erano lasciati, non riusciva a capacitarsi di come fosse riuscito ad affrontare una rottura con quella tranquillità. Come poteva essersi ripreso così velocemente, se prima che Wendy gli avesse dato il ben servito, era diventato un ameba?

«Sei mio fratello, ma quando dici queste stronzate sono sempre sul punto di rinnegarti», bofonchiò con la bocca piena.

«Perché? Di solito non guardi quel film quando sei triste?» domandò sarcastico sedendosi sullo sgabello davanti. Lo aveva costretto a guardarlo con lui e da allora non aveva smesso di rinfacciarglielo e prenderlo in giro, anche se in fondo, ma molto in fondo, il film non gli era dispiaciuto. Ma non lo avrebbe mai ammesso, nemmeno in punto di morte.

Alzò gli occhi al cielo, pregando che l’autocontrollo non lo abbandonasse prima del previsto. A scuola lo aspettava anche il sarcasmo di Chris. «Entrambi abbiamo capito che non ci amavamo davvero, eravamo innamorati dell'idea di noi che ci eravamo fatti per tutti questi anni» spiegò con una tranquillità ed una maturità che Danny non gli aveva mai visto.

«E bravo il mio fratellino! Stai crescendo», era a disagio. Da quando era divenuto un uomo? Da quando sapeva cosa fosse l'amore? Lui, alla sua età, aveva fatto idiozie di cui si pentiva ancora. Da bravo codardo qual’era. E adesso, suo fratello minore, stava affrontando i problemi in modo responsabile e maturo mentre lui sentiva che la sua vita era stata gettata nel secchio dell’umido da molto tempo, ormai. Si sentiva spaesato come un adolescente che muove i primi passi verso il mondo.

«Adesso tocca a te, sputa il rospo. Perché sembri in lutto per Larry, il criceto violinista?» il suo vago tentativo di cambiare discorso era fallito miseramente. Dean lo fissava e lo rimproverava con lo sguardo, non gli era sfuggito.

«Va bene», bevve un lungo sorso di caffè, come se quei pochi minuti potessero essere illuminanti per evitare come un codardo quella conversazione. Non lo fu, non gli venne alcuna scusa per posticiparla. Sospirò poggiando la tazza sul pianale, «Sono stato licenziato dall’officina dei Thompson».

«Non capisco», corrugò le sopracciglia scure, «Tu e Kevin non siete amici? Cos’hai fatto per farti licenziare?»

«Coming out», rispose secco, come se avesse tolto un cerotto con uno strappo veloce.

«Coming out», ripeté, o meglio scandì come per assicurarsi di aver capito bene. Poi sembrò realizzare e i suoi occhi cerulei si sbarrarono, «Hai fatto coming out con i Thompson?!»

«Solo con Kevin e già che c'ero mi sono anche dichiarato», bevve, a disagio. Aveva sbagliato ancora? Avrebbe dovuto continuare a mentire? Il suo saggio e pettegolo fratellino lo avrebbe rimproverato? Non lo sapeva, non aveva il coraggio di alzare lo sguardo su di lui e vedere come aveva preso la notizia della dipartita di Larry, che non avrebbero più potuto sentirlo suonare. Si limitò ad osservare la sua tazza, ormai semi vuota, con molto interesse. Il silenzio teso non lo incoraggiava.

Dean non sapeva cosa dire. Voleva chiedergli come fosse andata, ma sapeva che avrebbe toccato un nervo scoperto e dal licenziamento non era finita con un lieto fine. Adesso riusciva ad unire tutti i pezzi del puzzle, i strani comportamenti del fratello avevano assunto finalmente un senso. Aprì bocca senza riuscire a fermarsi, «Come ti senti?» Era una domanda banale, lo sapeva.

Dall’altra parte, delle iridi verdi si decisero ad alzarsi e posarsi sulle sue. Lo aveva spiazzato. «Io…» balbettò incerto. Inspirò ed espirò profondamente, cercando una sicurezza che non aveva. «Sembra che sul mio cuore ci abbiano buttato benzina, dato fuoco per poi passarci con un camion pieno di elefanti», fece un sorriso sghembo ma uscì flebile con una punta di amarezza. «Ho solo bisogno di tempo».

«Che non hai», gli fece notare.

«Che non ho», sospirò.

«Mamma e papà prima o poi faranno domande e non potrai più evitarli». Aveva maledettamente ragione. Vedendolo sempre a casa la scusa delle ferie non avrebbe più retto, per non parlare dell'espressione di disapprovazione quando aveva annunciato loro che si era trovato un lavoretto negli intorni, nonostante avesse le lezioni da seguire. Ma Daniel non era pronto per affrontarli, aveva appena iniziato ad affrontare sé stesso dopo essere fuggito per anni. «Qual'è il piano, socio?» domandò con un occhiolino ammiccante, cercando di tranquillizzarlo.

«Trovare un lavoro e poi sputare finalmente il rospo. Che ne pensi, suocera?» sghignazzò dietro la sua tazza, prima di finire in un sorso il caffè rimasto.

«Era socio, non suocera» borbottò offeso, «Fottiti».

«Solitamente sono gli altri che lo fanno», lo punzecchiò alludendo a ben altro, con tanto di occhiolino ammiccante.

«Non era un dettaglio di cui volevo venire a conoscenza», fece notare tra l'imbarazzo e la condiscendenza. Alzò gli occhi al cielo, «Meglio che vada a prepararmi, prima che tu mi renda partecipe dei dettagli». Si alzò per mettere la ciotola nel lavandino.

«Ma come, di già?» sghignazzò osservandolo. «Io pensavo volessi sapere i dettagli piccanti!» cantilenò alzando la voce mentre il suo pettegolo fratellino spariva dalla cucina indirizzandogli il dito medio. Rimase solo in cucina. Il sorriso si spense quasi immediatamente sulle sue labbra e il suo sguardo si riabbassò sulla tazza ormai vuota. I pensieri non gli davano alcuna tregua, non riusciva più a scappare da essi. Si sentiva un fallito. La sua vita sarebbe dovuta cominciare dopo il diploma, invece non aveva concluso niente. Nulla era andato come voleva, la sua vita era stata un eterna fuga da ciò che era. Solo di recente si era accettato e i nodi erano venuti dolorosamente al pettine. Era solo. Era stato così impegnato a creare un immagine di sé, non veritiera, che aveva tralasciato il resto. Aveva fatto piazza pulita. Sospirò, si alzò pigramente dallo sgabello decidendo che avrebbe lavato dopo la tazza. Si trascinò in camera, era presto e avrebbe cercato di dormire. Lanciò un’occhiata al telefono sottocarica sulla scrivania e corrugò la fronte. Lampeggia a come se avesse ricevuto notifiche e da quando aveva tagliato i ponti con quelle amicizie vuote, il cellulare si era ammutolito. Chi era? Sbuffò, ci avrebbe pensato dopo a qualche presunto spammer. Si sdraiò sotto le coperte, dando le spalle alla scrivania. E se fosse stato qualche messaggio d’odio di Kevin? In fondo non lo aveva più contattato. Osservò il telefono da sopra la spalla, titubante. L’avrebbe sicuramente fatto definitivamente a pezzi. Sospirò, arrendevole si alzò per prendere il telefono e si risdraiò sbloccandolo.

“Quando avrai finito di piangerti addosso, recati a questo indirizzo. È un bar tranquillo, so che cercano personale.”

Era un messaggio del suo ex, seguito da un indirizzo di cui non aveva mai sentito parlare. Perché Victor lo stava aiutando dopo che si era comportato male con lui? Era pietà, la sua? Sapeva benissimo che non lo avrebbe perdonato solo dopo avergli sussurrato le sue scuse attraverso la porta del bagno. Non sapeva se lo avrebbe mai perdonato in realtà, non sapeva nemmeno se meritarlo. Aveva sempre dato per scontato il teppista al suo fianco, mentre lui lo aveva sempre lasciato solo nel momento del bisogno. Chiuse gli occhi, da quando era così patetico? Da quando era così arrendevole? Avviò la chiamata e deglutì sonoramente quando l’idea che Price potesse riattaccargli il telefono in faccia era la più probabilmente realistica.

«Sappi che ti ho appena salvato il culo, per la seconda volta oggi», rispose dall’altro capo del telefono.

«Illuminami», ghignò anche se non poteva vederlo. Con lui le chiamate non erano mai state convenzionali, Vick detestava i convenevoli inutili, forse perché andava sempre di fretta. «Qual'è la seconda?»

«Christopher voleva venire ad ucciderti per avermi offerto la sigaretta, ma non so se potrò salvarti una terza volta».

«Glielo hai detto, spione» sbuffò con un sorriso. «Terza?»

«Stai parlando con Daniel?» si udì la voce di Chris in lontananza, «Mi dispiace per il mio amico che dovrà affrontare un lutto e scrivere un elogio funebre».

«Signor Maniaco, ti ricordo che tra poco saremmo comunque dovuti andare a scuola», sbuffò Price divertito.

«Capisco!» cantilenò Mcdaniel divertito, trascinando la prima vocale, «Vi ho interrotti».

«Daniel, mi stai facendo pentire di aver evitato un omicidio camuffato da incidente».

«Hai aggiunto troppi dettagli per i miei gusti, mi fai quasi paura». Il silenzio che ne seguì fu teso, come un ronzio fastidioso. Doveva fare il primo passo, farsi coraggio e dirgli il motivo di quella chiamata. «Senti…» iniziò, ma fu immediatamente interrotto.

«Non riesco a perdonarti», asserì massacrandosi il labbro inferiore con una punta di rabbia. Se fosse nei suoi confronti o nei propri non sapeva dirlo. «Ci ho provato, ma la ferita è ancora fresca e sappiamo entrambi che sono rancoroso», riferendosi anche all’altro conto in sospeso.

«Allora perché mi stai aiutando ancora? È pietà?»

«Odio la pietà, lo sai bene», riferendosi a quando Daniel voleva tornare insieme, appena tornato a Boston. «Pensi davvero che io possa provarla per te, dopo tutto quello che è successo?» domandò retorico con una punta di amarezza, al solo ricordo. Quando parlava con Danny il suo buon senso, la sua calma, andavano a farsi benedire. «Stammi bene a sentire, la mia non è pietà o perdono. L'ho fatto perché avevi ragione e volevo sdebitarmi». Gli aveva aperto gli occhi, non stava combattendo da solo. Tutti intorno a lui stavano facendo sacrifici, il tumore stava cambiando anche loro. Quelle parole unite alla sigaretta lo avevano fatto sentire in colpa, come se gli avessero dato uno schiaffo.

«Mi hai aiutato molte volte», sospirò, «Pensi davvero che tu abbia bisogno di sdebitarti?» Era stato un pezzo di sterco fino alla fine con il teppista, ogni volta che parlava con lui lo rendeva sempre più evidente.

«Ne riparleremo quando sarai sceso a patti con te stesso», sapeva che stava posticipando quella battaglia da anni. Sapeva che stava scappando, evitando la verità. Aveva solo mosso i primi passi, come un cucciolo di cerbiatto. «Fai del tuo meglio, non sei solo nemmeno tu».

«A chi-» provò a domadargli ma si bloccò sul nascere perché Price gli aveva chiuso il telefono in faccia, come al solito. Sospirò, le vecchie abitudini erano dure a morire.

§

Si preparò velocemente e scese le scale quasi di corsa, fermando Dean sulla soglia di casa. Victor lo aveva aiutato, non avrebbe sprecato questa occasione per risollevarsi. Non avrebbe perso altro tempo a deprimersi sul divano ad ingozzarsi di schifezze. Doveva solo riuscire a fare un passo alla volta senza inciampare, com’era successo da quando era adolescente fino a quel momento. Si sentiva ancora uno schifo, ma riusciva a sfoggiare un sorriso smagliante e poteva dirlo perché aveva provato davanti allo specchio del bagno. Aveva lottato contro sé stesso fino allo sfinimento, facendo terra bruciata intorno a sé.

«Dove vai?» domandò curioso, prendendo il casco. Da quando si era ripreso, passava molto più tempo a prendersi cura della sua focosa amante Aprilia.

«A cercare lavoro», ammise con tranquillità afferrando l'altro casco, «E devo chiederti un favore».

«Perché stai prendendo il casco?» sembrava quasi preoccupato da quel gesto. Lo scrutò da capo a piedi, come se lo avesse visto fare lo sgambetto a Larry, il criceto violinista con una zampa ingessata.

«Potresti… » provò a chiedere.

«Scordatelo», lo interruppe spalancano la porta per dirigersi verso la moto sul vialetto, pronta a partire.

«Eddai!» gli urlò seguendolo mentre si chiudeva il portone alle spalle. «Avevi detto che mi avresti aiutato, no? Suoc- Socio» si corresse, l'abitudine era dura a morire.

«Va bene», sospirò ormai arrivato alla moto, si voltò a guardarlo sollevando un sopracciglio scuro. «Parla» gli intimò con un cenno del capo.

«Mi presti la tua moto?»

«No», fece senza alcuna esitazione.

«Andiamo, non ci hai neanche pensato!» gli fece notare gesticolando.

«Ok», fece finta di pensarci con tanto di indice puntellato sul mento squadrato. «No».

Doveva avere quel passaggio, non aveva nessuna intenzione di andarci a piedi o in autobus. Doveva convincerlo, ma come? Sorrise beffardo. «Omaccione, non mi dovevi un favore quando ti ho coperto con mamma e papà?» Gli ricordò, riferendosi a quella pseudo-rissa avvenuta nella mensa, dove l’unico a pagare era stato il povero Joshua.

«”Omaccione”? Non ero una suocera pettegola?» Poi gli puntò il dito contro il petto, «E non osare giocarti questa carta».

«Oh, si invece», annuì come se non lo avesse già fatto. In realtà lo avevo coperto per tornare ad avere un rapporto fraterno con lui, senza nessun secondo fine. Ma sapeva che si sarebbe fatto facilmente scoraggiare se avesse dovuto farsi il tragitto da solo. Anche prendendo la macchina della madre, perché poi avrebbe dovuto spiegarle tutto. «Senti, Dean», sospirò arreso. Minacciarlo stava funzionando, ma era da stronzi e lo aveva già fatto abbastanza. «Non ti sto chiedendo di prestarmela, ma un passaggio. Ho bisogno di portare il mio culo in posto per un colloquio lavoro.» Da quanto tempo non era così sincero?

«Il vecchio pickup?»

«L’ho dovuto restituire», afflosciò le spalle, «Era dell’officina dei Thompson».

«D'accordo, ti accompagno», acconsentì, «Ma ad una condizione».

«Quale?»

«Non devi chiamarmi più suocera», salì sulla sua adorata Aprilia.

«Ricevuto, suocera!» fece un leggero saluto militare con due dita, un lembo delle labbra si sollevò sbruffone. Gli occhi cerulei si posarono su di lui. «Ancora non mi hai dato il passaggio», si giustifica alzando leggermente le mani in alto, «Era l’ultima volta, davvero».

Dean negò con il capo con un sorriso sulle labbra, «Muoviti, idota». Si mise il casco mentre il maggiore dei Mcdaniel saliva sull’amante focosa del suo fratellino suocera pettegola. Poteva ancora pensarlo, giusto?

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