Miami Heat | VK

By berenicelibri

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🇺🇸 Miami, Florida. In una realtà dedita al lusso ed al perbenismo, Jeongguk, annoiato milionario, è alla di... More

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presentazione {spazio autrice}
II.
III.
IV.
V.
VI.
VII.
VIII.
IX.
X.
XI.
XII.
XIII.
XIV.
XV.
XVI.
XVII.
XVIII
XIX.
XX.
Epilogo.
{nota autrice}

I.

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By berenicelibri

Avviso, prima che mi razziate. L'uso esplicito di termini non dipende dalla volontà d'offesa, tutt'altro. Essi sono termini umoristici - in senso Pirandelliano. La comicità è ciò che ci fa ridere, divertire, in modo immediato e spontaneo; l'umorismo, pur sempre fa divertire, ma ci fa anche riflettere, mostrando le strutture della società o facendoci riflettere su di essa. In un mondo paradossale, claustrofobico, dove non c'è spazio per l'essere umano, se non nell'alienazione, esso vive le molteplici etichette che gli vengono date, a cui questo stesso si adegua, non per sua scelta, ma per rassegnazione, non trovando mai via d'uscita. È curioso come entrambi i personaggi affibbino a sé stessi le identità che la società impone loro. Lascio la riflessione aperta alle interpretazioni nella speranza di aver lettori e lettrici attivǝ.

Successo, forza, resilienza. L'ideologia eroica propria della modernità che contagia l'esistente, fin dentro la propria essenza.

Non c'è spazio per chi manca di esse, per chi nega tali leggi di propria sponte.

L'antieroe è destinato a perire in quest'inferno paradisiaco; l'eroe stesso muore di pene autoinflitte, di catene indossate con fierezza, senza esser consapevole di stare in una prigione, incarcerato eternamente nell'inganno, nella menzogna di un io non proprio.

La società assegna a ciascun essere un'etichetta, talvolta al sentimento.

Così da rendersi impraticabile anche per coloro che desiderino di rientrare in quei canoni di privazioni, astinenze che, non per forza, implichino il raggiungimento di quel tetto fragile, cristallino, ad un passo dal superarlo per arrivare.

Spetta, dunque, scavare, cercare dentro all'inferno dei viventi ciò che esso non sia.

Farlo durare, dargli spazio. Reiterare ciò che di speciale si possa trovare inscritto fra le righe nascoste del simbolismo del reale. Interpretabile, prezioso.

Biondo platinato viziato. Benché fosse un tipo a posto, quelle erano le sole scelte che il contesto gli permetteva di fare, senz'alcun margine d'uscita.

Sempre e ripetutamente, cadeva nell'errore di esser quello sbagliato. Inadeguato o scorretto.

Quelle sole scelte proposte dall'inganno di un contesto corrotto - all'apparenza giusto, così come agli occhi di chi assiste e vive.

Ma il confine fra il retto e lo sbagliato - così come quello fra gli opposti - è labile, poco tangibile. L'uno si trasforma nell'altro, così da esser netto all'occhio inattento, dissipato all'occhio abile.

Si trastullava al bordo vasca della sua piscina. Abitante di una reggia in stile déco che spiccava fra il verde di Gables Estate.

La Miami del nuovo millennio dava sfoggio della sua iper-modernità. Vantava alti grattacieli, spiagge affollate, un clima caldo e piacevole, adatto al proliferare della vita.

Miami era la capitale della ricchezza. Vi risiede, sin dal dopo guerra in poi, la più alta concentrazione di ricchi di tutto il mondo.

Jeon Jeongguk era uno di loro. Crebbe in quel genere di società da cui non ci si aspetta altro se non l'opulenza e l'ostentazione di essa. Se non la superficialità e la frivolezza.

Le condannava, talvolta ne era vittima. Resosi conto di non potervi più sfuggire le aveva fatte proprie.

Biondo platinato viziato. Ecco il perché di tale appellativo.

Se non avesse avuto via d'uscita, pertanto avrebbe reso al meglio la sua interpretazione.

Sorseggiava un cocktail zuccherato, alcolico - per evadere dai confini netti e spigolosi del reale, per vedere il tutto più confuso, fumoso, vago.

Gli premeva di non capir nulla, tenersi lontano da qualsiasi faccenda scomoda. Comprendere di meno, per esser più superficiale nelle azioni, nel sentire.

Era in cerca, dunque, di frivole emozioni.

"Mmh..." si trastullò sulla sdraio al sole. Indossava un paio di occhiali quadrati color miele.

All'età di diciannove anni, faceva parte di una delle famiglie più ricche di tutta la Florida. Una di quelle che contano, una di quelle che tirano le fila del tutto.

"Delbert!" chiamò il suo maggiordomo. "Portamene ancora."

Ogni suo desiderio era l'ordine.

Detestava esser chiamato signorino. Desiderava sentirsi adulto, cresciuto, così da non esser superato. Ricercava gli estremi, ricercava il sentirsi vivo, ma gli era pressoché impossibile in quel mondo fatuo.

Tirò su un'altra striscia dal vassoio argento. Rispecchiava i raggi del sole battente sulla Miami lustrinata.

"Oh, cazzo." un rivolo di sangue gli grondò dal naso.

"Signorino Jeon, vuole che le porti-"

"Porca puttana, Delbert! Chiamami ancora signorino e ti faccio licenziare!" gli fece rimpiangere gli anni di carriera. "Togli il disturbo, per lo meno."

Lo cacciò. Delbert lavorava giorno e notte per i Jeon - ricchi impresari coreani, che, nel corso delle generazioni, erano riusciti a costruirsi il proprio impero. Non fu scelta migliore che fuggire dalle coree.

Distese la schiena sulla sdraio. "Dio..." sussurrò dimesso, mentre si puliva con le dita macchiate dal sangue dello sforzo.

Pregò che ciascun granello di polvere gli arrivasse al cervello, per quell'estrema sensazione che ricercava nella falsa emozione, nella vera apatia.

La disperazione porta a scelte illudenti, e Jeongguk sperava non fossero tali.

"Signor Jeon." il suo maggiordomo trovò di nuovo il coraggio.

Jeongguk sbuffò, sempre per quell'impaccio. "Cosa c'è Delbert - ancora?"

"Il vostro collega Park è venuto a farvi visita." asserì, dopo un inchino di scuse.

"Fallo entrare."

Ormai la sua camicetta blu Hawaii era stata segnata da quell'orrido coloriccio sanguigno. Tanto imbrattato, tanto denso il pigmento, che apparivano chiazze scure sul tessuto indossato.

L'unico su cui potesse far affidamento in quel di Miami era il suo collega - o meglio - amico Park Jimin.

Avanzava con passo morbido, tutto il contrario della fremente agitazione di Jeongguk.

Egli era un fuoco indomabile, una furia incontrollabile.

"Prima che tu faccia un altro passo - sì, Jimin. Ricordo perfettamente che stasera abbiamo la cena del Gables Club!" si erse in piedi tutto sporco.

"Ti sei fatto di nuovo?!" l'amico gli gridò irato. "Ggukkie, quante volte ti ho ripetuto che non devi più tirare su roba- per favore."

"Per favore." gli fece il verso con vocina stridula.

"Sto dicendo sul serio." ribatté l'amico.

"Sto dicendo sul serio." continuò in quell'imitazione boriosa.

"Almeno salutami, stronzo." gli si fece avanti.

"Sì, stronzo. È un piacere vederti."

Si strinsero la mano in segno d'affetto. Un saluto che, dal palmo, coinvolse tutto il braccio, poi i due interi corpi.

Scherzavano a farsi quelle battute d'offesa - che tanto offese non erano.

Appellativi di tal genere erano il loro modo di dimostrarsi affetto nella Miami degli affari, in cui i sentimenti non erano nient'altro che robe di trascendenza.

Erano disprezzati, non propri di quel mondo. Non ordinari.

"E non chiamarmi Ggukkie-" protestò ancora.

"So come farti incazzare." gli parlò al viso. "Non mi dai un bacetto, amore?" Jimin mise un tenero broncio a scherno.

"Sei proprio un figlio di-" Jeongguk tentò di controbatterlo.

"Frocio!"

"Ritardato!"

Non avevano limiti, in quanto ricchi. Per loro, i soldi potessero comprare il mondo - o almeno, lo credevano.

"Questo è il prezzo se insulti mia madre."

Tutte parole futili.

"E lascia stare tua madre per una volta!" uscì da quel discorso insensato. "Piuttosto, come è andata la vacanza a Dubai?"

"Donne." sghignazzò Jimin.

"Che vuol dire donne?"

Entrambi si misero seduti al bordo vasca della piscina con i piedi nell'acqua fresca, rinsavita tiepida dai raggi del sole artificiale.

"Vuol dire che ho scopato, scemo." Jimin fu palese.

"E Ross?"

Con la scusa dell'esser ricchi non conoscevano limiti; piuttosto si donavano agli eccessi.

"E Ross è rimasta a casa. Non sa niente e non saprà mai niente."

Jeongguk spalancò gli occhi. Pur sembrando sempre così sicuro di sé, era un ragazzo facilmente impressionabile. Facilmente feribile.

"Sei un coglione."

"Dillo che ti piace insultarmi, verginello."

"Sta' zitto." Jeongguk s'incupì.

"Dai, Gukkie." Jimin si fece serio. "Ho esagerato." ammise a sé e all'altro.

"Sì, hai esagerato." abbassò la testa verso l'acqua cristallina, a nascondere un'espressione di rammarico agli occhi bruni dell'altro.

Per come crebbe - protetto nella bambagia della ricchezza - Jeongguk pativa il confronto con l'altro.

Si giustificava con la paura di non essere abbastanza, ma per la verità era il semplice carattere introverso, il solo bisogno di star da solo che lo bloccasse in ogni genere di relazione sociale.

Soffriva la sua condizione di diversità a fronte di una borghesia perbenistica affogata nell'oro e nel pregiudizio.

Viveva una certa alienazione, un distacco dal suo stesso corpo; che non riuscisse a far combaciare la sua identità con ciò che gli altri vedevano o toccavano dall'esterno.

L'esser diversi in una società omologata.

Biondo platinato viziato. Era il suo solo meccanismo di difesa.

"Scusami." Jimin interruppe il suo flusso di pensieri consci, che prendevano vita l'uno dietro l'altro, rendendo il biondo perplesso.

Gli pose una mano sulla spalla, stringendo all'altezza della giunzione. "Pensi che riuscirai a sopravvivere alla cena di stasera?"

"Fra tutti quegli esagerati razzisti repubblicani?" si voltò a Jimin falsamente sorpreso. "Ho sopportato di peggio, Chim. Se devo dar presenza a vantaggio della mia famiglia lo farò, anche a costo di sentirmi sghignazzare alle spalle la solita offesa."

"Quale delle tante? Ti ricordo che anche io faccio parte del blocco orientale."

Il diverso spaventa. Ingenera una certa fobia, che talvolta si ripercuote sulla razza. Così come i Jeon, anche i Park erano d'origine coreana.

Così come Jeongguk, Jimin rimaneva vittima d'insulti riguardanti ciò che gli altri definivano razza.

"Stai per caso facendo finta?"

"Uhm- no?"

"Ricordi come mi hanno soprannominato?" al solo pensiero, Jeongguk esorbitava di rabbia. Una tale implosione che gl'ingenerava, subito dopo, l'apatia, lo straniamento sociale.

Gli tremavano le gambe, le piante dei piedi non erano più in grado di sostenerlo. Avrebbe voluto cadere a terra, ogni volta.

"Certo, Barbie!" Jimin lo schernì.

"Allora te lo ricordi!" lo spintonò. "Infame."

"Jeongguk, non farci caso. È solo per provocarti, non fare il loro gioco."

"Cosa dovrei fare, allora - huh?" gli domandò con l'aria da saccente. "Star zitto e subire? Mi dispiace, ma, se le cose stanno così, starò al loro gioco." strinse i pugni. "Cambierò le regole del loro stesso scherzo e vincerò."

"Compratela coi soldi la vittoria!"

Con Jimin gli era pressoché impossibile esser serio. Per questo lo adorava - in segreto, s'intende; mai avrebbe mostrato ammirazione per qualcuno se non per sé stesso. Saccenteria, o... paura d'esser deluso.

In quella società dov'era il solo lustro a contare, era alquanto improbabile trovare una pura amicizia. Tutt'al più la giustificava con una serie di altre sfortune.

La leggerezza di Jimin era ciò che più lo riusciva a far evadere da uno stato fin troppo serio.

Gli voleva bene, e non in quel senso.

"Scemo." Jeongguk lo spintonò.

"Stupidino."

"Sono costretto a subire il doppio." tirò un respiro. "...e sai perché?"

Jimin se lo immaginava. "Dimmelo Gguk, se può farti star meglio."

"Perché per loro sono una stupida checca omosessuale da prendere in giro. Uno stupido passatempo, qualcuno da deridere."

"Hey, se vuoi non ci andiamo-"

"È fuori discussione." lo freddò. "Ci andremo, e ci faremo vedere imbattibili."

"Fiducioso. Così mi piaci."

"Non può esser diversamente." passò lo sguardo sull'acqua cristallina illuminata dai raggi del mezzogiorno.

Nessun torto a Jeongguk. Nessun argomento a lui contro. L'unico modo per vivere, sopravvivere alla società degli eroi era conformarvisi.

Non vi è spazio per la differenza, tanto meno per la debolezza. Quella fiumana di falso progresso che lascia indietro gli umili, li relega ai margini delle sponde. L'unico modo per starvi al passo è la rassegnazione all'esser qualcos'altro.

"E comunque..." si voltò all'altro. "Se io sono uno stupido finocchio, tu sei uno sporco comunista."

"Chiamami ancora sporco comunista e ti spingo in acqua!"

"Gatto comunista, sarai mangiato dal capitalismo americano!" gli gridò a scherzo.

Jimin nemmeno si voltò. Urtò con ambedue le braccia il corpo, pur robusto, di Jeongguk. E, preso alla sprovvista "Che cazzo fai, Jimin?!", cadde in acqua, inzuppandosi, bagnando i suoi preziosi occhiali miele firmati Chanel.

"Gatto comunista sarai tu!" si erse sul bordo vasca. "Ci vediamo stasera, Gguk. E... ricordati che ti voglio bene."

Coi capelli stirati dal bagnato, l'espressione scocciata, emerse il dito medio, in offesa di scherzo all'amico.

Tacque, oltre a ciò.

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