Apogeo
Una volta mi hai detto che esiste un punto di massima distanza dalla Terra di un'orbita chiusa intorno a essa, e che il suo nome è apogeo. Credo che lo sto per vivere, nonno, e non ho più te a tenermi la mano.
Qualsiasi minuto poteva diventare il mio apogeo. Non sapevo quale lo sarebbe stato, non lo avrei neanche voluto sapere, ma era una ignoranza che non faceva bene alla mia concentrazione.
Ero appena stata ripresa per la mia lentezza, mancando una persona alla Bottega, e nell'attesa dell'arrivo di un'altra, era richiesta una maggiore efficienza, che non ero al momento in grado di dare.
Fissavo il gelsomino che mi aveva pagato una cliente, pensando che tutto il suo sprizzante giallo stonasse con la mia disposizione, che non avrei dovuto occuparmene io, che fosse addirittura nauseante.
Uno dei suoi significati era la felicità, un concetto soggettivo, ciclico, che poteva sfiorire prima di quanto avesse impiegato a fiorire.
«Era una critica ingiusta.»
«No, invece non lo era», mi sincerai con Emma, rendendomi conto che se esisteva un periodo migliore in cui avrei dovuto fare di più per distinguermi nel mio lavoro, era proprio questo.
«Se lo dici tu. Che problema avevi con quel fiore?» s'interessò, quando la donna che lo aveva comprato lasciò, perplessa, la cassa per uscire.
«Mi ricorda quello che non sono», risposi, mettendomi la giacca che mi aveva gentilmente passato dall'attaccapanni, e senza spiegare che cosa avessi voluto dire, dopo una rapida occhiata scambiata, uscii anche io per una pausa.
Non sono felice.
Quel pensiero sopravvisse nell'oscurità di un paio di occhi che fissavano la porta del negozio dall'altro lato della strada, come se avessero bramato di varcarla un milione di volte da quando avevano guardato altrove.
Era lo sguardo con cui adesso ero considerata nella mia inaspettata uscita, le iridi come un mosaico di scaglie in ardesia nera, che accarezzavano le giunture del mio corpo, facendomi sentire trovati e provocati persino punti di cui non ero conscia.
Il viso alabastrino di Elias era come la visione di un sogno che poteva nascondere un incubo, l'assoluta ambiguità del suo passaggio, la confusione nella percezione di uno e nell'arrivo dell'altro.
La mia infelicità volgeva nella sua, scoprendo nella distanza linee di incontro vere, che ricamavano il sollievo di averlo visto, e la scelleratezza di volerlo raggiungere senza fare caso all'attraversamento pedonale.
Il semaforo era rosso, ma la connessione che si era stabilita tra noi era incolore, non seguiva altro che sé stessa, un intemperante impulso a non essere fermata.
Lasciai passare una macchina, e nonostante ne stesse arrivando un'altra a velocità moderata, mi buttai, richiedendo una precedenza che non avevo, e che mi fu subito segnalata con un colpo di clacson.
Elias sembrò preoccuparsi fino a quando non salii sul suo stesso marciapiede, davanti a un'occhiata volutamente prolungata della persona alla guida, a cui non diedi peso in confronto a lui, in seguito mi fissò come se lo avessi potuto portare a non rispondere delle sue azioni.
«Lo sai che a fare cose sbagliate, mi fai pensare a tutte quelle che potrei fare io, vero?» mi fece presente, quando gli fui di fronte, ansimante per la fretta di avvicinarmi a lui, per il rischio affrontato in strada.
«Questo momento non tornerà più indietro», fu la prima frase che mi venne in mente, e si stupì più lui nel risentirla di quanto non lo fossi io nel dirla, perché non era più la sua, ma la mia. «Tu, sì?»
Elias battè le palpebre per quel confronto, che suggeriva alla sua immaginazione, diede un rapido sguardo all'indietro, e nell'istante in cui lo diedi pure io, mi afferrò per il polso, e mi tirò con lui dentro il portone rinascimentale che era spalancato alle sue spalle.
Il sole scomparve nella volta dipinta di un palazzo, nella penombra del suo cortile, e infine sembrò risorgere nel suo petto, un'alba dalla luce crescente, quando si sospinse con me a una parete, mettendomisi davanti.
Il suo fisico era una transizione di serpeggianti ombreggiature, e io mi trovai spettatrice dell'affresco d'epoca che era, della sua arte nascosta, come parte di quella silenziosa casa.
Avrei dovuto chiedergli se fosse giusto volergli restituire il nostro Nontiscordardimé, pur di fargli capire che non mi poteva bastare come addio, ma ad aver alzato i miei occhi al suo collo fino, e infine nei suoi, lo stavo già chiedendo.
«Io, che cosa, esattamente?» domandò, le sopracciglia due curvilinee tinteggiate di scuro, nella sua espressione vincolante.
«Te ne stai per andare su Saiph», confidai, con una agitazione che mi vibrò sulle labbra, sentii il pulsare del mio cuore nel preciso angolo del polso in cui mi stava ancora tenendo a sé, e mi crogiolai nel pensiero che di sicuro lo stesse sentendo pure lui.
«Pensi che lo voglia?», disse, dopo una interruzione di sguardo di alcuni secondi, nei quali io continuai a osservare i suoi lineamenti induriti. «Pensi che non preferirei altro?»
Al suo altro, fremetti, sentendomi portare la mano dietro la sua schiena, il mio braccio a scivolare sopra all'osso sacro, sotto la sua giacca.
Era refrattario, il tormentato piacere che si stava prendendo il suo viso, nell'avermi tirata così vicina da potermi avere sul suo busto, nell'aver lasciato la presa sul mio polso, e non avermi persa.
«No, penso che non so se ti rivedrò più», ammisi, disintegrandomi nel silenzio, e soltanto in quell'istante di azzeramento tra noi, in cui le sue parole non riuscivano a uscire, udii il chioccolio dell'acqua in una pozza.
Spostai lo sguardo lateralmente, e notai una vasca ornamentale che si ergeva al centro del cortile dove eravamo, i cui ripiani esterni scolpivano nel marmo una panchina.
Più in là, una scalinata s'immetteva nel buio, e un ascensore in legno antico sostava in attesa di essere chiamato dall'alto, associarvi Elias mi venne naturale.
Proprio lui mi distolse dall'ambiente, con un bacio su una clavicola, che durò il tempo di accorgermi che la zona era stata lasciata in tortura a lui, e che era stata delicatamente stimolata per riavere la mia attenzione.
Ora ero piena di brividi, e non migliorò quando nell'allontanare di nuovo la bocca, i suoi capelli neri dai riflessati blu mi vellicarono il collo, intensificandoli, fino a farmi mugolare al suo orecchio.
Mi spinsero a ricercarlo, a trovare un ripostiglio per le mie labbra sotto il suo mento, per una prima volta, il mio respiro si trasformò presto in affannosa dolcezza, lì dove era.
Era sandalo di Malabar e fiore di cotone, quello che sentivo sulla lingua, erano caldi venti spazzanti, precipizi intelati di stelle, e dissolvenze notturne, il suo sapore.
«Meglio che tu non mi riveda, Ester», disse, abbandonandosi a ciò che gli stavo facendo, lasciandosi assaggiare remissivamente.
Ero sulla sua pelle da così poco, le sue parole non tolsero nulla a quella esplorazione sensoriale, alla dipendenza di volerla prolungare, così come stava crescendo un'irrequietezza in lui.
«Perciò stavi decidendo per me, senza dirmelo?» domandai con un filo di voce, diradando i miei assaggi appena sopra lo scollo del suo maglione fino a fermarli.
«Sì, lo stavo facendo», disse, quando mi allontanai per incrociare le sue iridi, dal torrido godimento. «Sto per andare a Crostanera, e non so se potrò più essere io, dopo.»
Buonasera a tutti, siamo giunti al confronto tra Elias ed Ester, non privo di desiderio, e di parole non dette ❤ Mi sono presa questo capitolo per completare il passaggio che serve al personaggio, perciò anche la prossima parte sarà su di lui, e sveleremo qualcosa in più (tenersi forti, oltre possibilmente continuare a emozionarci). Abbiamo appena nominato il Quarto Territorio, sì... Crostanera. Spero che vi sia piaciuto, lasciatemi le vostre impressioni se vi va, e/o voti a supporto. A presto!