E il tempo scivola via

By Maschera_di_fumo

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Premessa
Playlist
Dedica
Prologo
[...]
Capitolo 1
Capitolo 2
Capitolo 3
Capitolo 4
Capitolo 5
Capitolo 6
Capitolo 7
Capitolo 8
Capitolo 9
Capitolo 10
Capitolo 11
Capitolo 12
Capitolo 13
Capitolo 14
Capitolo 15
Capitolo 16
Capitolo 17
Capitolo 18
Capitolo 19
Capitolo 20
Capitolo 21
Capitolo 22
Capitolo 23
Capitolo 24
Capitolo 25
Capitolo 26
Capitolo 28
Capitolo 29
Capitolo 30
Capitolo 31
Capitolo 32 (Prima parte)
Capitolo 32 (Seconda parte)
Capitolo 33 (Prima parte)
Capitolo 33 (Seconda parte)
Capitolo 34 (Prima parte)
Capitolo 34 (Seconda parte)
Capitolo 35
Capitolo 36 (Prima parte)
Capitolo 36 (Seconda parte)
[...]
Capitolo 37
Capitolo 38
Capitolo 39
Capitolo 40
[...]
Epilogo

Capitolo 27

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By Maschera_di_fumo

Era sdraiato sul letto a leggere un libro quando udì il campanello suonare. Probabilmente era arrivato. Sentì dei tacchi sul parquet , la porta d'ingresso aprirsi e, di seguito, delle voci. Sospirò, sarebbe dovuto andare ad accogliere suo cugino Roy, il suo perfetto cugino Roy Lloyd. Chiuse il libro, sapeva che sarebbe arrivato nel pomeriggio, ma non pensava che il tempo fosse trascorso fin troppo velocemente. Si alzò e scese trovandoli ancora all’ingresso. Josh trovava davvero curioso come il proprio comportamento cambiasse fuori e dentro casa. Era schivo, sorrideva di rado e rimaneva per la maggior parte del tempo in silenzio. Questo perché la dimora dei Lloyd non era mai stata casa sua, se non sui documenti. Non ricordava nemmeno l’ultima volta in cui si era sentito a suo agio lì, con i suoi genitori. Non ricordava l’ultima volta in cui loro erano stati tali. Probabilmente, se gli avessero chiesto da quanto tempo si sentisse in quel modo, avrebbe risposto “da sempre”. Era tanto tempo, da sempre. Mentre scendeva le scale controvoglia, Roy si voltò verso di lui sorridendogli. Sembrava contento di vederlo.

«Joshua, è da tanto che non ci vediamo!» lo salutò quando fu arrivato all'ingresso.

«Già», tagliò corto guadagnandosi un’occhiataccia da Kristen Lloyd, sua madre. Per lei rispondere in quel modo non era educato, era dell’idea che l’ospite dovesse sentirsi a proprio agio quando era in visita. Avrebbe tanto voluto essere un ospite anche lui, lo pensava troppo spesso. Sospirò ignorandola, «Ti aiuto a portare le valigie nella camera degli ospiti».

L'ospite annuì e lo seguì, in silenzio. Non avevano mai parlato molto, anche se Roy era venuto spesso a fargli visita. Infatti non riusciva a capire perché si ostinasse a venire a Boston, a trovare i suoi zii cinici, freddi e noiosi con un figlio che rimaneva in silenzio. Cosa ci trovasse di bello, per Joshua, rimaneva un mistero. Perfino lui, se avesse potuto, sarebbe andato il più lontano possibile da quelle pareti asfisianti e gelide che lo accoglievano ogni fine giornata. Quelle solitarie cene che molto spesso consumava da solo. Ma, quando avevano visite, si ostinavano ad interpretare la famigliola felice, come se potessero ingannare qualcuno. Difatti, quella stessa sera, non avrebbe mangiato solo come al solito e quasi si rammaricò. Richard Lloyd era seduto a capotavola nella sala da pranzo già apparecchiata. La cena era già pronta ed aspettavano solo il loro figlio maleducato. Josh si sedette al suo solito posto, davanti alla madre, di fianco al padre e vicino a Roy. Iniziò a punzecchiare il cibo nel piatto con sguardo assente, era stanco di interpretare quella farsa.

«Joshua?» il cugino lo chiamò ridestandolo dai suoi pensieri.

«Scusa, ero distratto. Puoi ripetere?»

«Non stai mai attento», lo rimbeccò la madre mentre tagliava la bistecca nel piatto.

«Hai già scelto il tuo percorso universitario?» domandò Roy, curioso.

Voleva farlo sfigurare? Eppure, anche se gli stava antipatico, lui si era sempre comportato con gentilezza nei suoi confronti. Forse voleva solo vantarsi con gli zii. «Si, io… >>

«Lui farà legge», lo interruppe il padre, rispondendo al suo posto. «Ho già parlato con le mie conoscenze».

Legge? Conoscenze? Aveva già deciso al suo posto senza che lui ne sapesse niente. Ora che ci pensava, non gli aveva mai chiesto cosa lui volesse. Non ci vide più. «No!»

I presenti sembrarono ghiacciarsi sul posto mentre il riccio affrontava, per la prima volta in vita sua, Richard Lloyd. Sosteneva il suo sguardo senza esitazione.

«Cosa?» aggrottò le sopracciglia.

«Non farò legge».

«Si invece, è la cosa miglior-» provò a rispondere, ma il figlio lo interruppe.

«Per chi, esattamente?» alzò leggermente la voce, irritato.

«Non. Osare. Parlarmi. Con. Quel. Tono!» tuonò lapidario.

«Sono stanco», allargò le braccia con un sospiro, «Non fate altro che ignorarmi tutto il tempo ricordandovi di me solo quando viene a farci visita qualche parente o qualche vostro collega ed ora, volete anche decidere del mio futuro? A me non piace la facoltà di legge, non voglio seguire le orme della mamma né tanto meno le tue prendendo medicina! Non mi piace economia e altre facoltà che voi ritenete di “serie A”.» mimò le virgolette con le dita. «Non mi avete mai preso in considerazione. Non mi avete mai chiesto come stessi e cosa volessi. Sono stufo!»

«Joshua, cosa stai dicendo?» Kristen si poggiò una mano sul petto, sbalordita.

«La verità», fece per alzarsi ma si fermò.

«Non osare alzarti da tavola. Chiedi scusa ai presenti, finisci la cena e smettila di fare i capricci. Un giorno mi ringrazierai per averti indirizzato verso una di queste facoltà, sei ancora confuso», ordinò l’uomo con risolutezza.

Josh sbarrò gli occhi e si alzò di scatto. Lo stridio e la successiva caduta della sedia precedette il silenzio. Gli occhi castani sostennero, per la prima volta, lo sguardo del padre. Non era più il ragazzino che ricordava, non era più un ragazzino. «Anche il dialogo è inutile con voi!», senza stare a sentire le loro grida, salì in camera, appallottolò alla meglio gli indumenti nello zaino. Scese le scale trovando la madre preoccupata.

«Cosa stai facendo? Dove stai andando?» gli chiese Kristen.

«Da oggi non sono più vostro figlio, me ne vado».

«Se esci da quella porta, non tornare», lo minacciò Richard cercando di spaventarlo e farlo ragionare.

«Bene», afferrò la maniglia, «Ciao Roy, mi dispiace che tu abbia dovuto assistere a tutto questo», salutò il cugino fermo vicino all’ingresso, non aveva né interferito né fiatato. Uscì sbattendo la porta. Il sole stava ormai tramontano colorando l'ambiente di colori caldi. Alcuni raggi gli accarezzarono la pelle olivastra del volto. Fece un profondo respiro, le narici furono invase dall’odore di erba appena tagliata e dallo smog della città. Camminò lungo il vialetto, non aveva più sentito alcun suono provenire dalla residenza Lloyd. Non era abbastanza importante per loro?Non era abbastanza. Camminò lungo il marciapiede in completo silenzio, mentre l’aria diveniva fredda. La rabbia e l’adrenalina stavano scemando via lasciando il posto alla preoccupazione. Era solo. Dove avrebbe dormito?

§

Era ormai arrivato il giorno della seduta di chemioterapia. Victor aveva passato quei giorni, dopo tanto tempo, come un normale adolescente della sua età. O quasi. Gli attacchi di tosse erano sempre più frequenti e più intensi. Si sentiva sempre stanco ma come sempre, non lo diceva mai. Stava cercando di vivere la vita adolescenziale che aveva sempre guardato da lontano, di dedicarsi allo studio ed alle amicizie. Anche se continuava a riconoscersi sempre meno allo specchio, anche se si sentiva quegli sguardi giudicanti addosso, probabilmente nella sua testa, visto che in pochi sapevano del cancro. Camminò verso l'ufficio del dottor Barlow, al suo fianco Christopher gli sfiorava le dita con dei tocchi fugaci che sembravano causali ma erano intenzionali.

«Oltre che Signor Stalker sei diventato un Signor Maniaco?» lo canzonò, come di consueto.

«Tu invece resti sempre il solito teppista da strapazzo», gli fece la linguaccia, da bravo ragazzo maturo, mentre si sedevano sulle sedie scomode in plastica lungo i corridoi ospedalieri.

«Ma se mi adori», lo citò il teppista con un sorrisino sul volto. Il biondino era più nervoso di lui, non faceva altro che muovere spasticamente la gamba nonostante mostrasse un sorriso. Le sue ampie spalle erano tese ed i suoi sorrisi erano impercettibilmente tirati. «Non è la prima volta, perché sei agitato?» domandò a bruciapelo facendosi serio.

«Io non son-» provò a ribadire, ma fu bloccato all'istante.

«Perché? Ti mette agitazione che ci sei tu e non mio zio?»

«No», distolse lo sguardo, cercò di osservarsi attorno pur di non incrociare i suoi occhi azzurro cielo.

«Allora perché?»

«Oggi ti iniettano, per la seconda volta, la chemio selettiva», sembrò mettere un macigno sulla schiena di Price, «Diventerai più debole di così».

Stranamente non sapeva cosa dire, aveva ragione. Sarebbe divenuto ancora più debole di com'era con solo la prima dose. Si ritrovò a boccheggiare, come avrebbe potuto non farlo soffrire? Andando avanti avrebbe visto il suo scheletro, ciò che ne sarebbe rimasto di lui.

«Siete già qui», constatò Mark, interrompedoli. «Christopher, metterò la flebo e poi potrai entrare». Scomparve nella stanza, seguito da un silenzioso azzurrino.

Cosa gli era preso? Lui doveva tranquillizzarlo, doveva sostenerlo. Passò le dita tra i ciuffi biondi appoggiandosi allo schienale della sedia. Vick lo aveva voluto con lui apposta e lui gli aveva fatto notare che era agitato e cosa avrebbe comportato la cura. Appena gli fu concesso di entrare, si diresse velocemente al lato del lettino dov'era disteso. «Mi dispiace», si sedette, «Io dovevo esserti di conforto, dovevo darti man forte, ed invece… »

Si guardarono negli occhi, il cielo azzurro sembrava fondersi con la sabbia del deserto. Victor si inumidì le labbra e senza proferire parola, rivolse il palmo della mano verso l'alto continuando a tenere il braccio disteso sul letto. Sentì immediatamente quel calore, quella mano che afferrava la sua. Quella stretta che lo faceva sentire meno solo in quella battaglia da affrontare. Strinse maggiormente la presa quando il medicinale iniziò a scorrere in tutto il corpo. Sentiva le vene bruciare, come se vi passasse della lava. Strinse gli occhi e divenne molto più pallido del solito. Faceva male. Si costrinse ad aprirli quando percepì il pollice del biondino accarezzargli delicatamente il dorso della mano. Le nocche erano divenute bianche, lo stava stringendo troppo. Cercò di calmarsi, ammorbidì la stretta e si rilassò, o almeno ci provò. «Che dici se parliamo?» sussurrò rompendo quel silenzio surreale.

«Visto che in questi momenti sei sorprendentemente sincero», un lembo della bocca di Vick si sollevò leggermente, «Perché vorresti distenderti su un prato fiorito?» domandò Christopher.

«Parli del punto 3?» il biondino annuì, «Perché lo trovo rilassante. Poi vorrei fare una coroncina di fiori, le faceva sempre mamma». Gli occhi divennero lucidi, ringraziò mentalmente la chemio che non permetteva di sapere la vera motivazione. «Poi ci stendevamo sul prato e guardavamo il cielo».

«Qualcosa mi dice che non è finita qui».

«Mentre guardavamo il cielo mi ha detto di essere affetta dal cancro. Allo stesso modo mi ha detto che le cure non avevano funzionato e che era una malata terminale», la voce si era fatta strozzata e ancora più flebile. Non riusciva ad incrociare il suo sguardo, l’azzurrino si limitava ad osservare il soffitto bianco e sterile della stanza mentre si mordeva il labbro inferiore.

«Non vorrai dirmi una cosa del genere lì, a quel modo, vero?»

«Se dovesse succedere come vuoi che te lo dica?» il silenzio riempì la stanza. Si voltò, osservò il suo viso mentre White lo guardava con occhi lucidi. Aveva oltrepassato il limite? Gli sorrise, «Stavo scherzando», mentì.

«Questa volta dovresti rivalutare il tuo umorismo».

«Io pensavo più di dirtelo con una di quelle torte finte dove sarei uscito con dei coriandoli», fece finta di pensare, «Oppure mentre sono solo in mutande così sei distratto».

Christopher poggiò la fronte sulle loro mani unite, i ciuffi biondi accarezzavano distrattamente il braccio del teppista. «Vorrei me lo dicessi mentre mi abbracci forte», sussurrò serio.

«Quindi niente torta?» domandò lepido mentre il respiro si faceva pesante, il dolore iniziava ad essere persistente ed il nodo alla gola impediva maggiormente di respirare in modo normale. Lo vide alzarsi, senza lasciare la mano, avvicinarsi al suo viso e lasciargli un delicato bacio a stampo. Sollevò il braccio sinistro, in cui non aveva l’ago-cannula, per bloccarlo alla nuca. Accarezzò i suoi biondi capelli mentre Chris riavvicinava il viso al suo per poi baciarlo, ancora, delicatamente.

§

«Fattelo dire, guido meglio io», constatò Price, con un ghigno dipinto sulle labbra, seduto sul sedile passeggero della propria auto. Erano appena arrivati davanti al suo appartamento.

«Ha parlato colui che guida come se fosse in Fast & Fourious», alzò gli occhi al cielo, divertito.

«Tokyo drift», specificò come se fosse di vitale importanza, «Tu quando guidi sei come un fulmine, invece».

«Mi stai dicendo che sono veloce? Allora che differenza c'è tra-»

«Attratto dalle buche», lo interruppe.

«Dopo questa ti faccio fare le scale con me sulle spalle», il biondino scese dalla macchina per andare ad aprire lo sportello del lato passeggero. Lo aiutò ad uscire e lo tenne quasi in braccio. Il suo respiro era affannato e non si reggeva in piedi.

«Se avessi le forze lo farei», strinse il tessuto del giubbotto per aggrapparsi maggiormente al ragazzo. Sentiva dolore ovunque, come se lo stessero pungendo tanti aghi su tutto il corpo.

«Riesci a camminare?» sentì il teppista negare con il capo. A quel punto vi era un’unica soluzione, anche se a Vick non sarebbe piaciuta affatto. Lo prese in braccio, lo aveva sentito irrigidirsi e sussultare, il respiro pesante gli solleticava l'orecchio mentre il torace assecondava il suo respiro, a contatto con il proprio petto.

Era umiliante, nascose il viso nell’incavo del collo. Era così debole da non riuscire a camminare, «Sono pesante?»

«Non molto», mentì. La verità era che non lo era affatto, era dimagrito molto, nonostante lo costringessero a mangiare il giusto. Ma non poteva dirglielo, sapeva quanto lui si sforzasse di mangiare, aveva notato il modo in cui si guardava allo specchio. Il modo in cui guardava distrattamente il suo riflesso, a scuola. Entrambi rimasero in silenzio, solo i rumori dei passi e dell'ascensore impediva la quiete totale tra loro. Si diresse verso la porta dell'appartamento e suonò il campanello per farsi aprire da Charlie.

«Eccovi, com'è andat-» provò a chiedere mentre apriva il portone, ma rimase pietrificato quando vide suo nipote, incapace di reggersi in piedi, in braccio al suo ragazzo. Sentiva il respiro pesante dell’azzurrino, si stava trattenendo dall’urlare? No, non ne avrebbe avuto le forze, stava trattenendo le lacrime di dolore, per apparire forte. Per non farli preoccupare più del dovuto. Si spostò di lato per lasciarli entrare e fece strada verso la camera dove il biondino lo poggiò delicatamente sul letto. Inevitabilmente alcuni lamenti uscirono dalle sue labbra.

«Grazie», sibilò una volta supino sulle lenzuola. Il suo tono di voce era così basso, così stanco. I suoi occhi sfuggivano a quelli di White, come se si vergognasse del suo stato.

«Adesso riposati testa di rapa», intervenne lo zio con un piccolo sorrisino, non venne ricambiato.

«Qualsiasi cosa sono qui, ti lascio riposare, ok?» sussurrò Chris lasciandogli un bacio a fior di labbra. Uscì dalla stanza, insieme all'uomo, dopo aver ricevuto la flebile risposta con un semplice annuire del capo di Vick.

«Ti va un caffè?» domandò, «E qualche chiacchiera con un bel giovane come me?».

Il ragazzo annuì e si limitò a seguirlo in cucina, era più silenzioso del solito. Si sedette sulla sedia del tavolino in cucina ed alzò lo sguardo solo quando una tazza di caffè fumante gli apparve dinanzi. «Grazie», bevve un sorso.

«Grazie a te, fai tanto per quel testone di mio nipote», si sedette al suo fianco.

«Prima che entrasse a fare il ciclo di chemioterapia gli ho ricordato che sarebbe stato sempre più debole, sono un idiota».

«Ascolta, lui sa che non lo hai detto con cattiveria. Sa quanto fai per lui, sa che gli sei vicino, che rimarrai al suo fianco anche quando le cose si faranno molto più difficili di adesso. E, credimi, ti odierà per questo», White lo guardò confuso mentre Charlie aveva un piccolo sorrisino dolce sulle labbra. «Ti odierà perché lo vedrai debole, perché lui si sentirà così. Ma ti amerà perché sarai lì. Perché sei ancora qui nonostante oggi tu l’abbia visto in questo stato».

«Come fai a saperlo per certo?»

«Lo vedo nei suoi occhi, quando ti guarda o quando parla di te», ridacchiò, «Mi ricorda me alla sua età, con Leena».

«Anche per te dev'essere dura», constatò accarezzando con il pollice il manico della tazza.

«Già. Prima Leena, poi mia sorella ed adesso anche Victor. Quell’idiota ha cercato di allontanare anche me, ci credi? È testardo come Hanna!» cercò di tirarsi su con quel velo di ironia. «Ciò che voglio dirti ragazzo è che ti ringrazio di rimanergli accanto, nonostante tutto. Non soffre solo chi ha il cancro, ma anche i cari che ha intorno perciò, per qualsiasi cosa, sono qui».

«Vick è davvero fortunato ad avere uno zio così figo», enfatizzò lepido.

«Vero? Che ingrato!» gli resse il gioco. «Per qualche giorno non potrà venire a scuola, ma se la salterai-»

«Non me lo perdonerà mai», concluse al suo posto. Sapeva benissimo che l'azzurrino non voleva, in alcun modo, farlo rimanere indietro, “impedirgli di vivere”, aveva detto. Anche se lo aveva dissentito nell'immediato.

«Perciò, adesso penso che riposerà tutto il tempo, dopo lo farò cenare e so già che dovrò litigarci. Che ne pensi se domani, dopo la scuola, passi il pomeriggio con lui?»

«Io volevo rimanere», sussurrò Christopher mordendosi il labbro inferiore.

«Devi pensare anche a te», gli strinse la spalla, «Domani vi lascio soli, cosa ne pensi?» mosse ritmicamente le sopracciglia in modo allusivo.

«Anche gli altri giorni», ripropose.

«Fare accordi con te è davvero difficile, mi stai spennando come un pollo! Va bene», sentenziò sconfitto, Clark.

§

Joshua era seduto sulla panchina del parco ormai da un po', il cielo si stava scurendo e l’aria diventava sempre più gelida. La brezza accarezzava le chiome degli alberi facendole oscillare come se fossero onde del mare. Il fruscio delle foglie faceva compagnia ai suoi pensieri. Ed ora? Se n'era andato di casa senza avere un piano. Avrebbe dovuto dormire sulla panchina al gelo notturno? Sarebbe dovuto tornare a casa? Ma quale casa? Sul suo volto si dipinse un sorriso sarcastico. I suoi genitori non accettavano la sue scelte di vita, non accettavano lui. Per loro avrebbe dovuto vivere una vita che non gli sarebbe mai appartenuta solo per farli contenti, per apparire. Ma quello sarebbe stato vivere? No, perché non era libero. Fece un respiro profondo a pieni polmoni, adesso lo era. Gli serviva un posto in cui dormire e poi avrebbe pensato a cosa fare d'ora in poi. Sarebbe stato faticoso ma questo non lo spaventava. Estrasse il telefono ed osservò lo schermo spento. Chi avrebbe dovuto chiamare? La ragione gli stava gridando Dean con tutte le sue forze, ma lui voleva vederla. Aveva bisogno degli abbracci di Ellen. Del suo calore, dei suoi baci, del suo sorriso. Si passò le dita tra quei ricci castani sbuffando sonoramente. Cercò il suo nome nella rubrica e la chiamò.

«Pronto? Josh, tutto ok?» la voce di Ellen era preoccupata dall’altra parte dell'apparecchio. Sapeva che Roy sarebbe venuto a fargli visita ed aveva percepito che la situazione non gli piacesse. Ricevette del silenzio, «Josh

«Sono andato via», esordì senza girarci intorno, «Sono andato via di casa». Si aspettava una sfilza di domande su ciò che era successo, ma non accadde.

«Ti aspetto», asserì senza aggiungere altro.

§

Era dinanzi alla porta della residenza White, incapace di suonare o di bussare alla porta. Avrebbe finalmente potuto abbracciare Ellen, ma il fatto di dover incontrare i signori White, per la prima volta come fidanzato, gli faceva tremare le mani. Forse avrebbe dovuto rifiutare e autoinvitarsi a casa di Dean, come se fosse capace di un gesto del genere. Prese l'ennesimo respiro profondo e suonò il campanello. Purtroppo per lui, non fu la sua fidanzata ad aprire la porta.

Melanie White lo scrutò confusa, «Joshua».

«Buona sera, signora White», rispose grattandosi la nuca, «Ellen è in casa?» Si diede mentalmente dello stupido, sapeva benissimo che lei era lì.

Lei sorrise. Era un sorriso dolce e pieno di approvazione, lo scoglio maggiore era il padre? «Certo! Entra, la chiamo subito». Si fece da parte permettendo al riccio di entrare, evidentemente agitato. La donna scomparì salendo le scale, al piano di sopra.

«Joshua», una voce profonda risuonò dall’uscio che affacciava sul salotto. Charles White lo scrutava, lo studiava come se non lo avesse mai visto prima di allora. Come se non fosse più un amico di suo figlio.

«Signor White», lo salutò. Quella situazione lo metteva a disagio, lo agitava. Quello sguardo indagatore lo faceva sudare freddo mentre del gelo si formava tra loro, o almeno era quello che percepiva il ragazzo.

L'uomo lanciò un’occhiata al piano di sopra, «Sarò chiaro con te. So che sei un amico di Christopher, ti conosco da un bel po'.» Joshua deglutì, «Ti chiedo di trattare Ellen con il rispetto e con l’amore che si merita». Lo stava velatamente minacciando? No, lo stava minacciando apertamente.

«Non è mia intenzione farla soffrire, signore» rispose mettendosi quasi sull’attenti, come un soldato.

«Bene, bene» annuì soddisfatto della risposta mentre la ragazza, il centro della loro chiacchierata-minaccia, scendeva le scale, seguita da Melanie.

«Josh!» gli sorrise affiancandoglisi per poi guardare i suoi genitori. «Lui…» iniziò agitata, «Vi presento il mio ragazzo». Gli strinse la mano.

I due annuirono tranquilli mentre i due ragazzi arrossivano come due peperoni.

«Mi raccomando, fate i bravi. Entrambi.» esordì la donna sparendo in cucina e facendo un cenno con il capo a suo marito, per paura potesse dire qualcosa di troppo, che la seguì senza aggiungere altro.

I due ragazzi fecero un grosso sospiro, come se avessero trattenuto il fiato fino ad allora, senza rendersene conto.

La biondina sorrise, «Vieni».

Gli fece strada fino al piano di sopra. Il corridoio era coperto da del parquet, le pareti erano dipinte di un colore neutro come se fosse una di quelle case dei cataloghi. Ellen si fermò alla porta della sua camera, davanti ad essa, in fondo al corridoio, vi era quella familiare di Chris. Adesso che ci pensava, Joshua non era mai entrato nella stanza della ragazza. Infatti, quando aprì la porta non si aspettava di trovarla in disordine. Una pila di vestiti era in fondo all’angolo, dove prendeva la forma di un mostro che la fissava durante la notte con il gioco di luci ed ombre. Le pareti erano di una tonalità di rosa sbiadito, delicato. Il letto da una piazza e mezza, che troneggiava al centro della stanza, con la testata incollata alla parete opposta alla porta, era sfatto. La scrivania, di fianco alla motangna di vestiti e l'ingresso, era piena di libri. L'unica cosa che sembrava in ordine era l'armadio color crema, tempestato di stickers arcobaleno, unicorni e poster di boy band. La finestra sulla destra aveva delle lunghe tende bianche e, sotto di essa, vi era una panca che faceva da baule. Era caotica, ma calda ed accogliente.

«È un po' in disordine», si osservò le mani mentre giocava con le dita, «Spero non ti dia fastidio».

«Perché dovrebbe?» la biondina alzò subito lo sguardo, sorpresa. «Mi piace anche questo lato di te», le sorrise facendola arrossire. Socchiuse la porta e poggiò lo zaino a terra per poi sedersi sulla sedia della scrivania. Poteva davvero dormire da lei?

«Te la senti di parlarne?» gli chiese dopo qualche minuto di silenzio, sedendosi sul letto a gambe conserte.

«Sono scoppiato», iniziò giocando distrattamente con una delle penne abbandonate sulla scrivania. «I miei genitori mi hanno sempre ignorato, non ho mai contato nulla per loro se non per vantarsi con le loro conoscenze. Così è successo oggi con Roy, il mio perfetto cugino».

«È per questo che eviti sempre di tornare a casa prima?» Ellen si morse il labbro, incerta. La domanda era uscita senza pensare, non voleva renderlo più inquieto.

Joshua annuì rimanendo con lo sguardo fisso sulla penna. «Questa sera ho scoperto che volevano decidere del mio futuro, volevano che prendessi una laurea in legge senza consultarmi. Senza sapere nulla di me, dei miei piani, dei miei desideri e dei miei gusti», sospirò, «Mi hanno dato l'ennesima conferma che a loro interessa soltanto apparire, che non gli interessa nulla di me, il loro unico figlio».

«Ti hanno tolto la possibilità di essere te stesso, di esprimerti», aggiunse cercando di immedesimarsi nel fidanzato. Lei non poteva capirlo a pieno, era stata fortunata. Aveva due genitori che amavano entrambi i loro figli, nonostante combinassero guai.

«Mi sentivo soffocare, mi sentivo in trappola», continuò il ragionamento di Ellen. «Perciò», finalmente la sguardò incrociando le iridi verdi come il prato dopo la pioggia, così vivo ed intenso, con le sue castane tendenti al terriccio. «Sono andato via», concluse.

«Se ti trasferissi qui da me?»

«Non potrei, già è troppo che passo la notte qui, da te, in camera tua», si spettinò i ricci, a disagio.

«Perché?» aggrottò la fronte, alzandosi dal letto. «Sei il mio ragazzo», contestò come se fosse un punto a favore per la sua proposta.

«Ellen, non posso trasferirmi qui. Non sarebbe giusto nei confronti dei tuoi genitori e nei tuoi. Domani mi autoinviterò a casa di Dean e cercherò un lavoro».

«Quindi Dean va bene ed io no?» constatò la biondina piccata, era più un’affermazione che una domanda. «Allora perché hai chiamato me?» incrociò le braccia.

«Perché avevo bisogno di vedere te, di abbracciare te, di parlare con te. Non preferisco Dean a te», le afferrò delicatamente le mani e le accarezzò con i pollici, «È che non voglio pesare sulla mia ragazza, soprattutto adesso che le cose tra noi vanno bene e i tuoi mi hanno accettato. Non voglio rovinare il nostro rapporto, vorrei fare le cose con calma».

«Da piccolo devono averti immerso nel miele», sbuffò cercando di nascondere un sorrisino, «Sei diabetico».

«Lo prendo come un complimento», ridacchiò il castano attirandola a sé. La abbracciò mentre lei infilava le dita affusolate tra i capelli.

«Accetto la tua decisione, anche se vorrei tu rimanessi qui» sussurrò White.

«Siete davvero troppo zuccherosi», esordì una terza voce fin troppo familiare. Entrambi si voltarono vedendo Christopher sull’uscio della porta, con le mani nelle tasche.

«Come tu con Price?» lo punzecchiò Joshua con un sorrisino sghembo.

«Ti ho sempre detto di non entrare in camera mia!» si lamentò Ellen correndo a prendere un cuscino.

«Ma io non sono in camera tua, sono sull’uscio dell-» il cuscino viaggiò veloce sul suo viso, interrompendo. «Hey!» si lamentò, «Sei sempre la solita!» esclamò iniziando uno dei soliti battibecchi. Cessò solo quando Melanie, come al solito, gridò di smetterla dal piano di sotto.

Si fecero le linguacce prima di finirla. Da veri maturi.

«A proposito», Chris riportò l'attenzione sul suo amico, rimasto in silenzio a guardare la scena come se gli mancassero solo i pop-corn. «Se sei qui vuol dire che con i tuoi non è andata».

«Sono scappato di casa, si» sospirò il riccio, «Domani mi autoinvito da Dean».

«Rimani qui, sai che non se la passa bene ultimamente. Tra Wendy ed il rapporto teso con Daniel penso abbia bisogno di stare tranquillo».

«Mi stai invitando a rimanere? Sul serio?» chiese stupito.

«Sei mio amico, ovvio che si!» addocchiò per un secondo la sorella che sembrava esserglisi illuminato il viso di gioia, «Ma dormi in camera mia».

«Eddai!» la ragazza alzò gli occhi al cielo.

«Altrimenti lo dico a mamma», rispose il biondino dando inizio all’ennesimo battibecco tra fratelli mentre Josh sospirava cercando di nascondere un sorriso. Alla fine, forse era meglio la panchina del parco.

§

Erano ormai passati un paio di giorni, Chris era andato a trovarlo ogni giorno, dopo scuola, come promesso. Per il teppista fu davvero dura non far trasparire il dolore e il bruciore del medicinale in tutto il corpo. Faceva ancora fatica a muoversi, ma riusciva a farlo. Era ormai pomeriggio, lo zio si era già diretto a lavoro mentre Victor era steso sul letto. Il silenzio navigava per tutto l'appartamento, s’infrangeva con il ticchettio dell’orologio ed i suoi respiri profondi. Si alzò lentamente da quel letto che stava incominciando ad odiare. In quei giorni non avevano fatto altro che ripetergli di stare disteso, riposare, riposare e ancora riposare. Era stanco di riposare. Osservò la sveglia sul comodino, il biondino sarebbe arrivato a breve, doveva rendersi almeno presentabile, no? Appoggiandosi alle pareti fredde si diresse verso il bagno. Si sorresse sul lavabo. Dopo giorni si guardò allo specchio. Il silenzio smise di esistere, sostituito da un fischio assordante ai timpani. Chi era quello riflesso? Sgranò quegli occhi azzurri come il cielo d'estate, contornati da delle vistose occhiaie dovute alla mancanza di sonno. La pelle era pallida come le sue labbra, solitamente rosee. Il viso era smunto come al solito, nonostante si sforzasse ogni giorno di mangiare. Allungò le dita verso lo specchio, lentamente, titubante. Con i polpastrelli accarezzò la superficie gelida del proprio riflesso. Gli occhi si fecero lucidi, la vista appannata. Christopher lo vedeva così? Vedeva uno scheletro? Eppure, ogni volta che lo vedeva, ogni volta che apriva la porta della sua camera, aveva un sorriso enorme. Un conato di vomito interruppe il flusso dei suoi pensieri, s’inginocchiò velocemente davanti alla tazza del water e scaricò il pranzo che aveva ingerito con tanta fatica. I sintomi della chemioterapia erano molto più evidenti, in quei giorni aveva vomitato spesso, soprattutto la notte. Si era sentito tremendamente in colpa per Charlie che era rimasto sveglio con lui, nonostante dovesse riposare per il lavoro che lo attendeva il giorno seguente. Si lavò velocemente i denti, il viso e si pettinò quei capelli blu elettrico che lo caratterizzavano. Se non fosse che, in quel pettine, erano rimaste delle piccole ciocche azzurre.

«No», sussurrò Price continuando a fissare quei fili blu tra quei denti. Stava perdendo capelli, era già arrivato a quel punto? Si sentì toccare la schiena, sussultò per poi voltarsi immediatamente. «Christopher?», sussurrò, «Come sei entrato?»

«Non mi hai sentito entrare? Tuo zio ieri mi ha lasciato una copia delle chiavi di casa in modo che non fossi costretto ad alzarti», rispose Chris con un piccolo sorriso.

«Come vedi non ha funzionato, mi sono alzato lo stesso», distolse le sue iridi da quelle color ambra del ragazzo. Si vergognava di sé stesso, del suo aspetto.

«Perché ti sei alzato? Ti aiuto a distendert-»

«No», lo interruppe lapidario, «Ho un favore da chiederti». Continuava a non avere il coraggio di incrociare quegli occhi sempre così gentili, così vivi. Prese il silenzio del biondo come assenso e continuò, «Potresti rasarmi?»

«Che? Perché?» aggrottò la fronte, confuso. Ma quando il teppista gli mostrò il pettine, tutto si fece più chiaro.

«Allora? Mi aiuti?» finalmente sosteneva il suo sguardo, con quegli occhi lucidi e stanchi.

White annuì in silenzio e preparò l'occorrente sotto le direttive del padrone di casa. Posizionarono una sedia dinanzi al grande specchio del bagno perché Victor voleva vedersi, voleva vedere come il suo aspetto cambiava ancora, ancora e ancora. Senza il suo controllo, senza che lui potesse in alcun modo impedire tutto ciò, né tanto meno rallentarlo in modo da abituarsi. «Che fai?» chiese perplesso mentre osservava Price togliersi la maglietta, rimanendo a petto nudo. La pelle era perlacea, le costole erano leggermente marcate e la medicazione dell’ago-cannula sul braccio destro ricordava prepotente tutto ciò che stavano vivendo.

«Ho tolto la maglietta così i capelli non rimarranno lì», si giustificò sedendosi con un leggero accenno di affanno. Lo osservò inserire la presa del rasoio per poi incrociare le iridi con le sue.

«Sei sicuro?»

«Se non lo farai tu, lo farà la chemio», ribadì sbrigativo.

Deglutì a fatica. «Va bene, allora vado», annunciò insicuro accendendo il rasoio.

L'azzurrino lo osservava dallo specchio, scrutava ogni minimo movimento. Quando iniziò a rasare chiuse d'istinto gli occhi e li strinse, mordendosi il labbro inferiore. Non aveva il coraggio di guardare il suo riflesso, anche se si era posizionato davanti allo specchio per quel motivo. Se avesse sbirciato, si sarebbe ricordato dello stesso giorno in cui vide sua madre senza alcun capello in testa? Era stato inaspettato, rientrava da scuola. Aprì la porta, un profumo invitante proveniva dalla cucina. Hanna stava canticchiando mentre cucinava, con la sua dolce voce. E fu in quel momento che la vide, senza i suoi fili rosso rame a cadergli sulle spalle o raccolti in uno chignon disordinato. Appena si accorse della sua presenza, con i suoi luminosi occhi cielo, gli sorrise.

«Ti faccio male?» chiese il biondino fermandosi, riportando al presente.

«No», sussurrò con voce strozzata aprendo lentamente gli occhi, titubante. I suoi erano divenuti lucidi mentre quelli di Chris lo osservavano attraverso lo specchio, apprensivi, preoccupati. Sentì le sue dita accarezzargli lo zigomo, delicatamente, le percepì scendere e sfiorargli la clavicola nuda mentre i loro sguardi si fondevano attraverso i loro riflessi. Come se ci fosse un muro che li separava, ma che allo stesso tempo neanche quello riusciva a separarli. «Continua, per favore». Chris riprese a rasarlo.

«Mi sono sempre chiesto di che colore fossero realmente i tuoi capelli», pensò ad alta voce.

«Sono biondi come quelli di… mio padre», rispose incerto sul come definire quell’uomo che non era mai stato tale. «Con dei riflessi rossi».

«E la scelta di tingerli di azzurro? Volevi fare il teppista?» lo punzecchiò per farlo sorridere, ma non ci riuscì.

«Avevo timore che le ricordassi lui, che mi ricordassi lui». Il silenzio fu interrotto solo dal ronzio del rasoio per alcuni minuti. Ricordava nitidamente come la madre soffrisse ogni volta che parlava di Thomas. I suoi occhi diventavano vacui, il suo sguardo sfuggente mentre le sue risposte si facevano monosillabe, sintetiche e il suo tono freddo. Prese un profondo respiro, «Ma adesso non avrò più bisogno della tinta, è uno dei vantaggi di essere pelati». La voce tremava mentre alcune lacrime sfuggivano al suo controllo rigandogli le gote. «Non dovrò andare dal barbiere e risparmierò soldi, diventerò ricco sfondato», sorrise. Uno di quelli forzati con le lacrime che iniziavano a rigargli copiosamente il volto. Non sapeva se stava sorridendo per sé stesso, per il proprio riflesso mutato ancora in pochi mesi o per rassicurare Christopher che aveva appena finito e poggiato il rasoio sul lavabo.

«Non mi piacciono quei sorrisi», si mise davanti a lui, coprendo la visuale che aveva sullo specchio. Il sorriso del suo ragazzo vacillò. Gli prese il viso tra le mani e lo sollevò per guardarlo negli occhi, lentamente. Asciugò delicatamente le guance con i pollici e gli lasciò un bacio a fior di labbra. Erano salate. «Sei bellissimo», disse dolcemente.

«Non è vero. Sono diventato l’ombra di me stesso», tirò su con il naso.

«Eppure davanti a me vedo il solito Vick testardo che non si arrende», accarezzò le guance con i pollici. «Il solito teppista che fa quei sorrisi forzati perché non vuole far preoccupare nessuno. Il mio bellissimo fidanzato che continua ad usare il solito sarcasmo per non farsi abbattere».

«Te l'ho già detto, io non sono forte come credi. Sono solo bravo a fingere», gli sfiorò il dorso caldo delle mani con i suoi polpastrelli freddi.

«Eppure non ti stai arrendendo», poggiò la sua fronte sulla sua, le punte dei loro nasi si toccarono, timide.

«Perché ci sei tu con me», sibilò con un leggero sorriso contornato da labbra leggermente più rosee di prima. «Anche se hai preso a trattarmi come un malato, come quel vecchio con la crisi di mezza età di mio zio», sollevò gli occhi al cielo, «Vorrei che mi trattasi come sempre, almeno tu».

«D'accordo», lo aiutò ad alzarsi in piedi, «A patto che se avrai bisogno d'aiuto non esiterai a chiedere». Sapeva che Price detestava chiedere aiuto, non voleva essere di peso a nessuno e lo aveva dimostrato peggiorando la sua situazione, sforzandosi di lavorare per molte ore al giorno fino a farsi venire la febbre.

«Va bene», sbuffò reggendosi a lui, «Mi aiuteresti a rimettermi la maglia?». Poggiò le sue iridi ovunque pur di non incrociare le sue.

«Perché? Secondo me stai meglio senza», lo strinse a se lasciandogli un bacio umido sulla spalla nuda.

«Quello che starebbe meglio sei tu, non io», poggiò la fronte sulla spalla del ragazzo.

Ridacchiò. «Davvero?» gli sfiorò la nuca nuda e pallida con la punta delle dita.

«Davvero, principessa», si allontanò reggendosi alla parete, vi si appoggiò con la schiena mentre White lo aiutava ad infilarsi la maglietta, stando attenti alla medicazione.

Lo aiutò a tornare in camera e distendersi sul letto. «Sei stanco? Vuoi un bicchiere d'acqua?»

Victor negò con il capo, si spostò su un lato del letto e colpì delicatamente il materasso con il palmo della mano, invitandolo a stendersi al suo fianco. «Stai qui con me».

White si sdraiò su un fianco mentre Victor era steso sulla schiena. Osservò in silenzio il suo profilo, quel naso delicato con il septum era il primo dettaglio che saltò all’occhio. La sua attenzione fu subito catturata dal profilo di quelle labbra che aveva assaporato. Con la punta delle dita le sfiorò, erano calde. Quel calore piacevole che aveva il potere di calmarlo, di fargli prendere sicurezza. Scese con le dita fino al pomo d’adamo che si muoveva su e giù quando deglutiva, coperto da quella pelle perlacea del collo. Il petto accompagnava il respiro affannato del ragazzo che non aveva proferito parola. «Nessuna battuta?»

«Nessuna battuta», rispose voltando il viso verso di lui, «Sai già che mi consumerai se continui a guardarmi così». Aveva parlato troppo presto.

Sbuffò alzando gli occhi al cielo. «Sei sempre il solito», il biondino provò a nascondere il sorrisino. Si guardarono.

«Sarebbe stato bello», riportò il suo sguardo sul soffitto bianco e anonimo.

«Cosa?» aggrottò le sopracciglia.

Il ragazzo sembrò titubante, continuava ad osservare il soffitto mentre si leccava e mordeva il labbro inferiore. «Se non avessi avuto il cancro», sussurrò. Silenzio. Price non aveva il coraggio di guardarlo, di voltare il capo ed incrociare i suoi occhi color miele. Sentì il letto muoversi, lo strisciare delle coperte. La spalla scontrarsi con quella del ragazzo. Con la coda dell’occhio lo vide stendersi come lui e guardare il soffitto.

Fece un profondo sospiro. «Come vuoi che ti risponda?» gli chiese, ma non attese risposta. «Perché vuoi farti del male? Pensare a come sarebbe andata se non avessi il cancro».

«Perché mi rimane solo questo», la voce tremava leggermente. «So cosa stai per dire», continuò senza farlo parlare, «Che non è vero. Ma non capisci, non puoi capirmi», si voltò verso Chris, incrociò quelle iridi ambrate che si scurivano intorno alla pupilla. «Io non posso fare ciò che voglio, non ho più le forze per farlo. Lo sai quanto è difficile averti accanto in questo momento e non poterti toccare come vorrei?» gli occhi divennero umidi, la vista sfocata. Riportò il volto verso il soffitto con il respiro irregolare.

«Non ti avrei visto piangere davanti all’ambulatorio del dottor Barlow», lo stava assecondando in questa fantasia? «Ma avrei comunque voluto sapere cosa ci facevi lì, mi avresti incuriosito lo stesso».

«Avresti comunque fatto lo stalker in bagno, mi avresti invitato alla festa?» il punto interrogativo si udì appena, non era una domanda.

Christopher annuì con il capo, «Ti avrei invitato alla festa».

«Sarei andato fuori a fumare mentre tu ti divertivi», sussurrò.

«Ti avrei cercato».

«Mi avresti trovato».

«Avremmo parlato».

«Ti avrei dato del superficiale» ridacchiò flebile, Vick. «Ma poi avrei capito».

«Ti avrei dato del coglione», cercò di mascherare il sorriso con le lacrime che tentavano di uscire. «Ma poi avrei capito, in fondo non ho baciato una ragazza per cercarti», si sentì il suo sguardo addosso, ma non si voltò.

«Davvero?»

«Davvero».

«Ti avrei baciato, maledizione!» gli sfiorò il mignolo con il suo, timido, impacciato.

«Come?» si sollevò su un fianco e si avvicinò al viso pallido di Victor, «Così?» sfiorò le sue labbra schiuse.

«Sei uno stalker anche nelle fantasie», si morse il labbro inferiore guardando quelle rosee dell’altro. Negò con il capo mentre il suo sguardo saettava tra le labbra e le pupille del biondino, «Così». Gli accarezzò i capelli, così morbidi. Le ditta scomparvero tra quei ricci, sospirò sulle sue labbra per poi baciarlo. Lo assaporò, le lingue si toccarono appena, anche se il bacio durò pochi secondi. Le labbra continuavano a sfiorarsi, i respiri a mescolarsi. Lasciando il biondino senza fiato, come se per tutto quel tempo fosse stato sott’acqua e adesso cercasse ossigeno voracemente.

«Merda», sussurrò White, «Sarei caduto ai tuoi piedi». Era caduto ai suoi piedi.

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