One step closer.

By RegyAmodio

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A tutti gli adolescenti è capitato di passare un periodo orribile nella propria vita, uno di quelli nei quali... More

1. La festa.
2. Il viaggio.
3. Spiegazioni.
4. Obbligo o verità?
5. L'inizio del declino.
6. Scusa.
7. Caos.
8. Responsabilità.
9. Ritorni.
10. Domande senza risposta.
11. Solo per lavoro.
12. È l'ora della verità.
14. La storia di Ander.
15. Amore.
16. Mai più segreti.
17. Il tempo scorre.
18. O tutti o nessuno.
19. Non è un sogno.

13. Parlarti di me.

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By RegyAmodio

Mi strattono i capelli diventati un po' più chiari a causa del sole, mentre cammino avanti e indietro in quella che è ormai diventata la mia stanza. Cerco di trovare un nesso logico, che purtroppo non trovo. Ander non può essere mio fratello. Lo stesso Ander con cui c'è quel rapporto di odi et amo, lo stesso Ander bipolare che non riesco proprio a tollerare, ma non sopporto neanche il fatto che non sia al mio fianco.

Istintivamente chiamo Leila per spiegarle la situazione. Da quando lei è andata via sembra esserci stato un uragano di eventi susseguenti così tanto importanti da scombussolarmi la giornata. La testa mi scoppia per i tanti pensieri e, purtroppo, il fatto di non riuscir a dormire molto bene non aiuta. Mi sento come sballottata da una parte all'altra senza aver la forza di reagire a niente di tutto ciò che mi accade intorno. Mi sento come se stessi guardando la situazione dall'esterno e, in questo momento, quanto vorrei esserlo.

«Non ci posso credere.» la voce della mia migliore amica fuoriesce dal piccolo schermo del mio cellulare illuminato, intanto che continua il mio viavai. Quasi mi preoccupo che il pavimento possa crollare a causa delle mie grandi e pesanti falcate su di esso, ripetute all'infinito. «Quindi è tornata tua madre e hai scoperto che probabilmente Ander è qualche tuo parente?»

Mi butto sul letto e mi copro gli occhi con le mani, sospirando. Da quella conversazione con mia madre non ho avuto molte risposte, ma ho scoperto che ci sono sempre più domande irrisolte che compongono la mia vita. Non so più cosa è vero, cosa non lo è e soprattutto non so più a chi credere e di chi fidarmi.

«Ley, nel caso in cui fosse così non sarebbe un parente qualunque...» prendo un lungo respiro. In questo momento mi verrebbe voglia di accendermi una sigaretta, cosa che non faccio più da molto. In qualche modo, tempo fa, mi faceva sentire meglio aspirare il tabacco per farlo fuoriuscire dalle labbra perché era come se i problemi si smarrissero nell'aria assieme al suo fumo. Sfortunatamente, non durava per molto. «Forse dovrei parlare con Ander prima di etichettarlo come un qualcosa.» guardo il soffitto. Lo faccio spesso quando penso. Non so il motivo. La risposta di Leila mi fa girare di scatto verso la direzione del mio telefono.

«Sì, credo sia una buona idea... ma come fai poi a guardarlo con gli stessi occhi? Voglio dire...» mi alzo dal letto controllando se c'è il pick-up di Ander parcheggiato. La risposta che mi do mentalmente è negativa, per cui decido di aprire la porta e dirigermi in cucina. La mamma dovrebbe riposare a quest'ora, mentre lui...probabilmente sarà uscito per delle commissioni. Prendo un bicchiere d'acqua e lei continua a parlare facendomi quasi strozzare. «...si vede che tra voi due c'è una forte intesa.»

Allora lo nota anche lei. Ad un certo punto, nell'arco di queste settimane, ho pensato di essere io la pazza a percepire determinate emozioni. Il fatto che lo dica qualcun altro dall'esterno, mi fa sentire rincuorata. Conoscendo la mia migliore amica, se non fosse stato così non me l'avrebbe mai detto. È la tipa che ti sbatte in faccia la realtà e non mi direbbe mai una bugia. Lei ride, ed io solo ora mi accorgo che mi sto mordendo il labbro inferiore.

«I tuoi occhi cambiano quando parli di lui.» mi prende in giro. «Hai quel luccichio in più.» mi chiedo se davvero sia così. Subito dopo ritorno in me. Non dev'essere così. C'è il rischio che il ragazzo che sta cercando di salvarmi dal giro di droga di mio padre, e lo stesso ragazzo che mio fratello ha interpellato per questo ruolo, sia il mio fratellastro.

«Sì, ma non posso...» la porta dell'ingresso si spalanca, facendo comparire la figura possente del ragazzo in questione, vestito completamente di nero. Ander è il tipo di ragazzo che ti fermeresti a guardare per strada e ne rimarresti a bocca aperta: labbra piccoline, piercing al sopracciglio, naso perfetto, occhi castani e capelli dello stesso colore. Mi sorride debolmente, facendo spuntare una fossetta a destra della sua guancia. Quelle fossette. Le sole capaci di farmi impazzire. Starei ore a guardarlo sorridere. Solo ora mi accorgo che ha delle buste della spesa tra le mani. Le appoggia sul tavolo continuando a guardarmi.

«Non puoi cosa? Porca miseria Bree, parlagli e chiarisci questa situazione.» spalanco gli occhi fissando il cellulare. Quasi il fatto di esser stata ammaliata da lui, mi ha fatto dimenticare che ero in videochiamata con la mia migliore amica pochi secondi fa. Ora lei ha pronunciato quella frase che se sembra così potente da rimbombare in tutto il luogo in cui viviamo da qualche settimana a questa parte. Vorrei solo sprofondare.

«Ley devo andare.» la saluto frettolosamente. Le mie guance si dipingono di rosso, così tanto che mi sento andare a fuoco. Il ragazzo di fronte a me mi guarda negli occhi, riponendo la spesa all'interno degli scaffali della cucina in cui mi trovo. Mi gira intorno come un predatore, sfiorandomi la spalla più e più volte, mentre io resto ferma impalata come se fossi incapace di muovermi. Pochi minuti dopo, si sventola la mano destra nella direzione del viso, guardandomi divertito.

«Fa caldissimo oggi.» annuisco continuando a fissarlo, finché non fa una cosa che mi fa arrossire ancora di più, come se fossi in un forno a legna e le fiamme mi stessero bruciando tutta. È a torso nudo: il suo addome è perfettamente scolpito e i suoi bicipiti sono messi in mostra dalla posizione in cui si trova. Noto che indossa un bracciale nero di stoffa che prima non portava. Mi chiedo dove lo abbia trovato, ma non riesco a pronunciare una singola parola in merito.

Mi sento tremendamente in imbarazzo di fronte a lui. È come se mi sentissi nuda anche se indosso una tuta come in questo caso. Non mi ha mai fatto pesare il fatto di essere in carne come gli altri; è da quando ci siamo conosciuti che mi guarda sempre allo stesso modo. Un modo che non so spiegare, ma che contiene sempre un po' di protezione nei miei confronti, che non sembra affatto forzata. È una protezione che nessuno mi ha fatto sentire.

E all'improvviso, nel momento in cui i nostri occhi si incatenano ancora una volta, lasciando trasparire una chimica che incendierebbe addirittura la nostra abitazione lasciandoci intatti come se fossimo immuni, mi rendo conto che non conosco nulla di lui se non il suo nome. Il mistero che si cela attorno a questo ragazzo mi eccita e mi incuriosisce allo stesso tempo. Vorrei chiedergli tanto, troppo, ma allo stesso tempo non vorrei essere invadente.

Sono sempre stata del parere che se qualcuno voglia dirti qualcosa lo fa e basta, senza che qualcun altro glielo chieda. Così, ho sempre lasciato trasparire il fatto che non me ne fregasse minimamente, ma in realtà non è così. Preferisco aspettare i tempi altrui per parlarne, anziché assillare gli altri con domande che potrebbero essere involontariamente inopportune.

Come se non bastasse, io ed il ragazzo in questione abbiamo un rapporto altalenante, non certo come quello nelle storie d'amore in cui all'inizio è tutto perfetto e poi qualcosa tende a rovinarsi per un motivo in particolare. Il nostro, invece, è un rapporto che si scuce e ricuce, come la tela di Penelope quando i proci le chiesero di sposare uno di loro: lo cuciamo insieme quando siamo più vicini e lo disfacciamo quando stiamo lontani ed un muro si posiziona tra noi due. È sempre stato così e di certo non cambierà ora.

«Ti va di andare a fare un giro?» mi chiede e gli sorrido, distogliendo lo sguardo da lui. Forse è questa la libertà di cui mi parlava l'altra sera, forse la stiamo vivendo davvero. Già il fatto di uscire fuori da questa 'gabbia' mi fa sentire meglio, ma essere con lui mi fa sentire più sollevata e non ne so bene il motivo.

***

Pochi minuti dopo ci troviamo nel suo pick-up mentre nella radio passa la canzone 'A thousands years' di Christina Perri che sembra coronare perfettamente il momento. L'abitacolo è invaso dal suo profumo misto all'odore di detersivo alla vaniglia che usiamo per lavare i panni, emanato dalla sua canotta nera che ha cambiato pochi minuti prima che andassimo via.

Se fossimo stati in un'altra situazione, avrei detto che quella canzone passata alla radio era uno scherzo del destino, ma ora non so cosa pensare. Posa delicatamente una mano sul mio ginocchio sinistro e sento, per la terza volta nell'arco di un quarto d'ora, il mio viso andare a fuoco. Mi giro dal lato del finestrino evitando che possa vedermi, nascondendo le mie labbra col palmo della mano destra. Pochi secondi dopo, sento il suo sguardo su di me come una calamita e, sorridendo, mi toglie la mano da lì e abbassa i finestrini dell'auto con un pulsante automatico posto alla sua sinistra, per evitare di farmi sentire in imbarazzo, ma la cosa non aiuta.

«Dove andiamo?» rompo il silenzio diventato terribilmente insopportabile. Si è creato dal momento in cui è partita la canzone e, ancor di più, quando la sua mano mi ha coperto il ginocchio sinistro. Se ci fosse stata Leila nei sedili posteriori, mi avrebbe fatto delle occhiate complici e delle smorfie per prendermi in giro e rendere la situazione meno imbarazzante. Lui sorride in un modo che gli fa intravedere le piccole fossette e mi osserva con la coda dell'occhio tornando subito dopo a guardare la strada asfaltata dinanzi a sé.

«In un posto speciale.»

***
Qualche ora dopo arriviamo a Phoenix, posto che conosco come le mie tasche e dove ho vissuto praticamente tutta la vita. Ci troviamo fuori ad una casa dalle pareti bianche che non ho mai visto perché siamo in una delle parti più cupe della città, nel Glendale, nonostante, all'apparenza, non lo sembra affatto. Il quartiere è caratterizzato da villette a schiera tutte uguali esternamente, a differenza di questa, circondata da un giardino un po' più grande delle altre, anche se poco curato.

Lui sospira, guardando la dimora e stringendo forte i pugni al volante facendo impallidire le nocche, come se la vista della stessa gli provocasse rabbia. Scende dalla macchina senza darmene preavviso ed io lo imito, seguendo il suo gesto: il giardino non è molto curato.

Ciuffi d'erba secca ormai ingiallita contornano l'esterno della casa, sfiorando leggermente la porta d'ingresso. Due alberi si trovano sulla sinistra della casa bianca, alle cui estremità è legata un'amaca. Sembra una casa abbandonata, ma non riesco a comprendere pienamente il motivo per il quale siamo qui. Delicatamente, mi prende per mano facendomi sedere sull'amaca e sedendosi al mio fianco.

Restiamo in silenzio per un po': lui ha le mie mani nelle sue, tirate verso il suo busto. Le osserva per un po', squadrandole e studiandone ogni dettaglio come se volesse imprimerle nella sua mente. Le rigira più volte, finché lui non decide di parlare, o almeno ci prova. Schiude più volte le labbra, come se volesse parlare, ma la sua voce non si pronuncia. Non emette alcun suono. Deglutisce nuovamente, con un sorriso malinconico stampato sul viso e gli occhi che diventano così lucidi che possono notarsi da un chilometro di distanza.

Quasi mi si spezza il cuore a vederlo così. Gli occhi diventati un po' più tristi, guardano davanti a sé e in tutte le altre direzioni, studiando ogni singolo dettaglio della residenza, come se non dovesse vederla mai più. Non riesco a capirne ancora il motivo, ma subito dopo inizia a parlare, con la voce quasi tremante.

«Quando ero bambino vivevo qui. Una casa all'apparenza perfetta, se non fossi stato da solo.» abbassa lo sguardo guardando le sue nocche rosse, mentre accarezza la mia mano con un dito ruvido. «Fortunatamente è stato per pochi anni.» sussurra. Istintivamente, mi avvicino a lui, inclinando la testa verso la sua direzione.

«Dopo la morte di mamma e papà, ho vissuto in questa casa... avevo solo otto anni e fino all'età di dieci anni circa ho vissuto qui. Non è stato semplice per me, per niente. Ero solo un bambino cresciuto un po' troppo in fretta per circostanze che non dipendevano da me. Avevo tante cose da fare, sia in casa sia a scuola: dovevo fare la spesa, i compiti. Dovevo essere un bambino ed un genitore insieme. Quando i soldi che papà nascondeva abitualmente in casa per conservarli, sono terminati a causa delle mille cose da fare e di qualche sfizio che mi sono fatto passare con essi, notando anche com'erano snob i miei amici di classe con i vestiti firmati... ho iniziato a fare dei lavoretti...» si blocca per un secondo, poi riprende con uno sguardo che trasparisce vergogna. «Ero arrivato ad un punto in cui...mi servivano... soldi...per poter mangiare...» sussurra come se qualcuno potesse ascoltarlo, mentre io sussulto sapendo già dove vuole andare a parare. Lui mi lancia un'occhiata per notare la mia reazione ed io lo osservo irrigidirsi, chiedendomi come sia possibile che un bimbo di otto anni sia vissuto in una casa e ai vicini non gliene sia importato nulla. Fa dei cerchi con i polpastrelli rovinati sulla pelle del mio polso.

Mi guarda negli occhi, con gli stessi occhi che mi implorano di ascoltarlo disperatamente, come se avesse voglia di urlare a qualcuno tutto ciò che gli è capitato nella vita. Annuisco facendogli capire che io sono qui per lui. Sono qui per ascoltarlo. Sono qui per sostenerlo. Sono qui se vuole parlare o anche se vuole restare in silenzio.

Prende un respiro profondo, passandosi una mano tra i capelli castani e sfiorando il piercing al sopracciglio; poi pronuncia queste parole: «Bree, voglio farti capire che questa è una cosa davvero importante per me. Non ne ho mai parlato a nessuno. Oggi siamo qui perché voglio parlarti finalmente di me e, in questo momento, vorrei tu fossi l'unica ad essere al mio fianco.»

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