Domani sarò alba

By CuoreAdElica

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𝗖𝗼𝗺𝗽𝗹𝗲𝘁𝗮 ✔️ 𝙽𝚎𝚠 𝙰𝚍𝚞𝚕𝚝 💋 1/2 Alba ha il tramonto stampato in faccia. Capelli rossi, occhi ver... More

Cast
Albero genealogico
Chi sono Elia e Isabella?
MP3 di Alba
Prologo
Alba odia i capelloni - Parte Uno
1. L'isola dell'Amore
2. Uno sconosciuto nella Villa
3. Favori e debiti
4. Ottimo ascoltatore, pessimo argomentatore
5. La briscola è uno strumento di difesa
6. Ad ogni uomo il vestito che si merita
7. La Libera
8. Il pescatore e la monaca - Pt. 1
9. Il pescatore e la monaca - Pt. 2
10. A caccia di fiori e pranzi stravaganti
11. Il monolocale
12. Sole, spiaggia, sesso
13. Di mare e di stelle - Pt. 1
14. Di mare e di stelle - Pt. 2
15. Ne vale la pena?
16. Una canzone tua, nostra
17. Essere visti per chi siamo davvero
18. Sei dove non sono io
19. Le scritte sui muri rimangono in eterno
20. Ci viviamo
21. Sii prudente con questo tuo cuore
22. Musica jazz, sigarette e amici di famiglia
23. Notti d'agosto al sapore di mare
24. Ciao amore, ciao
Non è mai abbastanza - Parte due
25. Il tempo passa
26. Bisnonna Silvia, sei eterna
27. Resta
28. E basta
29. All'ombra di un tramonto
30. Luce dei miei occhi
31. Ne è valsa la pena
32. Nuovo inizio
33. Roma, Amor
Epilogo
Ringraziamenti
Scappare - EXTRA

Sogno - EXTRA

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By CuoreAdElica





ALBA
Ischia, estate.





TRE ANNI DOPO







Ischia era il Paradiso terrestre, è un dato di fatto. Ma, oltre che ad essere questo, era l'Isola dell'Amore.

Mentre io e Riccardo eravamo in vacanza a Sydney, contemporaneamente, la mia famiglia aveva ben deciso di riacquisire le tradizioni. Dunque, ritornarono ad Ischia.

Durante quella vacanza, però, successe che Iris rincontrò Angelo. Contro ogni aspettativa, dopo qualche incomprensione, i due intrapresero una relazione stabile. Tant'è che, quando ritornammo, questa relazione aveva già dato i suoi frutti.

Nemmeno a due mesi di distanza dal loro secondo incontro, Iris era uscita incinta del loro primo figlio: Mattia. Nato il dodici di maggio, un bambino uguale ad Angelo. Stesso sguardo gelido, di ghiaccio e capelli scuri, castani. Una risata contagiosa e manie di protagonismo. Totalmente uguale ad Angelo, quando Riccardo lo conobbe per la prima volta rimase senza parole.

Mattia fu il primo a chiamarlo "zio".

Decidemmo di sposarci un mese dopo la sua nascita, a giugno, ad Ischia. Come fecero i miei.

Riccardo mi aveva rifatto la proposta a letto; con la gravidanza di Iris ci eravamo distratti per qualche mese. Ma, lui, temendo me ne fossi scordata, me lo ripropose: aveva lasciato la scatoletta di un nuovo anello sul mio cuscino. Da quel momento cominciammo ad organizzare tutto.

Fu il matrimonio dei miei sogni. Anche se, ad essere sincera, a renderlo speciale era Riccardo. Stavo sposando l'uomo dei miei sogni, della mia vita. Ed io non potevo non esserne felice.

Dopodiché, io assaporai ogni attimo che quella nuova vita mi dava. I primi bagnetti in piscina con Mattia, Riccardo che ci si affezionava sempre di più, che lo prendeva sempre di più in braccio, che sorrideva quando lo chiamava: "Zio Ric" e giocava con lui prima di andare a dormire.

Ma non glielo chiedevo.

Non glielo chiedevo se avesse voluto un bambino nostro.

Nei primi momenti mi recava un po' di dispiacere vederlo con mio nipote, ma poi capii che amare era anche quello: rispettare le attese. Ed io avrei rispettato ogni sua decisione, se non fosse stato pronto, io avrei abbracciato ogni minuto che passava. Glielo avevo assicurato: lo avrei aspettato.

Riccardo fu bravo a farmi capire che ne fu grato.

Ci sono certe coppie che, dopo il matrimonio, smettono di guardarsi davvero. Smettono di dirsi quanto si amano perché credono sia scontato. Riccardo, invece, non faceva altro che ripetermelo. Ogni giorno, ogni mattina prima di aprire gli occhi, lui me lo ripeteva: «Ti amo, Alba.» Non c'era modo migliore di iniziare una giornata.

Dal balcone di casa sventolavano delle lenzuola. Riccardo, Angelo, Gioele e mio padre erano sparsi per la piscina per insegnare a Mattia come nuotare. "Robe tra maschi", diceva Angelo, spupazzandolo.

Io, la mamma, Iris e Sofia eravamo sedute al tavolo della Villa, con il vassoio di frutta davanti e un po' di gelato in dei bicchieri di vetro. Il posacenere imbrattato di mozziconi e noi in costume con dei teli da mare sulle spalle o sulle cosce.

«Non mi dire che già state pensando a un altro bambino?», chiese mamma.

Iris ridacchiò, scrollò le spalle. «Forse. Chi può dirlo...», disse vaga, afferrando del gelato con il cucchiaino. «Ad entrambi piacciono le grandi famiglie. E poi, lui, non ne ha mai avuta una veramente, è bello che la voglia con me.»

«Quindi è un sì?», chiese Sofia, «Stai per sfornare un altro neonato? Almeno fallo uguale a te così è anche un po' simile a me.»

Iris scosse il capo, mamma ridacchiò ed io sorrisi abbassando lo sguardo. «Magari sarà la mia cuginetta ad allargare la nostra famiglia...», tentò Iris, guardandomi.

I loro sguardi si spostarono su di me immediatamente. Mi umettai il labbro, strinsi gli angoli della bocca, negai. «No, mi spiace deludere le tue aspettative, cuginetta.»

Iris parve delusa. «Perché no, Alba? Te non eri quella più emozionata nel diventare mamma?».

«Sì, Iris, ma a volte bisogna fare qualche sacrificio per amore», feci spallucce con leggerezza.

Mamma si accigliò: «Avete riscontrato qualche... problema?», chiese, confusa, «Riccardo...?»

«No, alcun problema», sorrisi, «Stiamo bene. Solo che lui non è ancora pronto, tutto qui. Aspetto. Non è questo quello che si fa in una coppia?»

«Non è ancora pronto a cosa?», domandò Sofia, «Non ce l'ha già una figlia?»

«Mh-hm», annuii. «Vuole fare le cose con calma. Niente di allarmante, non preoccupatevi.»

Non aprirono più l'argomento.

Restammo ad Ischia fino a settembre, poi, sia io che Riccardo, dovemmo rientrare in campo lavorativo: io come insegnante in una scuola media e lui alla Caserma di Latina.

A novembre dello stesso anno, sei mesi dopo la nascita di Mattia, Iris ci rivelò della sua seconda gravidanza. Io avevo appena compiuto venticinque anni e Riccardo ventisette.

Fu semplice stabilire una quotidianità fra me e Riccardo. Conducevamo una vita tranquilla. Lui s'alzava al mattino presto, mi cingeva il bacino con le braccia dopo aver spento la sveglia e affondava col viso sulla mia nuca.

Io arrampicavo la mano sulla sua guancia e gliela accarezzavo piano. E, mentre aspettavamo che la seconda sveglia suonasse, io mi giravo tra le coperte e mi nascondevo sul suo petto. Mi lasciavo abbracciare e gli davo un bacio sulla mandibola appena rasata. Profumava sempre di buono, Riccardo.

Mi accarezzò i capelli quando la sveglia suonò, obbligandolo ad alzarsi definitivamente. Mi lasciò un bacio sulla tempia: «Dormi ancora un po'.»

«Vado a prepararti qualcosa», obiettai, strofinandomi le nocche sulle palpebre.

«No, sta' tranquilla», mi sorrise, dolcemente, si alzò e lo sentii ridacchiare quando mi sforzai ad aprire gli occhi. Mi rimboccò le coperte, dato che il freddo autunnale cominciava a vorticare per le strade di Roma. «È presto, amore. Dormi.»

Io mugugnai qualcosa di incomprensibile, lui mi diede un bacio sulla nuca, afferrò la sua divisa e andò al bagno per farsi la sua doccia fredda mattutina. Nel mentre, io prendevo il suo cuscino colmo dell'odore dei suoi capelli e lo abbracciavo da sotto le coperte.

Egli, dopo, andava in cucina, si faceva il caffè e, inoltre, si ostinava a prepararmi il cappuccino: sì, aveva imparato, dopo ore di tecniche, a fare un cappuccino. Solo per accontentarmi, viziarmi. E gli veniva anche bene.

Me lo lasciava nel microonde così che potessi riscaldarlo quando mi sarei alzata. Vicino ci lasciava sempre un biglietto, citava sempre: "Già non vedo l'ora di ritornare a casa, da te."

Era diventato una cosa mia e sua, quella di lasciarci bigliettini ovunque. Un po' come si fa da ragazzini con la prima cotta, tra i quaderni, dietro alla lavagna o sotto al banco. Noi lo facevamo alla stessa maniera.

Ritornava da me per salutarmi. «Stai andando via?», sussurravo, stringendomi alla coperta, quando lo sentivo entrare per prendersi il cellulare e il cappotto.

«Sì», si piegò verso di me, si sistemò il colletto del giubbino, già sapeva io aspettassi un suo bacio. «Chiamami appena esci di casa.»

«Va bene», gli sorrisi, poi lo presi per l'orlo del colletto e lo tirai ancora per un altro bacio sottile. «Va' piano per strada.»

«Tranquilla», mi accarezzò lo zigomo, «Tu non torturare quei poveri ragazzi.»

Io gli davo un buffetto sulla spalla, facendolo ridere. Lui chiosò un bacio sul mio labbro e mi raccomandò un altro paio di cose prima di uscire.

Non litigavamo mai. Cioè, lo facevamo ma io non le definivo litigate, erano più dispute, incomprensioni.

Erano cose normali. Chi non discuteva in una casa? Però, io e lui, trovavamo sempre un modo per "fare pace".

Lui, purtroppo, non si rendeva conto quando alzava troppo la voce. Io mi spaventavo, le urla mi incutevano paura. Di conseguenza, mi arrabbiavo di più. Mi chiudevo in camera, un atteggiamento immaturo che dovevo imparare ad abbandonare col tempo.

Quando succedeva, Riccardo non mi rimproverava: mi capiva. Restava in silenzio, aspettava che il silenzio ritornasse per tutta la casa immacolata — piena dei nostri arredamenti, delle nostre foto, dei nostri ricordi — e rimaneva sul divano. Solo, in silenzio.

E, quando lo sentivo entrare in bagno per farsi una doccia, io avevo il coraggio di uscire dalla camera. Probabilmente aveva capito usassi questa tattica. Quando discutevamo di pomeriggio e, spesso, mi rifiutavo di cenare con lui, Riccardo andava a farsi una doccia alle sette, dandomi modo di uscire per prendere da mangiare.

Sapevo che dovevamo trovare un'altra maniera per risolvere i nostri battibecchi. A volte dimenticavo fossimo sposati, eravamo una famiglia. Io e lui. Dovevamo imparare a capirci, ad andare avanti. Stavamo crescendo assieme, vivendo assieme.

Quindi, una sera di quelle in cui avevamo discusso, invece di tornarmene in camera — com'ero solita fare — decisi di cucinare la cena per entrambi.

Riccardo, uscendo dal bagno e trovandomi vicino ai fornelli, ammiccò un sorriso. Aveva il pantalone del pigiama e i capelli bagnati. Li aveva lasciati crescere un pochino, non come li aveva una volta, ma leggermente più allungati sulle tempie e la nuca.

Non c'era giorno in cui io non pensavo fosse bello. Bello da morire.

Con la punta dell'occhio lo vidi avvicinarsi. Con una mano si strofinò i capelli all'indietro, mi venne dietro, deglutii e strinsi le labbra per evitare di parlare. Lentamente, fece scivolare le braccia attorno ai miei fianchi e, con accortezza, mi avvicinò al suo petto, come a chiedermi il permesso di starmi vicino, di toccarmi.

Continuò a guardare il mio profilo concentrato quando lo sentii posare le labbra sulla mia spalla, poi sul mio collo. Le sue ciocche bagnate contro i miei ricci scompigliati in una coda alta e il suo respiro bollente sulla pelle della nuca a farmi distogliere l'attenzione dal contenuto della pentola.

«Scusami per prima», aggiunse, dandomi un altro bacio. «Non volevo urlare.»

Feci spallucce, facendo un lungo respiro, «È okay. Non fa niente.»

«Non lo farò più, te lo prometto», strofinò il viso sull'incavo della spalla. «Scusami, piccola.»

Stentai a nascondere un sorriso e poggiai una mano sul dorso della sua, sul mio fianco. Piegai il mento per dargli un bacio sulla fronte. «Scusami tu per essermi chiusa in stanza».»

«Tranquilla. Avevi bisogno di stare da sola.»

«Grazie per non avermi lasciata da sola, però.»

«Non potrei mai», mi sorrise, poi mi diede un bacio, stringendomi in un abbraccio che sapeva di casa mia.

Gli accarezzai il mento. «Hai fame?»

Riccardo annuì, guardandomi contento.

«Bene, anch'io», ridacchiai.

Quell'anno, per Natale, Riccardo conobbe per la prima volta tutti i miei familiari, anche i miei cugini di secondo grado e gli altri miei zii, da parte di mia madre. Iris ed Angelo si erano trasferiti in provincia di Roma, lui aveva intrapreso un lavoro come capo di un'azienda, ciò lo teneva molto occupato e, per la maggior parte dei weekend, Iris veniva a trovare me e Riccardo con Mattia e con la sua pancia che si faceva sempre più grande.

Aveva scoperto fosse una femminuccia, non lo aveva ancora detto ad Angelo, ma era convinta ne sarebbe stato entusiasta.

«Per Natale venite anche voi da mamma e papà?», domandai, sorseggiando il mio tè.

Mattia e Riccardo erano seduti sul pavimento che provavano a completare un puzzle. Mio nipote rimproverava spesso suo zio perché diceva fosse troppo intelligente: «Zio!», aveva un modo buffo di pronunciare la "s" e la "z". «Come hai fatto?!», si portò le manine alla testa, rise entusiasta, «Abbiamo quasi finito, mamma!», gridava.

Riccardo lo guardava e non riusciva a non sorridere e dargli un bacio sulla fronte.

«Sì», annuì Iris, «Angelo è super emozionato di conoscere il resto della famiglia. Anche Riccardo?», rise, notando avessi sorriso.

«Riccardo è esageratamente ansioso. Sta contando i giorni e non dorme la notte all'idea di dover conoscere altri uomini che potrebbero trovare ogni suo difetto. Quel ragazzo pensa che tutti siano cattivi», scossi il capo, «L'ho beccato leggere un documento su "come sfuggire a domande subliminali dei parenti".»

Iris rise assieme a me. Guardai in fondo alla tazza e sospirai. Ci pensai per qualche secondo, mi venne da sorridere. «Zio, va di qua! Sì!», le urla di Mattia arrivarono come una carezza gioiosa.

«Dammi, fatti aiutare.» Riccardo prese Mattia in braccio, infilandoselo tra le gambe e aiutandolo ad attaccare vari pezzi.

Li osservai. Iris mi parlava, ma non riuscii ad ascoltarla davvero. Mi resi conto che Riccardo volesse così bene a Mattia perché era figlio del suo migliore amico, perché lo vedeva e pensava ad Angelo. Sapevo che quei due erano più che semplici amici: mi ricordai di quando mi raccontò di come Angelo gli salvò quasi la vita a dodici anni. Si dovevano il mondo, non lo avrei mai compreso il loro rapporto.

«Dopo di te, per me, c'è lui», mi disse Riccardo, una sera sul divano, io accoccolata sul suo petto e lui che mi cingeva i fianchi. «Non so cosa avrei fatto senza di lui da ragazzino, è l'unico concetto vero di famiglia che ho avuto.»

Gli accarezzai una ciocca e gli sorrisi dolcemente. Poggiai una mano sulla sua guancia e gli diedi un bacio sullo zigomo e sull'angolo delle labbra: «Sono felice che adesso siate entrambi in famiglia.»

Riccardo sorrise e annuì. «Sono contento anch'io», sospirò, per poi affondare col viso sul mio collo e abbracciarmi forte, come se con quel gesto volesse dirmi "grazie".

I mesi passarono veloci: Natale, Capodanno, l'inizio della primavera e le domeniche nei parchi sperduti di Roma, i miei vestiti colorati che spuntavano fuori e i nostri primi piccoli viaggetti.

Durante le vacanze pasquali decidemmo di partire per qualche giorno in giro per l'Italia, senza meta. Una macchina e tanto amore. Approdammo a Gaeta e, nonostante il tempo umido e ancora freddo, decidemmo di buttarci in mare nella prima baita che vedemmo.

«Buttiamoci», disse lui, parcheggiando bruscamente accanto ad un muretto di pietra. Io lo guardai, il sonno del viaggio scomparve in un istante.

«Adesso?», chiesi, senza trattenere una risata, guardai l'orologio: «Sono le dieci di sera, sarà gelata

«Come, principessa?», si slacciò la cintura e aprì la porta, «Non sei stata tu a farmi fare un bagno a mezzanotte, tipo sette anni fa?»

Io mi accigliai, divertita. «Tu... te lo ricordi?»

«Eh, certo che me lo ricordo. Chi se lo scorda quel tuo bacio da bambina di quinta elementare?»

«Sei simpaticissimo», lo guardai male.

Lui rise, si morse il labbro e slacciò la cintura anche a me. Si avvicinò a me, chinandosi velocemente: «Però alla fine t'ho sposata lo stesso», mormorò prima di baciarmi.

Sorrisi e ricambiai il bacio.

Facemmo il bagno nell'acqua gelida di marzo. Lo abbracciai sott'acqua, lo strinsi fino a sentire i polmoni bucarsi a causa delle spine. I brividi a riempirmi la schiena e le gambe, il reggiseno a premersi sulla pelle e l'acqua a brandire il mio cuore fino a farlo impazzire per il freddo.

Non c'era spazio, luogo e momento che io non volessi condividere con lui. Pensai che se avessi passato quegli attimi con qualcun altro non sarebbero stati lo stesso. Era lui, era sempre lui. Era lui che rendeva tutto più unico, più inimitabile, più speciale. E, in qualche modo, nostro.

La vita matrimoniale fa paura, mette una paura incredibile. Hai sempre quel timore di aver sbagliato tutto, che prima o poi non vi sopporterete più, che il tempo scadrà anche per voi oppure che non andrete più d'accordo e il tuo amore si trasformerà in odio smisurato. La paura di diventare qualcun altro, dopo essere stati legati eternamente, è una specie di paura che solo i più innamorati provano.

Ma, guardandolo accanto a me, ancora con i capelli salati, umidicci e le ciglia bagnate, pensai che non me ne sarebbe importato. Avrei lottato con tutta me stessa per restare così innamorata fino alla fine, lo avrei protetto quell'amore. Era l'unica cosa vera che possedevo, l'unica cosa mia e di nessun altro.

Dopo proseguimmo per la Toscana, per andare a Siena e ritornare per Perugia, fra i borghi antichi dalle lanterne aranciate e le case in pietra giallastra.

Era una vita semplice, quella semplicità che ti regalava sempre una risata. Nonostante i giorni bui, c'era un angolo luminoso scavato negli occhi e nel sorriso di Riccardo.

Arrivò il compleanno di Mattia, il nostro primo anniversario di matrimonio e la nostra terza estate assieme. Partimmo per Ischia a fine giugno, quando io finii le ultime questioni burocratiche a scuola.

Iris e Angelo rimasero a Roma per gli ultimi mesi della gravidanza. Partire d'estate era un rischio che preferivano non correre. Ma ci sentivamo spesso al telefono, Angelo non riusciva a non chiamare il suo migliore amico per confessargli le sue ansie e i suoi timori.

Ingenuo, Angelo credeva che Riccardo non mi raccontasse ogni cosa. Ingenuo.

Tra passeggiate mano nella mano, i miei costumi colorati e provocanti a cui Riccardo faticava a resistere, le cene in qualche ristorante in cui Riccardo conosceva i proprietari, le nuotate alla deriva con una risata ad alleggerire i polmoni, le corse in motorino con i capelli salmastri, le braccia avvinghiate al suo petto forte e il rumore del vento nelle orecchie che non riusciva a sovrastare il cuore, notti insonne passate in terrazza in mutande e basta, la nostra estate proseguiva come se fosse la prima.

«Apri la bocca.»

«Non la becchi», rise.

«Muoviti, dai!», lo incitai.

Lui, dunque, aprì la bocca e con un lancio preciso ci feci atterrare un pezzo di albicocca. Alzai le braccia al cielo, «Ah! Visto?»

Riccardo scosse il capo.

Avevo legato i capelli con un mollettone marroncino, uno di quelli di legno, indossavo un intimo di pizzo bianco, la mia schiena premeva sulle sbarre di ferro del balcone di camera mia e i miei piedi s'incastrarono nei suoi in un gioco di carezze.

Guardai il suo torso nudo abbronzato, i suoi tatuaggi scuri e mangiucchiai dell'uva. Anch'egli aveva legato i capelli, quasi lunghi quanto lo erano la prima volta che lo vidi, una leggera, leggerissima, barbetta sulla mandibola e, seguendo i dettagli delle sue braccia — i tatuaggi a intersecarsi alle vene esposte —, giunsi alle sue mani. Erano belle, Riccardo aveva persino delle belle mani. Mi faceva incazzare il fatto che avevo iniziato a trovare bello anche il più piccolo suo dettaglio. Non che prima non lo facessi, ma, in quell'istante, lo facevo esageratamente.

L'unica cosa che brillava sulla sua mano sinistra, sull'anulare, era il nostro anello nuziale. Gli avvolgeva il dito in maniera perfetta, non lo toglieva mai, nemmeno per fare la doccia. Però aveva cominciato a giocherellarci, anche mentre guidava, controllava fosse sempre lì, con lui, come se con quell'anello ci fossi anch'io.

«Dove li hai fatti tu, i tatuaggi?», domandai.

«Prego?», ridacchiò, facendo scivolare lo sguardo sulla mia pelle candida, se non fosse per le lentiggini. «Che vuoi dire?»

«Il tatuatore, chi era?»

«Un mio amico. Perché?»

«... curiosità», ammiccai.

«A cosa stai pensando?», chiese inclinando un po' il mento, curioso.

«Voglio farne uno.»

«Di tatuaggio?».

«Sì», annuii, presi un altro chicco d'uva. «Ne voglio solo uno.»

«E... che idea avresti, se posso sapere?», sorrise, divertito, mentre mi grattavo il gomito pensierosa.

«Lo voglio fare... qui, qui sotto», mi voltai appena, indicai un posto in fondo alla schiena, dove c'era il bordo dello slip. «Vorrei scriverci una parola.»

Si accigliò, «Che parola?»

«Speranza», risposi.

«Speranza? In memoria di cosa?»

«Di tutto quello che sono adesso.»

«Mh, dici?», mi fece cenno di aprire la bocca.

Lanciò una mora che atterrò dentro le mie labbra. Annuii, mi tolsi una ciocca dal mento con il dito. «Senza speranza non sarei mai andata avanti in tutti 'sti anni. Voglio sempre ricordarmi di avere speranza, un piccolo bagaglio a portata di mano.»

Riccardo abbassò lo sguardo, ci rifletté per lunghi secondi prima di darmi corda. «Va bene, ti prenoto un appuntamento.»

«Dici sul serio?»

«Sì.»

Era il mio ventiseiesimo compleanno, tra poco Riccardo ne avrebbe fatti ventotto, a novembre, e, quel giorno, conobbi la mia seconda nipotina: Rachele.

Era nata un mese prima, ad agosto. Il nome lo aveva scelto Angelo: voleva che iniziasse con la lettera "R", proprio come il nome di Riccardo.

Quel giorno cambiò ogni prospettiva che avevo instaurato in quei mesi di resa. Quel giorno anche il più piccolo dettaglio della vita che avevamo creato, iniziò a cambiare. Sì, perché qualcosa di microscopico, in Riccardo, era cambiato radicalmente.

All'ora di pranzo decisi di invitare la mia famiglia. In particolare mamma, papà, Gioele — un quattordicenne tutto ricci neri e sorrisi storti, che dava filo da torcere a mia madre e mio padre per via della sua lingua lunga e battute sarcastiche di poco gusto —, Sofia, ritornata appena dall'Inghilterra per il suo anno di studio all'estero, zia, zio, Iris e Angelo.

Per la cena, invece, c'era in programma una serata con i nostri amici.

Riccardo m'aveva svegliata tardi.

Se non fosse stato per lui sarei rimasta a dormire ancora. La sera prima avevo fatto tardi per una chiamata con delle colleghe di lavoro, ero distrutta. Sentii il materasso piegarsi sotto al peso delle sue ginocchia e nascosi già il viso sul cuscino, fu difficile non sorridere.

Lui mi vide, sorrise a sua volta e iniziò a lasciarmi una scia di baci dalla schiena alla spalla, dalla spalla alla guancia. «Buon compleanno», mormorò, roco, accanto al mio orecchio.

Mi tolse i capelli dal viso e io strinsi le palpebre. «Grazie», borbottai, strofinando la mano sulla fronte.

«Ti hanno già telefonata in quaranta.»

«Ma che ore sono...?», chiesi, guardandomi attorno.

«Quasi mezzogiorno, principessa, hai dormito profondamente», rise, guardando la mia espressione stralunata, mi accarezzò il capo.

«Merda», mi tirai a sedere. «Dovevo cucinare per il pranzo—»

«C'ho già pensato io», mi tranquillizzò, «Oggi puoi rilassarti quanto desideri», disse prima di fiondarsi sulle mie labbra e prendermi per i fianchi facendomi ricadere con la schiena sul materasso.

«Se iniziamo 'sta giornata così, va a finire che non mi alzo più dal letto», lo avvisai, la sua mano si inoltrò sotto al tessuto del pigiama di seta.

Riccardo ridacchiò, lasciandomi un altro bacio profondo. Gli accarezzai il petto con le dita fino a sfiorargli i fianchi scoperti dalla maglietta, leggermente stropicciata ai lati.

«Chiudi gli occhi, principessa.»

Lanciai subito uno sguardo a una sua mano nascosta dietro la schiena: «No», lo guardai minacciosa. «Riccardo, no...»

«Alba, sì...», rise.

«Devi finirla.»

«È il tuo compleanno. Pretendevi che non te lo facessi un regalo?»

«Okay, ma quando dici "chiudi gli occhi" significa che è una cosa prevalentemente costosa e per cui mi sentirò in colpa per i prossimi dieci anni.»

«Oppure significa che ti meriti ogni cosa presente su questo Pianeta, e, finché io ne sono in grado, non ti priverò manco di un regalo. Decido io cosa farne dei miei soldi.»

Lottai con la voglia di disapprovare, e alla fine chiusi gli occhi. «Forza, mostrami questo super regalone.»

Disse: «Apri adesso», solo qualche secondo dopo.

Davanti agli occhi mi spuntò una collana. Non era una semplice collana. Era d'oro, ero certa fosse vero oro per come brillava con la luce che proveniva dalle finestre aperte. Alternai lo sguardo fra lui e la collana. Mi mancò il respiro, faticai a ritrovarlo.

Ne scrutai i dettagli: aveva dei piccoli, nascosti diamantini tutt'intorno alla catena, per poi finire in un ciondolo che conteneva un ricordo preciso. Era raffigurato il bocciolo di un tulipano con un materiale più rosato per richiamare il colore naturale del fiore. Restai in silenzio e immobile ad osservare quel capolavoro di luccichii e bellezza tra le mani di Riccardo, fin quando non sentii l'urgenza di baciarlo.

Fu un bacio veloce. «Tu sei...», ancora, «Sei un incosciente.»

«Ti amo anch'io», ricambiò con un altro bacio, gli sorrisi. Presi tra le mani quel gioiello, «Giralo.»

Incuriosita, voltai la facciata del ciondolo. C'era un l'incisione. Era una sua fissa, purtroppo. Sorrisi di più. "Rimani così".

«Infantile e delicata», sussurrò.

Non gli dissi niente. Riconobbi quegli aggettivi, riconobbi ogni dettaglio. Il fatto che si ricordasse ogni cosa mi sciolse il cuore.

Gli cinsi il collo con un braccio, l'altra mano a finire nei suoi capelli. Socchiusi gli occhi, «Grazie», dissi appena, lo strinsi fortissimo, forse più forte di quanto immaginassi. «Grazie per essere restato

Un'ora dopo ero lavata e profumata. Avevo fatto un bagno lungo, mi ero vestita carina e, come prima cosa, avevo messo la collana.

I primi ad arrivare furono i miei genitori; nell'attesa chiacchierammo tutti assieme in veranda, con un calice di vino che tirava l'altro. Poi i miei zii con Sofia e, infine, Iris ed Angelo.

Quando Riccardo andò ad aprire la porta, una testolina castana gli saltò in braccio, facendolo ridere. «Mattia, fa' piano», lo ammonì Iris.

«Entrate, forza», Riccardo accarezzò i capelli a Mattia, che aveva già cominciato a farneticare. «Va' a salutare zia, e falle gli auguri», gli suggerì lui.

Mattia, allora, strappò il regalo dalle mani di Angelo — che stava aiutando Iris con il carrozzino — e corse da me.

«Zia!», mi saltò in braccio.

E, mentre Mattia mi porgeva il regalo e mi faceva le feste, Angelo abbracciò Riccardo con fare affettuoso. Mio marito abbracciò Iris e si affacciò sul carrozzino.

«Dov'è la mia rossa preferita?», Angelo attraversò il salotto fino a raggiungere la veranda. «Ciao, vecchietta, eccoti qui.»

Io gli sorrisi e ricambiai il suo abbraccio. «Ciao, come va?»

«Bene, tu piuttosto? Com'è che stai?»

«Benissimo, grazie. La bambina? Tutto okay?»

Mattia corse ad abbracciare i nonni, lasciandoci a parlare per qualche secondo da soli. «Le prime notti sono sempre complicate, ma sta bene. È stato un parto difficile, ma non avevo dubbi che Iris ce l'avrebbe fatta», le lanciò uno sguardo fugace per poi tornare su di me. «Come si sta comportando il teppista?», ridacchiò, rivolgendosi a Riccardo.

Lo copiai, annuii, «Bene, si sta comportando bene.»

Angelo prese posto accanto a me. «Me l'ha detto comunque», rivelò.

Io aggrottai la fronte, «Cosa?»

Angelo sospirò, continuò: «Sii paziente. Per un figlio, intendo.»

«Oh», abbassai lo sguardo, «Sì, lo so. Tranquillo.»

«Lo conosci», mormorò, «Sai... quando eravamo dei ragazzini lui era il primo a mettersi nei guai. Era quello che correva subito il rischio di farsi male o essere beccato da qualcuno e finire nei casini, ma da quando ci sei tu... da quando state assieme, be', si è tirato indietro. Ha messo le mani avanti», confessò, io trattenni un sorriso e giocherellai con la collana al petto, «Non perché si è rammollito, quello c'ha la testa dura, ad ammollirlo ce ne vuole... è solo perché ad ogni azione lui compie, ci pensa il doppio di quanto ci debba veramente pensare. Pensa prima a te e poi a tutto il resto, ci pensa troppo», raccontò, e i miei occhi cercarono la figura di Riccardo a pochi metri da noi, «Non è ancora pronto non perché non ti ama, ma forse perché lo fa troppo. È una sorta di protezione, diventare padre per la seconda volta è dura per lui, in questo caso, perché sei tu e nessun'altra ragazza. Fidati che, però, lo sa quanto lo desideri, lo sa benissimo e lo fa star male sapere come ti senti al riguardo. Ma quando sarà pronto te ne accorgerai, lo vedrai coi tuoi occhi e probabilmente te lo dirà al primo colpo.»

Nei suoi occhi percepii sincerità, una dolce sincerità. Fui contenta che ne parlò con me. Gli sorrisi, annuii, «Grazie...»

«E di che? Adesso vado a salutare i miei amorevoli suoceri prima che mi fulminano con lo sguardo», alzò le sopracciglia.

«Buona fortuna», ridacchiai.

A raggiungerci, nel frattempo, furono Riccardo ed Iris. Mia cugina portava in braccio sua figlia, uno scricciolo avvolto in una tutina violetta, i capelli castani a coronarle il viso tranquillo e curioso e gli occhi, spalancati per guardarsi bene attorno, di un color azzurro chiarissimo, ghiaccio puro.

«Oh mio Dio, ciao!», mi sollevai dal divanetto per andarle vicino.

Abbracciai forte Iris e poi sorrisi alla piccola, «Alba, ti presento Rachele.»

«È bellissima, Iris, è una meraviglia», accarezzai una guancia a Rachele.

«Tutta sua madre», disse, con un occhiolino.

«Ti sento!», la rimbeccò Angelo.

«È il minimo dopo nove mesi, papà

Già, a Iris non le era ancora sceso giù il fatto che Mattia avesse detto prima "papà" che "mamma". Era una tipa rancorosa, lei.

Scossi il capo. Prima di pranzare restammo tutti lì a condividere una lunga conversazione. Io non ero molto partecipe, ero occupata a coccolare Rachele.

Era accomodata con le gambine corte sulle mie cosce. «Quando ti farai più grande, faremo tantissime cose assieme», Rachele si mordicchiò le dita e mi scrutò attenta. «Andremo al centro commerciale assieme, e, se avrai una cuginetta, ci andremo tutte insieme.» Rachele piegò il viso ed io le diedi un bacio sulla guancia soffice e rosata.

La sistemai meglio contro il mio petto, le aggiustai il bavaglino e lei strinse il mio dito nel palmo della sua mano. Osservai il suo profilo paffuto e notai che avesse accennato un sorriso divertito.

«Chi guardi?», sorrisi.

Alzai lo sguardo e notai che, di fronte a entrambe, Riccardo sedeva sulla sedia e tratteneva un sorriso.

«Ti fa ridere quello lì?», borbottai, a Rachele uscì una vera risata breve quando Riccardo fece di nuovo la linguaccia.

Risi anch'io. Quando sollevai lo sguardo, lui mi stava già osservando. I suoi occhi erano pozze d'ambra, in cui ci nascondevo ogni insicurezza e lui le custodiva con delicatezza. In quel nostro guardarci, però, scorsi una nuova scintilla. Le sue iridi mi osservarono a lungo, mi fece arrossire piano. Anche quando guardai altrove, carpii sulla pelle l'insistenza della sua attenzione su di me.

Mi domandai cosa volesse dirmi con quegli occhi.

Fu un compleanno tranquillo. Ritornammo a casa dall'uscita con i nostri amici dopo la mezzanotte, nella quiete del quartiere — col solo rumore delle auto lungo la strada e il risuonare dei nostri piedi lungo le scale —, Riccardo aprì il portone con una girata di chiavi e mi lanciò un'occhiata mentre me ne stavo appoggiata alla sua spalla con gli occhi socchiusi.

Buttai tutto sul divano ed entrai in bagno per struccarmi. Mi spogliai velocemente, indossai il pigiama e sciacquai il viso. Quando lo rialzai, intravidi Riccardo entrare. Gli feci spazio, mi passai l'asciugamano ruvida sulle guance.

Fece un sospiro, si passò una mano tra i capelli. Aveva una t-shirt bianca che gli fasciava i pettorali allenati e le braccia grandi. Afferrò lo spazzolino e, con le palpebre stanche, se lo portò tra le labbra.

«Sei stato taciturno stasera», gli feci notare, sistemai l'asciugamano al suo posto e diedi le spalle allo specchio, le mani a stringere la ceramica del lavandino, premuto sulla schiena. «Come mai?»

Riccardo aggrottò la fronte guardandomi dal riflesso dello specchio davanti a sé. Si chinò per sciacquarsi la bocca, ritornò a guardarmi con le labbra umide. «Perché, di solito sono molto chiacchierone?», domandò, piegando l'angolo delle labbra in un sorriso sbilenco.

«No, hai ragione», distolsi lo sguardo da lui, «Stasera mi sei sembrato più silenzioso del solito, però», inclinai il mento, la guancia contro la mia stessa spalla e i suoi occhi sopra i miei.

Lui alzò brevemente le spalle. Non mi diede una vera e propria risposta.

«A cosa pensavi?»

Lui nascose un altro sorriso. «Ne sei certa io stessi pensando a qualcosa?»

«Al cento per cento», annuii, «Avevi quella tua espressione assorta e ti sei torturato le labbra per tutto il tempo... dai, a cosa pensavi?»

«Mi hai guardato a lungo, allora», accennò, deviando il discorso.

«A chi dovrei guardare se non te?», mi scappò una piccola risata. Il suo braccio mi ingabbiò tra la sua figura imponente e il lavandino, le sue pupille scesero a studiarmi. «A cosa pensavi...?», sussurrai, il cuore a palpitare nello sterno, lo sentivo correre, inseguire il mio respiro.

Inconsciamente, speravo in una risposta che aspettavo da tempo. Anche in quel momento, aspettai con tutta la premura che possedevo. Lo guardai risalire a fissarmi, i suoi occhi cosparsi di una luce diversa. Era... provato?

La mia mano, d'istinto, corse sulla sua guancia. «Parlami, Riccardo.»

Sentii il suo respiro vibrare tra le labbra. Deglutì e si torturò ancora l'angolo della bocca, «Chiedimelo.»

Aggrottai la fronte, boccheggiai senza capire, «Cosa devo chiederti?»

«Lo sai cosa vuoi chiedermi», disse, con la sua voce maschile e profonda.

«Io...», alternai le iridi nelle sue, «Non ti seguo, amore.»

Abbassò lo sguardo sul mio corpo, piegò il viso. Quando feci per parlare e richiamarlo, però, lui azzerò ogni distanza ci fosse fra noi. La prima cosa che sentii furono le sue labbra che premevano sulle mie, poi le sue mani sulla mia pelle e il mio respiro mischiato al suo.

Portai la mano sul suo petto. Fui sopraffatta dalla prepotenza di quel bacio, come se volesse dirmi qualcosa. I suoi baci diventarono sempre più carnali, la sua bocca reclamava la mia insistentemente fino a scandire un ritmo dolce e carezzevole.

I palmi delle sue mani si premettero sulle mie guance, i suoi pollici a spingersi sugli angoli delle mie labbra. «Chiedimelo», mugugnò lascivo, tra i baci, «Adesso

«Cosa devo chiederti...?», sussurrai, ammaliata, confusa, stordita.

«La cosa che più desideri al mondo», le sue dita scivolarono sulla mia nuca per spingermi di più su di lui. Non gli bastava quella poca distanza.

Rimasi ferma, senza capire per un po'. Non seppi capire se intendesse davvero quello che pensavo io. «Sei... sicuro

«Non aspettare, ti prego», disse. «Chiedimelo e basta.»

Lo abbracciai.

Le mie braccia partirono per prime, mi alzai sulle punte e lui mi strinse la schiena, affondai con il volto sulla sua spalla. Le lacrime chiedevano di uscire, ma le ricacciai dentro nonostante sentissi la gola pizzicare.

«Vuoi...?», pronunciai, senza riuscir a continuare.

«Un bambino», sussurrò annuendo, «Sì.»

Sentii le lacrime risalire violentemente. «Fai sul serio?», borbottai.

«Mai stato così serio in vita mia», sorrise, portando via col pollice una lacrima dall'angolo dell'occhio.

«Adesso?»

«Adesso

Senza sapere come, mi ritrovai avvinghiata a lui, sorretta solo dalle sue braccia e mani. Mi ritrovai schiacciata tra le coperte pulite della camera da letto e la sua pelle liscia.

Dalla finestra entrava un filo di vento fresco, la tenda si muoveva avanti e indietro, il profumo della stanza si mescolava alla perfezione con quello di Riccardo.

Ero sicura, sicurissima, che quello fu amore. Quello che facemmo tra quelle coperte, quello fu amore. Le lancette dell'orologio andavano avanti, ma in quella camera niente aveva più un limite, una fine.


Fu complicato.

Pensavo sarebbe stato facile, ma mi sbagliavo.

Al primo test negativo non ci diedi molto peso. Sapevo che ci sarebbe voluto del tempo; non chiesi aiuto a nessuno, volevo che avvenisse tutto con calma e tranquillità.

Da ottobre in poi continuammo a provarci. Al quarto test negativo del terzo mese in cui ci provavamo, decidemmo di darci del tempo. Riccardo lo vedeva che ci stessi male, che ne stavo risentendo in maniera morbosa.

Aveva cominciato a preoccuparsi di più, ogni giorno. Aveva sempre una carezza pronta, un abbraccio e riusciva ugualmente a strapparmi una risata. Per entrambi, però, era un periodo difficile.

Per qualche minuto avevo anche creduto che avessimo sbagliato tutto, che forse ero io quella non pronta. All'ennesimo test negativo, una mattina di quelle in cui Riccardo usciva a fare spese, io telefonai mamma.

Mi passai una mano sulla fronte e mi asciugai le lacrime distrattamente. Mi accomodai sul divano, con la coperta di lana addosso e il telecomando tra le mani: «Pronto? Sì, ciao, mamma», mormorai.

«Tesoro, cos'hai? Perché hai questa voce? Sei raffreddata?», chiese.

«No, no. Sto bene...», dissi, abbassai lo sguardo, sentii gli occhi gonfi.

«Perché mi ha telefonata a quest'ora? È successo qualcosa?»

«Non è successo niente. È che... non è che potresti accompagnarmi a fare una visita medica?»

«... visita medica?» ripetette, riuscii a sentire la sua preoccupazione dal tono che utilizzò.

«Sì», mi morsi il labbro per trattenere altre lacrime, «È... è da qualche mese che io... io e Riccardo ci stiamo provando, no?», giocherellai con la collana al collo, «Ma, purtroppo, non ho risvolti. Sarà il cinquantesimo test negativo oggi, volevo fare una visita per sapere se ci fosse qualche problema.»

Mamma non parlò per qualche secondo. Poi si schiarì la voce, «Sì, tesoro, certo... ti accompagno.»

Durante un tipico pomeriggio di dicembre, quando il cielo presagiva una burrasca e a Roma sembrava tutto congelato, con un maglione troppo grosso sulle spalle e con le maniche che mi arrivavano oltre i polsi, mi accoccolai nell'angolo del divano con una tazza di latte sul tavolino di fronte e in TV una rom-com anni duemila.

Avevo aspettato che Riccardo uscisse di casa per andare a lavoro per aprire i risultati dell'esame fatto qualche giorno prima. Scartai in fretta l'impacco, spiegazzai la carta e feci scorrere in fretta gli occhi sull'esito.

Risultava tutto normale. L'esame dava una risposta positiva. Non c'era nulla di anomalo o controverso.

Sospirai, lasciai che l'ansia si sciogliesse via con il latte e miele e nascosi nuovamente i risultati nel cassetto di camera nostra.

Prima delle vacanze di Natale, feci un altro test di gravidanza. Non fu una novità scoprire fosse negativo. Fui semplicemente delusa, il cuore mi batteva più forte e credevo sarebbe cambiato qualcosa, ingenuamente. Avrei tanto voluto uscisse positivo per Natale: mia madre scoprì di essere incinta di me proprio prima di Natale, sarebbe stata una coincidenza dolce. Ma mi sbagliavo, di nuovo.

Ingoiai l'amaro, mi guardai allo specchio e presi un bel respiro, tolsi tutte le lacrime che erano sulle mie guance e uscii dal bagno. Mi passai una mano sulla fronte, aprii il cestino vicino alla penisola della cucina e buttai il test.

Riccardo mi aveva lanciato una lunga occhiata dal divano. Aveva il pc sulle gambe, i capelli biondi più ordinati, un paio di occhiali rotondi sul naso e le labbra strette in un'espressione corrucciata e concentrata.

«Ehi...», mormorò, richiamando la mia attenzione. Quando non mi voltai, lui alzò di più il mento. «Ehi?»

Feci per rispondergli, ma non feci altro che piangere di più. Non riuscivo a guardarlo, in quel momento, e non sentirmi in colpa. Portai una mano sulle labbra per trattenere un singhiozzo.

Si alzò subito, posò il computer sul tavolino e fece il giro del salotto per raggiungermi.

«Sto bene», dissi, la voce spezzata. «Per favore... lasciami stare.»

Riccardo non mi diede ascolto. Un suo braccio circondò il mio bacino, mi attirò contro di sé. La mia schiena premette sul suo petto e l'altro braccio ghermì le mie spalle per farmi star ferma. «Sta' tranquilla.»

«No, non sto tranquilla. Non dirmi di stare tranquilla!», provai a dimenarmi.

Egli, tuttavia, poggiò le labbra sul mio capo come se volesse assorbire il mio malessere.

«È normale—»

«Mio Dio, no! Non è normale!», la mia nuca incontrò la sua spalla e la sua mano cercò la mia guancia, mi diede una piccola carezza con il pollice.

Riccardo non replicò. Mi abbracciò solo di più, e, anche se gli avevo detto di lasciarmi stare e allontanarsi, lui non lo aveva fatto. Passarono altri lunghi secondi, forse minuti, il mio respiro si era regolarizzato seguendo il suo, involontariamente. Le mie spalle non tremavano più, mi uscivano solo lacrime senza meta a rigare le gote.

«Ci possiamo sempre riprovare, amore», sussurrò delicatamente, per paura di ferirmi di più, «Nessuno ci corre dietro.»

A volte, quando una coppia riscontra problemi di questo genere, tende a trasformare le unioni come un momento d'obbligo. Come se fossero forzati ad avere un bambino, come se diventare una famiglia fosse più importante dell'amore al suo interno.

Spesso ciò portava al non amore, al sopportarsi, al convivere con un dispiacere e odiare il compagno per un motivo impreciso. È come se si accusassero a vicenda dell'infelicità dell'altro.

«Ti amo», continuò, le sue labbra contro la mia tempia. «Possiamo riprovarci, Alba. È tutto okay, non importa quanto tempo ci metteremo. Va bene, piccola?»

Non risposi.

Tutto ciò che feci fu voltarmi, le mie braccia si aggrapparono alla sua schiena, le mie dita si arricciarono contro la sua maglietta e la mia guancia si strofinò sul suo pettorale. Riccardo sospirò, poggiando lo zigomo sul mio capo, mi chiuse contro di lui e mi cullò lentamente.

Mi asciugai le lacrime. Mi lasciai andare su di lui, «Scusa», mormorai.

«Non c'è bisogno di scusarti», rispose piano, dolce, «Capisco la tua tristezza. Ho fatto finta di non rendermene conto, ma solo perché ti ostinavi a nasconderla.»

«Non volevo far risultare tutto più stressante», sentii il suo profumo ingolfarmi le narici. «Scusa se mi sono comportata male in questi giorni.»

«Non fa niente, l'importante è che tu stia bene.»

Lo strinsi più forte. Annuii, il suo abbraccio mi fortificò: «Sto bene.»

Avvenne tutto in maniera naturale.

Ci dammo del tempo. Fummo pazienti. Quando capitava, facevo un test, ma solo qualche volta, solo quando avevo un vago presentimento. Quando avevo più speranza.

Però nessuno mi dava soddisfazioni, non raggiunsi ancora le due lineette che confermavano la gravidanza.

Per un mese, la gravidanza non fu l'atto principale per cui facevamo l'amore.

Poi, come per magia, il diciotto febbraio decisi di effettuare un test. Non per un semplice presentimento, ma perché effettivamente le mestruazioni ritardavano di qualche giorno. Pensai fosse una cosa comune, dato che non era la prima volta si squilibrassero. Ma decisi di farlo per sicurezza.

Non capii assolutamente niente quando, sul piccolo schermo del test, uscì non una, ma ben due lineette. Incinta. Ero incinta.

Mi portai una mano sulla bocca. Non seppi come reagire, dentro di me si creò un vortice di sensazioni. Non riuscivo a piangere, eppure sentivo un vagone di lacrime salpare negli occhi.

«Oh mio Dio!», urlai forte, controllai con le dita tremanti che fosse giusto, che vedessi bene. «Porca puttana

Corsi via. Spalancai la porta e mi scaraventai dentro il secondo bagno di casa, dove Riccardo era intento a docciarsi.

Aveva l'asciugamano attorno alla vita quando gli precipitai tra le braccia. «Che...!», esalò, stringendomi istintivamente, per non farmi cadere. «Non dirmi che c'è un altro ragno in camera...», borbottò divertito.

«No!», risi, esaltata. Gli presi velocemente il mento e lo baciai forte, con un'urgenza tumultuosa. Trattenni il respiro, i suoi occhi confusi scavarono nei miei.

Per un attimo mi sembrò avesse capito.

Tremavo. Tremavo con il cuore arroventato e galoppante nelle vene. Gli parai davanti agli occhi il test. Lui schiuse le labbra, alternò lo sguardo fra me e il test.

Annuii.

Lui riprese a respirare per un attimo. «Sei incinta?»

Mi si riempirono gli occhi di lacrime. «Sì.»

Riccardo mi travolse in un abbraccio. Chiusi gli occhi e lasciai che una lacrima mi bruciò la pelle delle guance, una sua mano intrappolò i miei capelli tra le dita e gli sentii vibrare il petto. Gli accarezzai la schiena umida mentre una lieve pioggia cominciava a inondare le strade di Roma da fuori la finestra appannata.

E, quando si scostò per riservarmi un bacio sulla guancia e poi sulle labbra, sul suo volto c'erano segni di lacrime. Non riuscii a non sorridergli, il mio cuore si sciolse dentro la cassa toracica. Lo guardai con dolcezza, e lui si asciugò impacciatamente le guance con i polsi.

Passai le dita sotto i suoi occhi e gli baciai una guancia. «Sei felice?», domandai.

Riccardo alzò le sopracciglia, le mani a stringere le mie guance. «Felice? Cristo, Alba se so' felice.»

Nei mesi successivi avvenne tutto quello che avviene alle ragazze in gravidanza. Aspettammo un mese intero per dirlo alle nostre famiglie, preferimmo fare prima tutti gli accertamenti.

Ma la prima persona a saperlo fra tutte quante, fu una.

Eravamo sul divano. Riccardo era da poco tornato da lavoro, mi aveva trovata addormentata, con una mano sulla pancia e la coperta aggrovigliata alle caviglie.

«Pronto?»

Accucciata sulla sua spalla e la sua mano intrecciata alla mia, sentii la voce di sua figlia dall'altro capo del telefono.

«Papà!»

«Ciao, amore», sorrise. «Come va?»

«Io sto bene. Tu?». Era cambiata, si sentiva avesse compiuto dieci anni, stava crescendo. Riccardo la chiamava ogni fine settimana.

«Bene, bene. Com'è andata questa settimana a scuola? La verifica di matematica?»

«Ho preso nove. Ho già ringraziato Elia per le ripetizioni, tranquillo», ridacchiò, io assieme a lei.

Riccardo sospirò. «Tua madre?»

«Se la cava, non l'ha preso molto bene il divorzio», borbottò, come per non farsi sentire.

Antonio — professore d'Università —, il marito di Anna, quello con cui si era sposata anni prima, l'aveva tradita con una sua studentessa. E lei l'aveva beccato in flagrante nel suo ufficio.

«Capisco. Salutamela, dille che può farsi sentire ogni tanto. Mi farebbe piacere parlarle», disse con gentilezza.

«Glielo riferirò», Greta sembrò contenta di quella proposta di Riccardo. «Alba? Come sta? Mi mancate molto, spero di venire a trovarvi per settembre.»

Riccardo mi lasciò un bacio sulla fronte, io sollevai lo sguardo per guardarlo. «Sta bene, sta benissimo», mi fece un occhiolino, «Anzi, ho una notizia da darti.»

Sentii il suo cuore iniziare a battere furiosamente. «Una notizia? Di che tipo?»

«Ti ricordi quando, quand'eri piccola, mi chiedevi una sorellina o un fratellino con cui giocare?»

Greta rimase zitta per un lungo secondo. «Sì, ma tu e la mamma— Aspetta...!», a ciò susseguì un urletto euforico. Fece ridere Riccardo e anche me. «Alba è incinta?»

«Mh-hm.»

«Non ci credo!»

Poi fu il turno di Angelo e Iris. Decidemmo di invitarli a pranzo una sera qualunque.

Mattia era sulle gambe di Angelo, Rachele gattonava ai nostri piedi con il suo sonaglino. Tra una chiacchiera e un'altra, Angelo fece per versarmi il vino.

«No, non posso berlo.»

Il suo braccio si fermò a mezz'aria. Iris, inizialmente, non fece caso alla mia risposta. Come se avesse sentito, ma non avesse capito. I suoi occhi saettarono su di me. Riccardo, vicino a me, tratteneva una risata per la faccia immobile del suo migliore amico.

«Che dici?!», sbottò Iris. «Alba, non prendermi in giro! Sul serio?!», si portò una mano sulla bocca.

Scoppiai a ridere quando Angelo sbatté le palpebre per metabolizzare e alternò lo sguardo fra me e Riccardo.

«Brutto stronzo!»

Mattia ripetè ridendo: «Blutto stonso

«Angelo!», disse Iris, guardandolo male.

«Riccardo, non preoccuparti, andrà bene», gli strinsi più forte la mano, lui tamburellava il tallone sul pavimento.

La stanza era vuota. Dalle tende aranciate entrava il Sole tiepido di inizio giugno, ero stesa su un lettino ricoperto da una patina di garza medica. Lui era seduto accanto a me, non me lo aveva detto esplicitamente, ma avevo capito fosse nervoso e agitato.

Ero appena entrata nel quarto mese. Il grembo era leggermente cresciuto, pendeva un po' verso il basso e assumeva una forma rotondeggiante. Dall'inizio della gravidanza avevo iniziato a riprendere ogni cosa con la macchina dei ricordi.

Qualche settimana prima, ad esempio, ero davanti allo specchio di camera nostra, in intimo, che mi osservavo la pancia. Riccardo era sul letto quando poi lo sentii armeggiare con la macchina fotografica.

Mi voltai e ridacchiai quando capii stesse zoommando. «Sai che questo lo dovrà vedere tuo figlio, vero?»

Riccardo rise, «Bene, questo, figlio mio o figlia mia, è il culo di tua madre.»

«Riccardo!», sbottai, ridendo.

«Scherzo! Non stavo riprendendo quello. Sono ancora troppo giovani per certi contenuti», mormorò. «Fa' vedere la pancia.»

Io ridacchiai, mi voltai verso di lui, la accarezzai piano. «Non trovi sia cresciuta in questi giorni?», chiesi.

«Io trovo che tu sia bellissima.»

Durante le ultime settimane, però, avevamo riscontrato qualche problema alla visita precedente. Il ginecologo ci aveva suggerito di farne un'altra perché il battito del feto era troppo accelerato.

Avevo accusato vari dolori intercostali. C'erano notti in cui Riccardo non dormiva, non perché non riusciva, ma non voleva. Temeva potessi sentirmi male o che mi salisse la febbre.

Aveva preso qualche giorno libero per portarmi ad ogni visita. Quella mattina avremmo dovuto scoprire il sesso del bambino, ma il ginecologo non sapeva se fossimo riusciti nell'intento, poiché il feto sembrava come oscurato, coperto da qualcos'altro.

«Tu stai bene?», chiese, per l'ennesima volta, mi accarezzò la guancia.

Annuii, gli sorrisi per tranquillizzarlo. «Sto bene, davvero, rilassati.»

Mi scrutò per qualche secondo intenso, poi annuì anch'egli e mi diede un bacio sulla fronte.

Dalla porta entrarono la dottoressa e il ginecologo. «Eccoci qua», disse quest'ultimo, infilandosi i guanti di lattice, «Scusate il ritardo, ho avuto problemi burocratici.»

La dottoressa, nel frattempo, sfogliò la cartella con i dati ricavati da tutte le visite precedenti. «Quarto mese e... quattro giorni, giusto?»

«Sì», risposi.

«Com'è andata questa settimana? Hai sentito qualcosa? Dolori, movimenti?», mi fece cenno di alzare l'orlo della maglietta.

«I dolori sono sempre i soliti. Di movimenti ne ho sentiti solo alcuni, durante la notte specialmente.»

«Perfetto... adesso vediamo se riusciamo a vedere il cuore, i polmoni e vediamo se è cresciuto rispetto alla scorsa settimana», enunciò.

Dopo vari ingranaggi sul macchinario, riuscimmo a vedere la placenta e la piccola macchietta scura accucciata in un angolo. Il ginecologo misurò la sua grandezza, per poi riferirlo alla dottoressa — che appuntò tutto — e poi, dopo vari click, sentimmo chiaramente il battito flemmatico del feto.

Sentii Riccardo sospirare, come se un grosso macigno gli fosse scivolato via dalle spalle. Poggiò la fronte sulle mie nocche e io sorrisi. Il ginecologo annuì soddisfatto.

Maneggiò ancora, misurando anche la placenta e ci indicò i polmoni. Quando, però, fece per dirci altro, si fermò. Gli si aggrottò piano la fronte, si schiacciò gli occhiali tra le sopracciglia e guardò la placenta da un'altra angolazione.

«Ci sono problemi?», intervenì Riccardo.

Il dottore si schiarì la voce. «No, alcun problema», negò, guardò Riccardo e poi me. Sorrise lievemente, «... mi sa che ne sono due

Alzai le sopracciglia, boccheggiai.

Riccardo, che non aveva staccato la mano dalla mia, aveva mormorato: «Due? Sono... gemelli

«Eh, sì. Ecco, guardate...», ci indicò la massa schiacciata sotto un'altra sagoma uniforme. «La scorsa settimana si stavano formando le sacche, ecco perché non riuscivamo a vedere tutto in maniera omogenea. Pensavo fosse solo un presentimento...»

«Ci sono gemelli nella vostra famiglia?», chiese la dottoressa.

«Sì, ho le mie cugine», borbottai.

«Be', adesso ce ne saranno altri», esordì il ginecologo. Cliccò sulla seconda massa scura, un altro cuore cominciò a battere a tutto volume tra le pareti asettiche della stanza luminosa, «Lei è emozionata, forse sente il tuo cuore», disse, riferito a me.

Non trovai le giuste parole, o meglio, non riuscii direttamente a parlare.

Riccardo schiuse le labbra, ingoiò il respiro, «Lei...?»

Il ginecologo si voltò a guardarlo, annuì con gioia, «È una lei», mormorò, «Mentre... penso che questo qui sia un lui

Due. Avevo due bambini nel grembo, un maschietto e una femminuccia. Due figli, mio e suo, e stavano bene. Non riuscivo a crederci davvero, non riuscii a parlare, volevo dire così tante cose, ma temevo di non saper usare le parole giuste.

Il ginecologo ci suggerì, però, di fare una visita di controllo per accertarsi che fossero gemelli per davvero. Quando uscimmo dall'ufficio, fu un istinto quello di portare una mano sul grembo.

Riccardo cercò il palmo della mia mano. Non persi tempo ad afferrargliela. «Non hai proferito parola», ridacchiò quando incrociò i miei occhi.

Ero innamorata. Innamorata persa, di lui e di quello che stavamo creando lentamente. Volevo ringraziarlo per tutto quello che stava facendo per me, per la mia felicità. In quell'istante, mi resi conto di quanto tentasse di essere un uomo migliore, ogni giorno che gli ero accanto. Ma, anche se avesse sbagliato qualcosa, io lo avrei amato lo stesso.

Sapevo qualsiasi cosa di lui: i suoi atteggiamenti, le sue peculiarità, le sue risate diverse e strane allo stesso tempo, i suoi sguardi che rispecchiavano perfettamente i suoi sentimenti e il rumore del suo cuore.

Non c'era parte di me che non conosceva lo spigolo mancante di lui. Era la mia metà, così come narra il Simposio di Platone. Era sempre stato lui, era lui la mia dolce metà; c'era sempre stato, dovevo solo trovarlo. Trovarlo e amarlo. E restare. E aspettarlo.

Tutto quello che eravamo gridava amore. Gridava speranza.

«Perché sono... così felice», sorrisi con tutta la genuinità che avessi in corpo. «Veramente, Riccardo, sono la persona più felice dell'intero pianeta in questo momento.»

Lui arricciò il naso, «E io che pensavo lo fossi in ogni momento con me.»

Ridacchiai, «Sì, ma adesso lo sono un pochino di più. Tanto da non sentire il cuore battere.»

«Credo che questo sia un problema», disse ironico, ridendo.

«Ai miei verrà un infarto quando verranno a saperlo», ridacchiai, rubandogli un bacio.

Lui mi prese le guance in una carezza. Mi baciò piano, prima un labbro e poi l'altro. «Ai tuoi? Pensa a mia madre...»

«Già, non uno ma ben due nuovi Sorrentino.»

Lui sorrise di più quando pronunciai il suo cognome. «E poi non si dica che non mi sono impegnato nella parte cruciale di tutto il percorso di maternità.»

«Adesso non pavoneggiarti...», ridacchiai. «E comunque io ho già in mente un nome...»

«Scommetto che saranno nomi significativi», mi carezzò lo zigomo.

«Ovvio. Devo portare avanti la tradizione di famiglia, sono pur sempre io che porto in grembo due bambini.»

«Hai ragione, principessa, hai il primato», mi stampò un bacio profondo, docile. «Fammi sentire questo nome, forza.»





UN ANNO DOPO



Aprii lentamente gli occhi.

La coltre di ciglia seghettò i raggi solari che mi inondarono la vista non appena sollevai le palpebre. Sospirai, mi rigirai tra le lenzuola fresche del letto grande della Villa, dalla finestra entrava la brezza che penetrava oltre gli alberi, arrivava dall'oceano e sapeva di salsedine.

Fu come una carezza. Sbadigliai mentre riprendevo consapevolezza di ciò che mi circondava.

Le pareti della mia vecchia cameretta erano state tappezzate da una carta da parati color crema, ma la libreria era la stessa, la scrivania era ancora piena di fotografie agli angoli e i comodini non c'erano più per il semplice fatto che avevamo tolto il letto a mezza piazza per infilarci quello matrimoniale.

La Villa, ad Ischia, non era cambiata di tanto: l'anno precedente avevo deciso di voler far nascere i bambini ad Ischia, era un'urgenza che avevo, non volevo saperne niente. Così come mio padre, come mio marito, come i miei nonni e i miei bisnonni, io volevo far nascere i nostri figli ad Ischia.

E così avvenne.

Partorii il venticinque di novembre, cinque giorni dopo il compleanno di Riccardo. Fu un bel regalo per i suoi ventinove anni. Prima che nascessero, quindi, Riccardo, Gioele e mio padre si dedicarono al rinnovamento della camera degli ospiti.

Proprio quella in cui lui ci aveva già dormito un paio di volte quando c'eravamo conosciuti la prima volta. Volevo che i bambini avessero una camera tutta loro anche ad Ischia, oltre che a Roma e a Sydney. Volevo che la ritenessero la loro seconda casa.

In qualche modo, facendo così, era come se anche la mia bisnonna Silvia li potesse conoscere, attraverso le mura e le loro tenere risate.

Riccardo si era sempre sbagliato sul suo conto. Sempre. Quando mi mentì, quella sera su quella spiaggia di tanti anni fa, quando mi disse che non era in grado di fare il padre, che non era in grado di essere delicato, si sbagliava. E anche quando mi disse che non sarebbe riuscito ad avere altri figli dopo Greta, anche quando disse che non era pronto, si sbagliava di grosso.

Riccardo si sottovalutava enormemente. Questo perché nessuno gli avevano mai fatto capire quanto i bambini si sentissero a loro agio con lui. Lo avrebbe dovuto capire da Marvena, da mio fratello, da Greta stessa e da Mattia. Non c'era bambino che non lo amasse, che non lo volesse vicino. Aveva quest'aura, questa dolcezza in viso, che solo i bambini riuscivano a vedere.

Questo perché erano puri. Lo vedevano per quello che era veramente. Avrei voluto ripetergli tante di quelle volte che si sbagliava su se stesso, che era perfetto così e non era una brutta persona, non lo era affatto.

Aveva stabilito un rapporto con i piccoli persino dalla pancia. Quando, una mattina qualsiasi, si svegliava per primo, mi abbracciava dandomi un bacio e dandomi il buongiorno, i bambini scalciavano subito: «Senti qua», ridacchiavo io, prendendogli la mano e portandogliela sul punto in cui uno di loro premeva il piede, «Non appena ti sentono si muovono come dei pazzi.»

Riccardo, allora, sorrideva. Sorrideva col suo sorriso più bello. «Buongiorno anche a voi, non fate male alla mamma quando sono via», mormorava, per poi lasciare un bacio sul punto più alto del ventre.

Gli accarezzai i capelli sulla nuca, «Dove vai, perché?»

«A preparare la colazione. Devi sfamare altre due bocche dentro di te», sorrise dandomi un bacio sulla guancia, «Aspettami qui.»

E ritornava una dozzina di minuti dopo con un vassoio colmo di dolci, frutta, torte e tazze di caffellatte. «Così, oltre alle due bocche, si riempiono anche i fianchi e la cellulite può solo ringraziare.»

Riccardo scuoteva il capo. Si arrampicava sulle coperte, cominciava a rilasciare scie di baci a partire dai polpacci, poi sulle cosce, sui fianchi, sulle braccia, sul collo e infine sulla mia bocca. «Ma alla mia di bocca non dispiacciono.»

Lo strillo divertito di mia figlia arrivò al mio timpano come uno schiaffo, che mi riportò alla realtà da un sogno lunghissimo. Con una lentezza solenne, mi sollevai svogliata dal letto. I miei piedi cercarono le infradito bianche, per poi scivolare fuori dalla mia tana con una mano tra i capelli.

Strisciai fino al balcone, dopo aver aperto del tutto la finestra. Con le nocche, mi strofinai le palpebre, misi a fuoco sul giardino.

«Nadia! Sparalo!», incitò il gemello, con una vocina malvagia e la pronuncia storpiata di alcune lettere.

Nadia, un tornado fatto di capelli rossi e occhi marroni, lentiggini che si sparpagliavano su tutta la pelle lattiginosa e una risata contagiosa che risuonava anche nei miei incubi peggiori. Nadia, speranza. Ecco perché decisi quel nome, era proprio ciò che legava me e Riccardo sin dall'inizio: la speranza.

Dalla piccola pistola ad acqua uscì un getto che colpì in pieno la schiena madida e nuda di Riccardo, già abbronzato e con una chioma bionda a far invidia al Sole. Si portò le mani all'altezza del cuore e, ridendo, si gettò tra l'erba e finse di morire.

Di corsa, entrambi si catapultarono addosso a lui, come se fosse un cuscino. Riccardo rise più forte e li tenne stretti contro di lui. Il maschietto, un vero fan di Star Wars a causa dello zio Gioele, decise di impersonare uno Skywalker di prima categoria e fingere che la pistola fosse una spada fosforescente. Gliela puntò sul volto con tanto di piedino puntato sul suo stomaco.

«Noah, no. In faccia no—»

Ma, Noah, rise solo di più e gli impedì di ribattere, gli inondò il viso e il collo di acqua. Nadia si unì a lui e Riccardo si arrese con le braccia aperte sul prato. Fecero ridere anche me.

Noah, un teppista fatto e completo. Dalla testa ai piedi. La copia esatta di Riccardo: capelli biondi con qualche sfumatura ramata, gli occhi della stessa forma di quelli di mio marito, ma di un verde speranza ammaliante e qualche piccola macchia di lentiggine attorno agli zigomi.

Noah, quiete che ristora o allieva e riposa. La nostra pace. Un bell'ossimoro dato che il piccolo Noah non era altro che un vortice di energia che ai primi mesi ci dannava le notti più calme.

«Avete finito, laggiù?», risi, facendo voltare tutti e tre.

«Mamma!», gridarono i due all'unisono.

Riccardo sorrise, riposando il capo sull'erba.

Di corsa, mi precipitai giù dalle scale con un pantaloncino e una canottiera. In salotto giacevano spaparanzati Gioele, ormai grande e con i suoi problemi da adolescente che andavano oltre i giorni di palestra, di basket, di brufoli e la seconda superiore. Mattia e Rachele rannicchiati sopra mio fratello che avevano appena fatto colazione con delle merendine Kinder confezionate e Sofia, che studiava ancora per diventare medico in Austria, ogni tanto la beccavamo a telefono con un tirocinante svizzero, ma non voleva mai raccontarci nulla.

«Giorno, tesoro!», mamma, dalla cucina con il suo grembiule, cucinava già per la cena che ci sarebbe stata quella sera.

«Buongiorno, mamma», le sorrisi.

Andai verso il portone e scompigliai i capelli a mio fratello, mi lanciò un'occhiataccia e io gli alzai il dito medio, alzò gli occhi al cielo ridendo.

Non appena messo piede in giardino, vidi la testolina di Nadia sbucare in una piccola corsa spericolata. La presi in braccio al volo, Mattia le stava alle calcagne, presi in braccio anche lui. «Buongiorno anche a voi!», li riempii di baci e loro si strinsero al mio collo. «Come siete belli», sorrisi, giocherellarono con i miei capelli, «Vi siete scatenati, eh?»

«Papà», sillabò Nadia.

«L'avete fatto fuori, ho visto», ridacchiai.

«Anakin!», disse Noah, soddisfatto.

«Me lo merito un bacio anch'io, adesso», Riccardo si portò i capelli bagnati all'indietro, varie goccioline a grondare dalle sue guance fino ai suoi pettorali. Quando Noah gli puntò di nuovo la pistola contro, lui alzò le mani, «Vengo in pace, giuro.»

«Glielo do un bacio, o no?»

Nadia e Noah guardarono loro padre. «No», risposero all'unisono.

Io annuii, divertita.

Riccardo abbassò il viso scoraggiato, facendoli ridere. «Grazie per essere sempre dalla mia parte», fece la linguaccia, poi mi prese il mento tra le dita, «Ma io il bacio lo voglio comunque», mi rubò un bacio a stampo veloce, scoccando le labbra sulle mie, loro gli spruzzarono altra acqua addosso.

Io risi mentre lui li lasciava fare, con le ciocche bagnate a incorniciargli le tempie e un mezzo sorriso sul viso. «Dai, andiamo a fare una doccia, che dite? Prima che arrivi vostra sorella», li portai per terra e loro gattonarono veloci dentro casa, facendo una gara a chi arrivasse prima da loro zio.

Con le braccia conserte, riportai l'attenzione su mio marito che si trascinava i capelli all'indietro: «A che ora ti hanno svegliato?», ridacchiai.

«Alle sette», sospirò, «Avevano fame, ma dormivi così placidamente che era un peccato svegliarti», borbottò, le sue braccia si attorcigliarono alla mia vita.

Gli sorrisi e gli diedi un bacio, «Ti ha chiamato Anna?»

«Sì, stavano giù al porto», mi strinse un po' più forte.

«Ci conviene muoverci, allora.»

Da quando Anna aveva divorziato col marito, si era fatta viva più volte. Forse le aveva fatto bene. Lei e Riccardo avevano parlato, avevano chiarito certe divergenze create in passato, e, anche se il loro rapporto non era tutto rose e fiori, almeno Anna si sforzava a comprenderlo. Capiva che Greta avesse bisogno di suo padre e che Riccardo avesse bisogno di sua figlia.

Feci colazione con l'odore di gelsomino sotto al naso e una tazza di caffè avvinghiata alla mano, mentre con l'altra impugnavo una matita e sottolineavo varie frasi de L'idiota.

Io e Riccardo avevamo fatto il bagno ai bambini. Ciò inscenava, la maggior parte delle volte, una battaglia navale: la vasca cominciava a straboccare d'acqua a causa di Noah.

Riccardo prese Nadia, la avvolse nell'asciugamano e le asciugò i capelli davanti allo specchio. Io feci la medesima cosa con Noah, lo vestii in maniera carina e, dopo, vestii anche Nadia.

Successivamente, chiudemmo a chiave la camera, approfittammo della vasca ancora piena di sapone e di acqua per infilarci dentro. Non appena il mio corpo fu pervaso dal profumo del bagnoschiuma naturale, sentii una sensazione di benessere attraversarmi la spina dorsale.

La mia schiena riposò sul petto di Riccardo, attutì i miei brividi e ne procurò ben altri, accarezzandomi con la punta delle dita. Sospirai e socchiusi gli occhi quando le sue mani mi accarezzarono i capelli con delicatezza.

«Ne avevo bisogno», sussurrai, sentendolo sorridere a pochi centimetri dal mio orecchio.

Le sue braccia mi invasero il ventre, le mie ginocchia premute l'una contro l'altra, «Di cosa?», mormorò. La sua voce mi arrivò dritta nel cuore, nello stomaco per quanto fosse profonda. Altri brividi.

«Di questo...», sorrisi anch'io, stringendomi nel suo abbraccio. «Era da tanto che non lo facevamo, che non avevamo un po' di tempo per noi due in pieno giorno», strofinò la punta del suo naso contro il mio zigomo, una dolce carezza.

«Anche a me mancava tanto, mancavi tanto», chinò il capo, per lasciarmi delle scie di baci sulla spalla. Mi accoccolai maggiormente tra le sue braccia, lui mi accarezzò la base del collo con l'indice, «Non te l'ho chiesto ancora. Cosa pensi riguardo ad Anna e Greta?»

«In che senso?», la mia mano cercò la sua guancia, fino a trovarla e accarezzargliela.

«Del fatto che vengono a trovarmi. Scusami se non ti ho chiesto alcun parere prima di accettare, sono stato un incosciente.»

Io negai subito, «Non è vero, non dovevi chiedermi nulla. In tal caso, se me lo avessi chiesto, io non potevo essere in disaccordo», dissi, «A me non dispiace, anzi, sono felicissima, davvero. È tua figlia, sai che non ti impedirei mai di vederla o farla stare con noi.»

«Lo so, ma tu sei la mia famiglia, Alba», sussurrò dolcemente. Quando sollevai le palpebre incontrai i suoi bellissimi occhi, «Senza di te, io non so come farei. Non voglio che tu ti senta meno importante rispetto ad altre questioni. Greta è mia figlia, sì, ma tu sei mia moglie e la madre dei miei figli, e, sopra a ogni cosa, la donna che amo e che voglio con me per il resto della mia vita», mormorò senza prendere fiato, senza smettere di fissarmi. «Voglio che tu sia partecipe nella mia vita al di fuori di questo. Voglio che Greta si renda conto che tu, quanto me, hai il diritto di essere ritenuta speciale. Voglio che veda te non solo come la "moglie di mio padre", ma come qualcosa in più, come una figura... speciale. Anna rimarrà per sempre sua madre, nessuno le toglie il diritto di esserlo, ma voglio che lei veda in te un'altra figura materna», si lasciò sfuggire un piccolo sorriso, «Tu, Nadia, Noah e Greta siete la parte più bella della mia vita; non avrei mai immaginato che potesse accadermi una cosa del genere dieci anni fa, ma adesso so che non ho desiderato altro che questo per tutto il tempo», abbassò lo sguardo sulla sua fede matrimoniale, «Questo per dirti che mi dispiace di non averti chiesto nulla, ero semplicemente emozionato all'idea che Greta potesse restare con noi, potesse passare del tempo con te, con i bambini, con gli altri per qualche settimana e che Anna potesse capire quanto, in realtà, sua figlia sia voluta bene da tutti. Da quando è al mondo non ha mai visto suo padre essere veramente presente, mi sento in colpa. Tutto qui...», arricciò il naso.

Piegai il capo contro la sua spalla, avevo gli occhi un po' lucidi. Annuii, annuii e basta. Le mie dita sul suo mento in una dolce premura, «Okay.»

Lui sorrise. «Okay?»

«Okay», gli sorrisi a mia volta, avvicinandomi per preservargli un bacio.

Aggrappò le dita alla mia guancia e mi restituì il respiro. Non esisteva bacio suo che non mi causava le farfalle nello stomaco. Appena sfiorava le mie labbra, un intero ingranaggio di fuochi d'artificio scoppiava nella bocca dello stomaco, provocando l'aumentare del battito del mio cuore. I suoi baci erano carezze all'anima, erano una cura.

«Sei una brava persona», sussurrai, la sua fronte contro la mia, rimasi a fior di labbra da lui. Le mie nocche scivolarono sul suo petto, Riccardo mi osservò a lungo, parve scrivere qualcosa ai bordi del mio volto: «Sei davvero una brava persona, Riccardo.»

Senza darmi il tempo di dire altro, mi baciò ancora. Era così per noi, anche se fossimo legati da anni ormai, anche se ci amavamo incondizionatamente, saremo sempre stati vulnerabili e nuovi davanti all'altro. Stare con lui era sempre una possibilità per conoscerlo meglio, stare con lui era come se lo conoscessi per la prima volta.

E no, dopo anni, tirai la conclusione che, per quanto potessi amare alla follia i suoi occhi, le sue labbra, i suoi capelli o qualsiasi altra cosa, io non mi ero innamorata di tutto ciò. Io mi ero innamorata della sua anima, di tutto quello che era Riccardo. Lui, e basta. Amavo la sua intera esistenza, perché senza la sua esistenza, io stessa non sarei esistita.

Qualche minuto dopo, alla porta venne a bussare mio padre: «Scusate se vi interrompo! Sono arrivate!», gridò.

Uscimmo dalla vasca, ci preparammo in maniera veloce e, con i capelli ancora umidi, scesi le scale di casa dopo avergli intimato di controllare prima dove fossero Nadia e Noah.

Quando mi trovai in giardino, la tenue voce di Greta mi raggiunse: «Alba!», e dopo la vidi.

Era all'entrata, accanto al cancello. I capelli lunghi e lisci le coprivano tutta la schiena come un mantello, gli occhi grandi e rotondi e sempre attenti a sorridere quando incrociarono i miei. Il leggero vestitino bianco che aveva indosso le incorniciava il fisico ancora prematuro e magrolino.

Adesso ch'era cresciuta, oltre ai tratti di Riccardo, erano palesi i tratti soavi della bellezza mediterranea di Anna.

Quando mi abbracciò sentii l'odore forte di rose, quasi lo stesso di quello che c'era nella serra alle spalle della Villa, instaurata qualche mese prima da Tonio, già piena di fiori, l'aveva fatta per il nostro regalo di matrimonio e per il mio compleanno. Ci passavo le ore a leggere qualcosa ai bambini prima di cena.

«Ciao, tesoro», le diedi un bacio tra i capelli. «Come sei diventata grande», la osservai con le mani chiuse sulle sue guance rosate.

«Mi sei mancata molto.» Gli anni passati in Francia le avevano restituito una cadenza sofisticata, quasi dolce e gentile, «Sono felice di essere qui.»

La abbracciai di nuovo. I suoi occhi emanavano purezza e genuinità. Non riuscivo a non vederci quelli di Riccardo: «Anch'io sono felicissima tu sia qui», sorrisi.

«Papà?», chiese.

«Sta arrivando, stava sistemando le ultime cose. È molto emozionato», ridacchiai.

Lei sorrise. «Oh, e grazie ancora per avermi permesso di restare.»

«Ma di che, sei la benvenuta sempre», le accarezzai la guancia, «Ti troverai benissimo», mi voltai a cercare mio fratello. Lo trovai stravaccato sulla sedia a sdraio vicino alla piscina. «Gioele! Corri! Vieni a fare l'uomo di casa!»

Lui sbuffò. Posò il libro di fantascienza che stava leggendo e, probabilmente mi maledisse, infilandosi le infradito blu si passò una mano tra la chioma irta e scura.

«Lei è Greta. Trattamela bene», lo minacciai con lo sguardo, «Falle compagnia per qualche minuto, sta per arrivare Riccardo.»

Gioele annuì, allungò la mano a Greta. «Piacere, so' suo fratello», mormorò.

«Piacere», uscì dalle labbra carnose di Greta.

Sorrisi a entrambi. Quando mi allontanai, sentii Gioele sospirare e poi chiedere: «Te leggi?»

Greta, imbarazzata, gli rispose. «Sì. Ma questa roba qui non fa per me...»

«Frank Herbert non fa per te?»

«Mh, no. Leggo solo Flaubert.»

«Solo?», supposi Greta annuì, «Cazzo che noia, si capisce che sei francese», mormorò.

«Non sono francese», rispose pronta, Greta.

«Ah, no?»

Ridacchiai sentendoli battibeccare.

Mi avvicinai al cancello. Anna, avvolta nella sua camicetta di seta e i capelli biondo sporco raccolti in una crocchia ordinata sulla nuca, era trattenuta in una chiacchierata con mia madre.

«Ma Greta è sempre la benvenuta, sarà come casa sua», le sorrise mia madre.

Anna annuì. Era un po' a disagio. La capivo. Era la prima volta che si faceva viva alla famiglia del padre di sua figlia, anch'io mi sarei sentita in quel modo.

Così decisi di farla sentire un po' meglio. Almeno ci sperai.

«Ciao», le sorrisi con tutta le gentilezza che avevo in quell'istante, mi avvicinai per abbracciarla. Lei, seppur titubante, ricambiò calorosamente l'abbraccio, strofinando le mani sulla mia schiena. «Sono contenta di conoscerti», continuai a sorriderle quando mi allontanai, «Sono Alba.»

«Anna, piacere», ammiccò un sorriso.

«Com'è andato il viaggio?»

«Calmo. Greta ha dormito per la maggior parte del tragitto», annuì, «Grazie per l'ospitalità.»

«Non c'è da ringraziare», mi strinsi nelle spalle, «Hai tempo per un caffè, o sei indaffarata?»

«Forse qualche minuto libero ce l'ho», rispose, dopo qualche secondo di attesa.

«Perfetto», sorrisi, «Prego, e scusaci il baccano ma la presenza di bambini oltraggia l'ordine», ci incamminammo verso il giardino irrigato d'acqua fresca.

Lei ridacchiò, «Invece è una bellissima villa.»

Mamma le chiese qualcosa sulla Francia, lei le rispose, ma il mio sguardo si concentrò su Greta e Gioele, l'uno l'opposto dell'altro, accomodati al tavolo a discutere animatamente. Quando, poi, Riccardo uscì dal portone con le mani nelle tasche e lo sguardo già puntato su sua figlia.

Lei, non appena lo vide, si sorresse e corse nelle sue braccia. Riccardo la alzò da terra, Greta incollò le braccia alla sua nuca e affondò il viso sulla sua spalla. Mio marito la abbracciò fortissimo.

Dopo averla riportata giù, Greta partì a macchinetta, parlò velocemente e Riccardo le stampò un bacio sulla fronte e la ascoltò divertito. Ci avvicinammo, Anna, vicino a me, si irrigidì appena.

«Hai conosciuto Gioele?», chiese.

Gioele, a pochi metri da lui, rispose: «Puoi dirle anche tu che è una palla leggere solo ed esclusivamente Flaubert?»

Riccardo si accigliò, offeso, «Flaubert? Mio Dio, ma che t'ho insegnato?»

Greta sbuffò, fulminò Gioele, che se la rideva sotto i baffi e riportava lo sguardo sulle pagine. «Innanzitutto è Flaubert», disse con un accento impeccabile, «E seconda cosa, non è una palla», citò le parole di Gioele.

«Allora, facciamo che, per un giorno, Lele legge solo Flaubert e tu leggi solo Herbert.»

«Che?»

«Absolument pas.»

«Un sacrificio per entrambi», propose Riccardo.

Sbuffarono all'unisono.

Mamma rise.

«Amore, noi andiamo in cucina a prendere un caffè. Vieni anche tu?»

Riccardo negò. Salutò Anna con un sorriso cordiale, lei alzò la mano e strinse le labbra. «No, magari vi raggiungo più tardi... rimango un po' con Greta», mi disse. Nei suoi occhi brillava una scintilla che strillava felicità.

«Eccoci qua», dal portone dietro Riccardo, sbucò mio padre con in braccio Nadia e Noah, con le lacrime agli occhi e i labbrucci striminziti che minacciavano un pianto isterico, «Vedete? Sono qui mamma e papà, non se ne sono andati.»

Succedeva sempre così. Quando non ci vedevano per qualche minuto, cominciavano a piangere come dei forsennati. La pediatra ci aveva detto fosse normale, essendo in due sentivano più la necessità di avere i genitori insieme e vicini. Una specie di psicologia gemellare tutta loro.

Riccardo allungò le braccia e prese in braccio entrambi, sorrisi e accarezzai le loro guanciotte piene e arrossate.

Greta stava sorridendo, «Sono i vostri figli?»

«Greta, ti presento Nadia e Noah», li presentò, «Nadia, Noah, lei è Greta.»

Greta si avvicinò con cautela e lasciò una carezza sul capo rossastro di Nadia. «Che belli che sono, hanno degli occhi splendidi. Sono identici a entrambi.»

Nadia si allontanò dal nascondiglio che le garantiva il petto di suo padre, per allungarsi verso Greta. Riccardo sorrise.

«Oh...», esalò Greta, mezza contenta e spaventata, «Posso... posso prenderla?»

«Se Nadia vuole, allora puoi.»

Greta stese le braccia, le sue mani a stringerle delicatamente il bacino per portarsela vicino al mento. La tenne attentamente per paura di farle male, «Ciao», ammiccò, con tenerezza.

A Nadia uscì una piccola risata.

Sorrisi, mi rivolsi a Riccardo, «Noi andiamo», poi pizzicai una guancia a Noah, «E tu non fare il timido», Noah abbracciò di più il padre.

Riccardo rise sottovoce, mi rubò un bacio veloce e feci cenno ad Anna di seguirmi. Attraversammo il salotto e giungemmo in cucina. La feci accomodare sulla sedia di fronte alla penisola, sciacquai la moka e la riempii con altro caffè.

«Siete sposati, giusto?», chiese d'un tratto.

«Mh-hm», le sorrisi lanciandole uno sguardo da dietro la spalla, «Un mese fa è stato il nostro secondo anniversario.»

«Vi trovate bene?»

«Oh, sì, certo», annuii, «Ovvio, discutiamo qualche volta, nessuno è perfetto. Ma ci troviamo, andiamo d'accordo.»

«Greta mi ha parlato tanto di te.»

«Di me?», afferrai delle tazzine, misi un cucchiaino di zucchero a entrambe. «Davvero?»

«Sì. È contenta per suo padre», disse, riuscii a sentire malinconia nella sua voce. «Quando mi sono sposata io con un altro, non era così raggiante», sospirò.

«Non sarà stato facile, immagino», mi voltai, la schiena poggiata al marmo del lavello, col rumore della fiammella del fornello a sciogliere il caffè.

«No... no, per niente», borbottò, giocherellò con un braccialetto. «Posso confidarti che mi dispiace?»

«... ti dispiace, per cosa?», mi accigliai.

«So di essermi comportata male con Riccardo, sin da quando Greta era piccola», continuò, «Ma ero una ragazza, avevo paura e poi, per la maggior parte del tempo, sono stata influenzata, forse è meglio dire manipolata, da Antonio...»

La osservai bene. «Credo che Riccardo lo sapesse. Non è mai stato in collera con te. Certo, non me l'ha mai detto, ma credo sapesse che Antonio non ti facesse bene.»

«Il divorzio è stato difficile solo perché mi sono sentita prosciugata. Per il resto è stata la cosa migliore...», provò a sorridermi, «Voglio riprendermi la mia vita e dare di meglio a mia figlia.»

«Sono sicura che ci riuscirai», asserii, fiduciosa, «Io e Riccardo saremo non felici, ma di più, di accogliere sia te che Greta. Anzi, abbiamo ancora una camera vuota, la puoi occupare tutta. Sei ancora in tempo per accettare la proposta», sperai in una risposta affermativa.

Lei sorrise, questa volta con più spontaneità. «Preferisco che Greta si viva meglio suo padre, senza me fra i piedi. Le farà bene. Non vedo i miei da anni, farà bene anche a me distaccarmi un po'», mormorò, poi fece spallucce.

«Rispetterò la tua decisione», alzai le mani a mezz'aria, «Ad ogni modo, puoi sempre telefonarla, puoi sempre telefonare me o Riccardo, per qualsiasi cosa. E oggi a cena pretendo che tu ci sia, mamma si è informata tutta la settimana sui piatti tipici francesi per cucinare di tutto tranne che qualcosa con quegli ingredienti», ridacchiai.

«Ci sarò, va bene.»

Dopo aver annuito con gioia, la macchinetta del caffè cominciò a scoppiettare. Spensi il gas e versai il contenuto scuro nelle tazzine.


Nel corso della mia vita lessi pagine e pagine di storie lontane dalla mia. Per un lungo periodo non mi impegnai minimamente di portare a termine la mia storia.

Il tempo mi è stato d'aiuto: grazie a lui ho capito che l'amore, quanto nocivo potrà essere, potrà sempre rinascere e porterà con sé una valanga di emozioni nuove. Ti trascinerà in un fondale con veemenza, fino a farti sentire i polmoni bruciare, e, per quanto potrai graffiare l'acqua nel tentativo di risalire, non ci sarà modo di tornare a respirare, a galla, e tutto ciò che potrai fare è restare immobile e lasciarti cullare dalle correnti dell'abisso.

Solo così sopravvivrai.

Il Sole era altissimo nel cielo blu, la Villa era un gigante dalle pareti crepate e con i rampicanti alla base di essa che davano l'aria d'essere immersi in una flora selvatica; l'erba solleticava le piante dei nostri piedi e la tavola era imbandita, ricoperta da una tovaglia color crema con motivi floreali e due brocche d'acqua di vetro sorgevano nel bel mezzo di essa.

«Mi passi l'olio?»

«A che ti serve l'olio?»

«Senti, francesina, te mangi l'escargot non puoi capicce niente. Me passi l'olio?»

«Ma chi me l'ha detto a me di sedermi qua...», bofonchiò Greta.

«Perché sono simpatico.»

«Sei un deficiente.»

Trattenni una risata quando Gioele si alzò, dandole una leggera spintarella con la sedia e si allungò per afferrare la boccetta d'olio. Lei lo fulminò.

Il mio sguardo ricadde su Riccardo che stava mettendo a Nadia il bavaglino. «Andranno d'accordissimo.»

Lui mi guardò senza capire, con il mento indicai Greta e Gioele. Rise appena, «Se lo dici tu, professoressa.»

«Vedi che è normale, tutti fanno così inizialmente. Mica io e te siamo andati subito d'accordo», sorseggiai un po' di vino.

«Te c'avevi una cotta per me sin dalla prima volta che m'hai visto», si accigliò, divertito.

Io risi, scossi il capo, «Hai sentito cos'ha detto tuo padre?», Nadia rise assieme a me e Riccardo ci fissò mordendosi il labbro. «A volte anche lui fa ottime battute», lo guardai di nuovo, «Eri un pallone gonfiato, Sorrentino.»

«Tu non eri da meno», alzò le sopracciglia.

«Ma alla fine mi hai sposata lo stesso.»

«Esistono circostanze che non puoi impedire.»

Lo fissai, sperando che per un attimo riuscissi a trattenere un sorriso, ma quando lui mi fece un occhiolino, fu impossibile. Portai lo sguardo su Nadia, si mangiucchiava le dita per via dei dentini in crescita: «È un ruffiano.»

Riccardo incrociò le braccia sul petto nudo, come tutti gli altri uomini della Villa, che si moriva di caldo. Si guardò circospetto e poi divenne serio. «Ma Noah?», mormorò.

Mi guardai attorno anch'io, fin quando dalla sala da pranzo, Noah uscì in una corsetta traballante: «Musica!», aveva in mano un vinile.

Sospirai, «Noah...», mi alzai da tavola sentendo anche Riccardo sospirare dallo spavento e portarsi una mano al petto. Lo presi in braccio e afferrai il vinile che aveva tra le mani.

Domenico Modugno, il volto sorridente di Modugno spiaccicata sulla facciata, Disco d'esordio del cantante di "Volare".

Gli sorrisi, lui indicò Modugno. «Lo sai che da ragazza, questo qui era il cantante preferito della mamma?»

«Musica! Metti musica!»

«Vuoi sentirla?», ridacchiai, lui annuì, «Va bene, andiamo a metterla.»

Giungemmo in salotto, me lo poggiai sulle ginocchia e sfoderai il disco per metterlo sul radiofonografo. La puntina con l'ago affilato stuzzicò le corde del disco, fino a riprodurre l'inizio dolce e leggiadro della canzone Nel blu dipinto di blu.

Noah prestò attenzione ad ogni movimento, ammaliato da ciò che vedeva. Poi sorrise con allegria, alzò le mani al soffitto e ondeggiò con il capo. Gli diedi un bacio sulla tempia e me lo sistemai tra le braccia, «Ti piace, vero?»

Gliela canticchiai e lui mi abbracciò.

Quando ritornammo in giardino, erano tutti pronti per pranzare. Accomodai Noah sul suo seggiolino, col continuo sottofondo ovattato delle canzoni del disco ad accompagnare il rumore delle cicale e dei piatti contro le stoviglie, «Dove siete stati?», chiese Riccardo.

«A Noah piace la musica», dissi, con orgoglio.

Riccardo sollevò le sopracciglia in una smorfia di divertimento.

Guardai tutti loro e vidi tutto quello di cui avevo bisogno. La leggerezza e la serenità mi colmavano il petto.

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