Domani sarò alba

By CuoreAdElica

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𝗖𝗼𝗺𝗽𝗹𝗲𝘁𝗮 ✔️ 𝙽𝚎𝚠 𝙰𝚍𝚞𝚕𝚝 💋 1/2 Alba ha il tramonto stampato in faccia. Capelli rossi, occhi ver... More

Cast
Albero genealogico
Chi sono Elia e Isabella?
MP3 di Alba
Prologo
Alba odia i capelloni - Parte Uno
1. L'isola dell'Amore
2. Uno sconosciuto nella Villa
3. Favori e debiti
4. Ottimo ascoltatore, pessimo argomentatore
5. La briscola è uno strumento di difesa
6. Ad ogni uomo il vestito che si merita
7. La Libera
8. Il pescatore e la monaca - Pt. 1
9. Il pescatore e la monaca - Pt. 2
10. A caccia di fiori e pranzi stravaganti
11. Il monolocale
12. Sole, spiaggia, sesso
13. Di mare e di stelle - Pt. 1
14. Di mare e di stelle - Pt. 2
15. Ne vale la pena?
16. Una canzone tua, nostra
17. Essere visti per chi siamo davvero
18. Sei dove non sono io
19. Le scritte sui muri rimangono in eterno
20. Ci viviamo
21. Sii prudente con questo tuo cuore
22. Musica jazz, sigarette e amici di famiglia
23. Notti d'agosto al sapore di mare
24. Ciao amore, ciao
Non è mai abbastanza - Parte due
25. Il tempo passa
27. Resta
28. E basta
29. All'ombra di un tramonto
30. Luce dei miei occhi
31. Ne è valsa la pena
32. Nuovo inizio
33. Roma, Amor
Epilogo
Ringraziamenti
Sogno - EXTRA
Scappare - EXTRA

26. Bisnonna Silvia, sei eterna

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By CuoreAdElica





ALBA
Roma, inverno.







Questo capitolo lo dedico ai nonni.
A tutti i nonni del mondo.
Le anime più pure della Terra, assieme ai bambini.
Che siate benedetti sempre.















Quella mattina, a Roma, il cielo era grigio, costellato da nuvoloni che minacciavano pioggia.

L'insegna del ristorante si confondeva con la foschia. Fabio, di fronte a me, si era appena versato un calice di vino.

Fabio aveva dei folti capelli neri, sistemati e ordinari, un paio di occhi scuri e il fascino da ragazzo che studia giurisprudenza.

Proveniva da una buona famiglia della borgata romana e si presentava sempre ben vestito, con i suoi completi firmati, il suo orologio da milioni di euro e un paio di occhiali da Sole abbinati alle scarpe all'ultima moda. Le nostre amiche dicevano che assieme sembravamo la coppia perfetta: belli e vincenti.

Con lui andavo d'accordo. Era bello, interessante e sapeva scherzare. Era di compagnia, se così si può definire. Litigavamo poco, ma quando lo facevamo io ero sempre quella nel torto. A quanto pareva, la sua indole da avvocato lo portava a voler ragione in qualsiasi campo, persino quello dell'amore. Ovviamente. Eppure era lui a scusarsi, sempre.

Con i miei andava d'accordo. Li aveva conosciuti un anno dopo dall'inizio della nostra relazione. A mio padre non interessava più di tanto, non prediligeva le persone come Fabio, quelle con le solite conversazioni da fare e poco pratici. Ma, per me, provava a sforzarsi ad essere felice, provava a credere che io fossi felice di nuovo.  

Alzai il mento dopo aver finito di chiedergli un'opinione sulla mia tesi finale, «Fabio, mi stai ascoltando?», mormorai, vedendo che tutta la sua attenzione era rivolta al cellulare.

«Mh?», disse, troppo occupato a cliccare dei tasti sul display, «Come dici, amore?».

Scossi il capo, riabbassai lo sguardo, torturando un pezzo di carne con la forchetta, «No, niente, lascia stare.»

Lui annuì, si pulì la bocca velocemente e prese un sorso di vino. «Comunque, mio padre mi ha assegnato un piccolo caso da seguire», io poggiai la guancia sul palmo della mano, lo ascoltai scocciata — come ogni volta —, «Se ti raccontassi tutta la vicenda scoppieresti a ridere.»

E, mentre lui mi elencava l'assurdo caso che gli aveva affidato il padre, avvocato, il mio cellulare squillò. Era una chiamata da parte di mio padre. Pensai: grazie a Dio qualcuno mi pensa sul serio.

Mi scusai con Fabio e portai il cellulare all'orecchio. «Papà? Dimmi...»

«Sono la mamma», mormorò, un po' sottotono, tirò su con il naso. «Puoi tornare a casa?»

Mi accigliai. «Tutto bene? Cos'è successo? Papà?»

«Non si sente molto bene. Dobbiamo parlarne con te», mormorò, «Alba, è una cosa abbastanza importante. Ti prego, torna a casa in fretta.»

«Sì... okay, sto arrivando», farneticai. Fabio mi fissò sconcertato, «A tra poco.»

Mi alzai da tavola, «È successo qualcosa?», chiese, allarmato.

«Mi sa di sì», dissi, con frenesia, «Devo andare, mamma sembra agitata e preoccupata», infilai il cappotto pesante, il cellulare tra le dita.

«Vuoi un passaggio?».

«No, tranquillo, prendo il tram. Ci sentiamo dopo», gli diedi un bacio veloce sulle labbra, mi pizzicò la sua leggera barba curata. 

«Fammi sapere.»

Un uomo mi aprì la porta e, dopo averlo ringraziato, uscii dal ristorante. Di corsa mi precipitai alla prima fermata che avevo davanti. Pestai una pozzanghera sul marciapiede, formata dal diluvio della sera precedente. In tram pensai a tutte le possibili cose che avrebbero potuto dirmi. Il solo pensiero mi preoccupò e mi suscitò ansia.

Salii le scale di casa in fretta, gli anfibi a slittare sulle mattonelle. Infilai le chiavi nella toppa, sistemandomi i capelli mossi, sistemati in un taglio balayage. 

«Mamma? Papà?», borbottai, poggiai la borsa e le chiavi sul comò accanto all'entrata.

Mamma spuntò dalla cucina, aveva gli occhi rossi dal pianto e le guance paonazze. Io mi spaventai all'istante.

Era strano che piangesse, «Mamma...», sussurrai, lei mi venne vicino e mi abbracciò, la strinsi a mia volta. «Cosa... cosa succede? Mi stai spaventando», corrugai la fronte.

Lei trattenne un singhiozzo. Si allontanò e si toccò i capelli raccolti in una coda leggermente disordinata, i primi capelli bianchi a spuntare più evidentemente, qualche ruga più scoperta e le labbra increspate, le ciglia umide. Mi sorrise debolmente, mi accarezzò la guancia con le dita tremanti.

La guardai con il cuore a mille. I suoi occhi si riempirono di lacrime, «La bisnonna...», singhiozzò prima di poter terminare la frase. 

Mi pietrificai.

Smisi di respirare.

Deglutii.

Un brivido mi catturò le braccia da sotto i tessuti dei vestiti.

«... No...», sussurrai, portandomi la mano sulla bocca, scossi il capo. Trattenni le lacrime, ma quando mamma annuì, scoppiai in un pianto isterico. «Non è vero», mi strinse a sé per proteggere quel mio cuore tumefatto. 

«Stamattina», sussurrò, piangendo, «Ci ha avvisati Tonio, poche ore fa», mi disse, le mie lacrime si confondevano con la sua voce. 

Quella mattina l'ultimo pezzo della mia anima era andato in frantumi.

Quella mattina, quando il cielo piangeva, nel frattempo, un altro angelo ascendeva con le sue ali dorate.

Quella mattina, capii che niente sarebbe tornato più come prima.

La bisnonna Silvia mi aveva lasciata.

Non c'era più.

Non le avevo dato alcun bacio, nessun abbraccio e non le avevo detto quanto le volevo bene.

Non avevo fatto altro che scappare da Ischia, piuttosto che passare gli ultimi tempi con lei. 

«Papà sta molto male», mi accarezzò i capelli. «Andiamo da lui», suggerì.

Annuii, mi asciugai le lacrime invano, e, mano nella mano, raggiungemmo la loro camera da letto.

Papà, steso con il viso umido e il respiro calmo sotto le coperte, dava le spalle alla porta. I ricci neri e un po' grigi erano sparsi per il cuscino bianco, si ripercosse quando sentì i nostri passi, ci riconobbe: «Venite qui», sussurrò senza voce, la gola secca.

Allargò le braccia, mamma si posizionò in una ed io in un'altra. Affondai il viso sulla sua spalla e sentii il suo cuore battere flemme. Mi accarezzò i capelli, aveva le labbra poggiate sulla fronte di mia mamma, quest'ultima gli carezzava il mento con il pollice. 

Ci strinse a sé. Come se fossimo l'unica cosa che lo tenesse veramente in vita.

Avrei tanto voluto scusarmi con lui. Per tutto.

Sospirò e tirò su con il naso.

«Staremo bene», sussurrò. Mamma annuì, gli accarezzò il petto, «Staremo bene.»

Avevamo organizzato il funerale della nonna Silvia per il 5 dicembre.

Papà era sempre al telefono con nonna Simona e dormiva veramente poco, tant'è che, spesso, quando preferivo restare a dormire dai miei — in camera di Gioele — e mi svegliavo presto per studiare, papà e mamma erano sul divano avvinghiati, probabilmente prendevano sonno tardi, probabilmente papà faticava ad addormentarsi e mamma restava con lui per tutto il tempo.

Papà aveva anche ripreso a fumare, e non lo faceva da tempo.

Mamma lo teneva molto sott'occhio, era molto attenta con lui. 

Saremo partiti per Ischia il mattino presto del giorno del funerale.

Avevo avvisato Fabio di quanto accaduto, ma non sùbito, non volevo parlare con nessuno. Gli dissi il minimo indispensabile.

Mi ero portata con me la collanina che mi regalò la bisnonna Silvia al mio battesimo. Con il ciondolo a forma di margherita che si apriva e, al suo interno, vi era scritto: "Al mio fiore preferito tra tutti"

Non avrei mai immaginato di poter risentire il profumo di mare, di Ischia, così vivamente. Erano anni che non lo sentivo, che non lo avevo sulla pelle. Rivederla fu come ritornare indietro nel tempo, come se quei cinque anni non fossero mai esistiti.

Era uguale. Non era cambiata, la mia isola.

Rimanemmo le nostre valigie in macchina, e, dopo un tragitto di traffico domenicale, arrivammo alla Chiesa di Ischia Ponte. 

Avevo i capelli che mi coprivano le guance, per prepararmi ci avevo messo più del previsto, avevo un trucco leggero che a stento copriva il gonfiore dei miei occhi e un abito nero mi fasciava i fianchi e si apriva in una gonna fino alle ginocchia, un décolleté completamente nero e la collana sul petto. 

Non appena vidi nonna Simona mi buttai tra le sue braccia, in quell'abbraccio mi dimostrò il dolore che tutti, quel giorno, stavamo provando. Un dolore straziante.

Mamma mi invitò ad accomodarmi alla panca davanti a quella di Geppa e Tonio, nel frattempo loro finivano di accogliere i parenti. Annuii. Non avevo alcuna voglia di sentire le condoglianze degli altri, la pena.

Gioele aveva le mani unite e dondolava in disparte, vicino alla statua della Vergine Maria, era taciturno, con il suo completo nero, simile ai suoi capelli ricci. Intenerita, mi avvicinai. 

Aveva ormai dieci anni, era grande, ma io non avrei mai smesso di guardarlo come un bambino, come il mio fratellino piccolo.

«Lele», sussurrai, accarezzandogli la guancia, «Vieni con me?», gli allungai la mano. 

Me la strinse e ci avviammo lungo la navata, lo guardai, «Andrà tutto bene.»

Lui annuì, senza dire niente.

Abbracciammo Geppa e Tonio, ci accomodammo vicini. La foto della nonna era bellissima, sorgeva sull'altare come se fosse una promessa d'amore: era una foto scelta da mio padre, erano raffigurati lei e il nonno Gioele, qualche anno prima che lui morisse. 

Anziani, sì, ma col cuore di ragazzini innamorati. 

Quella foto era come un passaggio, come se nonno Gioele stesse accogliendo la nonna Silvia, come se si stessero ricongiungendo nella grazia dei cieli, finalmente insieme, finalmente in pace.

Il loro era un amore senza limiti, fatto di attese e impossibilità, fatto di malesseri e conciliazioni. Un amore fatto di problemi, divergenze e difficoltà, ma alla fine è trionfato, nonostante tutto, nonostante tutti i dispiaceri della vita. 

Loro erano il mio simbolo d'amore, si erano bastati a vicenda e si erano amati come solo Dio sapeva.

Tantissimo. Si erano amati fino all'ultimo respiro.

Mi asciugai una lacrima veloce e mi feci forte, per Gioele vicino a me, che mi aveva sentita tirare su con il naso e mi aveva stretto la mano: «C'è il nonno Gioele», sussurrò, contento. 

Io con gli occhi lucidi avevo annuito, gli diedi un bacio tra i ricci, stringendogli la spalla in un abbraccio.

Mamma e papà ci raggiunsero. Lei con il braccio incatenato a quello di papà, e lui che se la teneva forte addosso, come se fosse la sua unica àncora in quel momento. Non si lasciavano nemmeno un secondo: nel dolore, i miei genitori, si amavano di più.

Il prete cominciò la cerimonia.

Non sopportavo i funerali, ne ero stata a pochi, e principalmente li odiavo, perché non mi piaceva piangere, e, soprattutto, non mi piaceva vedere e sentire le persone piangere, a maggior ragione se queste persone erano quelle che amavo di più. 

Vedere papà piangere fu la cosa più brutta.

Quando arrivò il momento d'alzarsi, Gioele si avvinghiò al mio fianco, abbracciandomi.

Mi mordicchiai la guancia, trattenni con tutta me stessa le lacrime. Mi voltai, osservai con prudenza i miei parenti e i loro volti spenti, scavati dalla tristezza, dallo struggimento di quei giorni.

Zio Flavio fingeva di essere forte, ma stringeva fortissimo la mano di sua moglie, e manteneva lo sguardo fisso sulla fotografia.

Zia Monica abbracciava zio Daniel, le mie cugine fissavano il prete con le lacrime agli occhi, incapaci di abbassare lo sguardo.

La voce del parroco arrivava a tutti gli angoli della chiesa, invece, i miei occhi continuarono a vagare tra le panche, scorgendo visi familiari di conoscenti e amici della bisnonna Silvia e del bisnonno Gioele.

Poi, in fondo a tutta la Chiesa, lontano da tutti, c'era lui.

Riccardo era lì.

Il pantalone nero gli calzava a pennello, la camicia nera gli attorniava il petto robusto, le maniche arrotolate sui gomiti facevano fuoriuscire i suoi tatuaggi. Ma la cosa che più notai, furono i capelli. Erano corti, molto più corti.

Non li aveva più lunghi, li aveva tagliati.

Aveva tagliato le lunghezze, li aveva più ricci, gli coprivano la fronte e un po' la nuca, gli facevano persino spuntare la lucentezza dell'orecchino sul lobo e si notavano meglio i lineamenti del viso spigoloso. 

La sua bellezza infame e insulsa mi pugnalò lo stomaco. Come poteva farmi quell'effetto? Come poteva presentarsi lì, come se nulla fosse, e farmi così male? E, soprattutto, come si permetteva di togliermi il respiro?

Mi arrabbiai con me stessa. Perché, oltre che a farmi male, la sua presenza, , mi rassicurò, mi procurò pace. Sicurezza. Non c'era aspetto che più mi deludesse, se non quello. Non sapevo se volevo che se ne andasse o se io avessi voluto correre da lui.

Riccardo alzò le iridi, ed io strinsi, istintivamente, Gioele fortissimo a me, come se da un momento all'altro potessi svenire.

I suoi occhi mi ricevettero. Lo stronzo già sapeva che lo stavo guardando. Sapeva dove trovarmi, perché lui stesso m'aveva già guardata.

Riccardo inchiodò le iridi nelle mie. In quella tetra mattina, lui, per qualche secondo, riportò il Sole. Lo riportò a me.

Avevo guardato l'attimo in cui mi captò, in cui accolse il mio sguardo: alzò lo sguardo, lo portò prima sul prete, e, quasi con smania e frenesia, spostò gli occhi dritti nei miei. 

Trasalii silenziosamente, ingoiai il respiro.

In uno sfarfallio di ciglia, il suo viso si ammorbidì, divenne placido, strinse le labbra in un sorriso breve, gentile. Io ricambiai tristemente, sentii le mie palpebre pesanti.

Parve dirmi qualcosa con quello sguardo. Aveva sempre provato a parlarmi attraverso occhiate silenziose, ma mai come in quell'istante desiderai che mi venisse vicino e mi dicesse tutto. Senza tralasciare niente. Quanto avrei voluto che i suoi occhi avessero una voce.

Tutto ciò di cui ero certa era che, con quel solo sguardo, Riccardo mi aveva calmata. Avevo sentito l'ossigeno pompare nei polmoni. Inspirai profondamente.

Dopodiché, ci guardammo per altri secondi infiniti. I suoi occhi scesero sulla mia figura, il suo petto ad abbassarsi e alzarsi con fare repentino. 

Più lo guardavo, più mi rendevo conto fosse reale.

Era lì, in carne ed ossa.

Deglutii e abbassai lo sguardo.

Riportai l'attenzione alla cerimonia, percepii le sue pupille navigare ancora su di me, ed io avrei desiderato solo scappare, da lui. Non era mai stato così vicino negli ultimi anni, l'idea che c'erano solo dei banalissimi metri a separarci mi faceva formicolare la piante dei piedi.

Uscimmo ad assistere alla sepoltura.

Incrociai le braccia al petto, portai la mano sulle labbra, tolsi velocemente le lacrime dagli occhi e sospirai, sperai che nessuno mi avesse vista piangere. Guardai la bara venire coperta, tutti si allontanavano tra lacrime e fazzoletti sgualciti nelle mani.

«Voglio stare cinque secondi da sola», sussurrai a mia mamma, che era venuta a chiedermi se stessi bene. Lei se ne andò assieme a mio padre, che parlava con Gioele, quest'ultimo era rimasto turbato.

Una lacrime scivolò fino al mento, mi affrettai a toglierla quando sentii dei passi avvicinarsi. Qualcuno sospirò. Non appena vidi l'ombra alta di Riccardo mi diedi un contegno. Aveva le mani nascoste nelle tasche del pantalone e gli occhi sulla bara. 

«Non ero mai stato ad un funerale.»

Rabbrividii non appena sentii la sua voce; era leggermente cambiata. Era più chiara, bassa e nitida, da uomo. Chiusi gli occhi, come se per anni non avessi fatto altro che sperare di risentirla, di risentirlo vicino in quel modo, che mi sarebbe bastato allungare il dito e lo avrei toccato, avrei sentito la sua carne, il suo respiro, i suoi occhi, i suoi bellissimi occhi.

«C'è sempre una prima volta, per tutto», risposi, stringendo le labbra. «È stato come te lo aspettavi?»

Lui arricciò il naso, poco convinto. Non ebbi il coraggio di guardarlo in faccia. Preferii scrutarlo di sbieco, con la coda dell'occhio, con il mento abbassato e le mie braccia piegate in una sorta di scudo.

Le sue iridi si spostarono verso di me, senza voltarsi col mento, «Non mi piacciono molto.» Manco lui ebbe il coraggio di guardarmi, non fu spudorato.

Io ridacchiai, abbassando il viso verso le mie scarpe, «Siamo in due.» Una lacrima cadde sul terriccio impolverato.

Riccardo mi osservò, approfittò del mio sguardo abbassato per farlo. Lo sentii osservarmi. Non mi ero dimenticata di come mi sentivo quando capivo mi stesse guardando, studiando. Non mi ero dimenticata di cosa scaturiva la sensazione dei suoi occhi su di me, quando ero distratta.

«Tuo padre è distrutto.»

«Lo hai salutato?», mi umettai le labbra, schiarii la voce. 

«È stato lui a venirmi vicino, veramente. Non volevo disturbarlo», asserì, «Mi dispiace per la perdita, sul serio

Io mi chiusi nelle spalle, sospirai rumorosamente e guardai il terreno incolto sopra la bara fresca. «Dispiace anche a me.»

«È stata forte fino all'ultimo, se ti fa piacere sentirlo», provò a confortarmi, «Non è mai stata triste.»

Mi accigliai, ma non mi azzardai a guardarlo negli occhi. Boccheggiai, poi riuscii a far uscire un: «Eri con lei?», la voce mi tremò mentre giocherellavo con le dita. 

«Facevamo i turni, io, Geppa, Tonio e tua nonna Simona. Quello di notte era il mio. Lei se n'è andata alle cinque del mattino», raccontò, «È stato brutto.»

«Mi spiace tu abbia assistito a quel momento», mormorai, flebilmente. 

«Io credo sia stato meglio così. Tonio e Geppa non l'avrebbero superata, tantomeno tua nonna», spiegò, «Non ero nulla per lei. Forse Silvia ha preferito così.»

Io negai.

Come poteva credere che la bisnonna non ci tenesse a lui?

Riuscii a guardarlo stavolta. I miei occhi si scontrarono nei suoi, nella distesa castana che aveva incastrata nelle iridi. Quello che provai fu qualcosa di inspiegabile, forse ultraterreno, perché non pensavo che un essere umano potesse sentire così tanto nel guardare gli occhi di un'altra persona.

«Non è vero che non eri nulla per lei, Riccardo», non appena pronunciai il suo nome, il suo sguardo ricadde sulle mie labbra, «Ti voleva bene quasi quanto un figlio, se non di più, e so che anche tu le volevi bene.»

Egli indurì la mascella. Restò in silenzio per qualche secondo, «Mi parlava di te.»

Io sorrisi, «Mi avrai odiata

Lui negò con il capo, lentamente, «In verità sapeva che non mi dispiaceva parlare di te, per questo lo faceva solo con me», disse, francamente, in un'alzata di spalle. 

Alzai le sopracciglia, non sorpresa del fatto che fosse rimasto così come lo ricordavo. Bravo con le parole e a giocare con i miei sentimenti.

«Cosa ti raccontava?»

Lui si dondolò sui talloni e gonfiò il petto, spostò lo sguardo sul cielo.

«Un po' di tutto. Dell'università, della tua casa... del tuo noiosissimo fidanzato.»

Io trattenni una risata. «Non le stava simpatico, vero?», strinsi gli occhi.

«Per nulla», rise con me. «Non appena finiva di parlare con te, mi chiamava subito e sparlava di lui tutto il tempo», mormorò, i suoi occhi a guardare i miei, poi accennò un sorriso storto, «Era così convincente ch'è riuscita a farlo odiare anche a me.»

Scossi il capo, riportai lo sguardo sui miei piedi.

Osservai la tomba, spostai lo sguardo sulla lapide. "Io vi amerò nel cielo, come vi ho amati sulla Terra", diceva.

Mi portai una mano sulle labbra per trattenere un singulto, un'altra lacrima mi spezzò il respiro mentre chiudevo gli occhi, sentivo il cuore frantumarsi.

«Vieni qui...», sussurrò, portandomi un braccio dietro la schiena e spingendomi verso di lui.

Senza pensarci nemmeno due volte, gli circondai i fianchi con le braccia e poggiai la guancia sul suo petto. Riccardo mi strinse a sé, una sua mano sulla spalla e l'altra sulla nuca. Piansi lentamente, il suo profumo a inglobarmi dentro di lui e il suo respiro a cullarmi piano.

Rimasi per minuti interi a piangere e singhiozzare nelle sue braccia, quando poi mi resi conto che non fosse il caso di restare così vicina a lui.

Mi allontanai asciugandomi le lacrime dalle guance, abbassai lo sguardo e mormorai appena un: «Scusami», lui infilò nuovamente le mani nelle tasche e guardò la tomba dopo avermi lanciato un'altra occhiata.

«Tranquilla», mormorò, «Capisco quello che provi.»

Mi strinsi nelle spalle, improvvisamente infreddolita dalla tristezza. «Mi aveva chiesto di venirla a trovare... mesi fa, ed io non l'ho saputa accontentare. Solo perché ero spaventata...», mugugnai, «E adesso non faccio altro che pensare a cosa sarebbe cambiato se io fossi venuta a trovarla.»

I tacchi diventarono stranamente stretti e sentivo ogni anfratto del mio vestito stringermi la pelle. «Non puoi saperlo. Le cose non sarebbero cambiate», disse lui, «Quando... la morte arriva, non puoi farci nulla, arriva e basta. Non avresti potuto farci niente, non darti colpe che non esistono.»

Alzai ancora il viso verso di lui, lo guardai attentamente, togliendomi le lacrime rigate sulle gote, «Avevi ragione, comunque», dissi, schiarendomi la voce, «I capelli corti ti fanno più serio.»

Riccardo allargò gli angoli delle labbra, stupito mi ricordassi tanti dettagli, «Ho dovuto. Cominciavano a stancarmi, e poi... ho iniziato un corso per il militare, erano obbligatori i capelli corti.»

«Sì, Geppa mi accennò qualcosa», lui parve confuso quando gli dissi che avevo parlato di lui con Geppa, così continuai, «Al mio compleanno, due mesi fa. Mi fece gli auguri e ci trovammo a parlare di te», o meglio: gli chiesi di te, perché non sapevo più niente di chi eri. 

«Mh...», annuì, poi sembrò pensare, «Venti... tre anni? O sbaglio?»

«Ventitré, sì», ridacchiai, annuendo, «È stato anche il tuo in questo periodo... no?»

Lui annuì. «Due settimane fa, sì.»

«20 novembre, se non ricordo male», mormorai. 

«Ricordi bene», annuì. 

«Venticinque?»

«Venticinque», rise sottovoce. 

Annuii, giocherellai con la collanina al petto. «Come ti trovi al corso?»

«Abbastanza bene», disse, «Alla fine tutto ciò che faccio è svegliarmi alle cinque del mattino, correre ad allenarmi fino all'ora di pranzo, poi si passa in aula a studiare e la sera pratica con le armi.»

«Hai fatto un'ottima scelta», dissi, contenta sul serio, «Ero sincera quando ti dissi che ti ci vedo a fare il poliziotto.»

Lui ridacchiò, mordendosi l'angolo della bocca, «Sperando mi spostino da Napoli quando lo diventerò.»

«Sta' tranquillo, tu pensa a diventarlo e basta.»

Ci guardammo per qualche secondo; sentimmo dei passi sull'erba vicino a noi: «Riccardo...», disse mia mamma, un sorriso genuino sul suo volto, «Da quanto tempo...!»

Riccardo si voltò, «Ciao», mormorò dandole un abbraccio puro, «Come stai?», le cinse una spalla.

«Io bene», sorrise mia mamma, dopo essersi staccati, lo osservò e scrutò tutti i suoi cambiamenti: «Tu, piuttosto... come stai? Ti vedo bene, sembri pure più alto.»

«Sono sempre lo stesso», ridacchiò, «Me la cavo bene.»

«Geppa mi ha detto che sei appena arrivato da Caserta, mi ha detto che hai viaggiato molto per venire entro stamattina...», gli accarezzò la spalla, «Sarai stanco. Ti va di farci compagnia alla Villa? Elia ha bisogno di aiuto con qualche carta, non vogliamo disturbare i tuoi nonni. E poi, in realtà, ha bisogno di chiacchierare con qualcuno che non siano le solite persone, per distrarlo.»

Riccardo si umettò le labbra, «... Sì, certo. Sarei dovuto passare ugualmente per recuperare certe mie cose. Solo se non disturbo... ovviamente», aveva asserito, lanciando uno sguardo a me.

Io negai, rassicurandolo.

«Sai che non disturbi mai», gli sorrise mamma, «Gioele muore dalla voglia di vederti, lo abbiamo dovuto prendere al volo oppure sarebbe corso da te, in Chiesa», rise. 

«L'ho intravisto prima, si è fatto grande, quanti anni ha? Dieci, undici?»

«Undici, sì. Forza, andiamo che voglio farmi una chiacchierata pure con te», lo prese da sotto al braccio e cominciarono a parlare allegramente. Li seguii, osservai le nuvole che si stratificarono sull'azzurro. 

Raggiunsi papà, era vicino alla macchina, Gioele calciava dei sassolini sul marciapiede.

«Ricki!», sentii urlare Gioele, corse velocissimo fino a stringergli il bacino tra le braccia e schiacciarsi su di lui.

«Ciao, campione, sei più alto di me quasi», gli strofinò le dita tra i ricci neri e scombinati, tenendolo per le spalle.

Sorrisi quando vidi mio padre contento all'idea che, con Riccardo, Gioele avesse trovato una valvola di sfogo in una situazione come quella.

Io, nel frattempo, mi ero appoggiata alla portiera della macchina, avevo una panoramica generale di tutti loro, di tutta la mia famiglia. Papà mi lanciò un'occhiata.

Mi agguantai al suo braccio, rilassai la tempia sulla sua spalla e lui mi lasciò un bacio sulla fronte, «Ti ha fatto bene vederlo?», sussurrò, per non farlo sentire a nessun altro, sapevamo entrambi a chi si riferisse.

Sollevai il viso e sospirai, indecisa, ricambiai il suo sguardo. Mi sorrise come se mi conoscesse meglio di chiunque, come se sapesse la risposta a priori.

«... Non lo so...», sussurrai, al contrario di quel che si aspettava, «Dovrei saperlo?»

Lui fece spallucce. «Provi ancora qualcosa per lui.»

Non era una domanda. Era una constatazione.

«E tu che ne sai?», gli diedi uno spintone giocoso.

«Perché sei la mia bambina», rise, «E io la ricordo la faccina della mia bambina innamorata. Vedi che ci sono passato per primo, con tua madre.»

Io strinsi le labbra, contraddicendolo, «Ma io e Riccardo non siamo come te e la mamma... non siamo destinati.»

«Sei tu a deciderlo?», alzò le sopracciglia, «Abbi speranza», sussurrò, pizzicandomi il naso, «Lascia che faccia tutto il destino, non limitarti. Vivi, Alba. Ti conosco, so quello che dicono i tuoi occhi vispi.»

Io alzai gli occhi al cielo, mi strinsi di più a lui. «Ho paura», ammisi, «Ho paura di quello che potrà succedere se sto con lui per altre ore, se lo vedessi ancora...», confessai, «È normale che mi senta così debole davanti a lui?»

«Sì», mi accarezzò la mano con il pollice, «Quando vidi tua madre in quel ristorante dopo tanti anni, si fermò il mondo, era una calamita quella donna. Mi stregò in un attimo», raccontò nostalgico. «L'ho vista di nuovo e ho capito di non poter vivere senza di lei.»

«Hai avuto paura di perderla sul serio? Tipo quando vi siete rincontrati... hai pensato che non sarebbe potuta funzionare?», domandai, osservando Riccardo parlare con Gioele, seduto su un muretto che lo ascoltava con attenzione, ogni tanto rideva ai suoi racconti.

«No, lo devo ammettere. Non appena ci rivolgemmo la parola, capii che da allora non ci saremo più allontanati. O almeno io non lo avrei mai fatto. Quando mi chiamò a notte fonda e risentii la sua voce, capii che, né io né lei, avevamo smesso di amarci», sospirò e guardò la mamma, parlava con zia Monica e nonna Simona.

Papà non aveva mai smesso di guardarla senza amore negli occhi.

«Non lo so cosa sento esattamente, però è qualcosa di forte, papà. È come se si fosse acceso un motore nello stomaco, vederlo qui... in famiglia, mi sta bene, mi piace. E, devo ammettere che, quando l'ho visto in Chiesa, mi son dovuta trattenere nel correre da lui», spiegai, lo guardai e papà mi sorrise, come per dirmi "lo sapevo". «Ti piace Riccardo?», gli chiesi, con curiosità.

Lui tentennò a rispondere.

«Non mentirmi che tanto lo so che ti piace», roteai gli occhi al cielo.

Papà rise: «Sì, Riccardo mi piace», annuì, «È molto diverso da me, devo dirti... e credo che — al contrario di come dice tua madre — se lo avessi conosciuto quando io ero ragazzo, in realtà, non ci saremmo sopportati. Eppure, io gli voglio bene», mi confessò, «È un bravo ragazzo, quando parliamo non mi annoio mai, ed è raro trovare persone che non ti annoino ai tempi d'oggi. E, la cosa più importante, ti rende felice. Oltre a livello emotivo, innamorati o non innamorati... siete amici, Alba», mi sorrise, «Sa prenderti, forse meglio di quanto sappiamo farlo io e la mamma», io alzai le sopracciglia stupita, «Eh già, mi duole ammetterlo. Prima ti ho vista ridere, quando stavate ancora vicino alla tomba. Sei stata triste tutto il giorno, è stato difficile pure venirti vicino e strapparti una parola da bocca, e arriva lui — dopo cinque lunghi anni che non vi vedevate né sentivate, dopo aver passato tutto il tempo a soffrire e odiarlo — e la prima cosa che fa è farti ridere. È bello, Alba. Dopo tutto questo tempo, è bello che siate ancora in sintonia, anche se ti sembra che si sia rotto qualcosa, fidati che è qualcosa di microscopico. La prima cosa importante è essere amici, e lo so che non vorresti tenerci perché ti ha fatto male, ti ha fatta soffrire, ma non credo che l'abbia fatto di proposito, anzi... forse l'ha fatto per te, ha prevenuto un dolore più forte. Ne abbiamo parlato molto io e tua madre, ed è stato un bene che le cose siano andate così tra te e lui. Magari non eravate veramente pronti. È il tempo che gioca le carte», mi accarezzò una ciocca, «Tu devi solo star tranquilla, che se è destino qualcosa accade. Ma vivitela, non aver mai paura di quello che ti urla il cuore, le cose si aggiustano sempre», mi diede un bacio sulla fronte. 

Io sorrisi, non smisi di guardare Riccardo nemmeno per qualche secondo.

Poi ridacchiai, riflettendoci: «Me lo stai dicendo perché ci tieni davvero che io trova l'amore che merito in Riccardo, o perché non sopporti Fabio?»

Lui scoppiò a ridere. «Ottima domanda», ed io lo fissai sconcertata, ma divertita, «Scusami, tesoro, ma come fai a farci qualcosa con quel ragazzo?»

«Ma non è poi così male, dài!»

«È noioso, Alba.» Il suo sguardo non ammise dispute.

«Ci devo stare io nel letto, mica tu.»

«E meno male che ci devi stare tu, figlia mia», trattenne una risata, «Mi addormenterei prima di finire qualcosa.»

Io risi, «Come sei antipatico», borbottai, spintonandolo. Dopo sorridemmo entrambi, «... forse è stata la nonna», dissi in un sospiro, riappoggiandomi alla sua spalla, «È stata lei a volermi qui, con Riccardo.»

Papà sorrise e annuì, «Mi piace pensare di sì, sarebbe proprio una cosa da tua nonna», ridacchiò malinconico, lo abbracciai forte.











Note d'autore.


Scrivere questo capitolo, mesi fa, mi risultò difficile. La bisnonna Silvia è stata importantissima per tutti e due i romanzi (sia DSA che ARDA) e lasciarla è stato come perdere davvero una colonna portante di tutto il romanzo.

Alla fine lei e il caro vecchio Gioele sono i creatori di queste storie. È da loro che è partito tutto.

La famiglia, in questa piccola serie di romanzi, è il nucleo principale, frammentarla mi fa stare male.

Siete liberi di scrivermi qualsiasi cosa (qui nei commenti), anche condividere ricordi con i vostri nonni, familiari o pensieri, citazioni e quant'altro.

Vorrei che la calorosità di questa famiglia la sentiate tutta 🤍

Abbracciate i vostri nonni. Sempre.

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