Domani sarรฒ alba

By CuoreAdElica

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๐—–๐—ผ๐—บ๐—ฝ๐—น๐—ฒ๐˜๐—ฎ โœ”๏ธ ๐™ฝ๐šŽ๐š  ๐™ฐ๐š๐šž๐š•๐š ๐Ÿ’‹ 1/2 Alba ha il tramonto stampato in faccia. Capelli rossi, occhi ver... More

Cast
Albero genealogico
Chi sono Elia e Isabella?
MP3 di Alba
Prologo
Alba odia i capelloni - Parte Uno
1. L'isola dell'Amore
2. Uno sconosciuto nella Villa
3. Favori e debiti
4. Ottimo ascoltatore, pessimo argomentatore
5. La briscola รจ uno strumento di difesa
6. Ad ogni uomo il vestito che si merita
7. La Libera
8. Il pescatore e la monaca - Pt. 1
10. A caccia di fiori e pranzi stravaganti
11. Il monolocale
12. Sole, spiaggia, sesso
13. Di mare e di stelle - Pt. 1
14. Di mare e di stelle - Pt. 2
15. Ne vale la pena?
16. Una canzone tua, nostra
17. Essere visti per chi siamo davvero
18. Sei dove non sono io
19. Le scritte sui muri rimangono in eterno
20. Ci viviamo
21. Sii prudente con questo tuo cuore
22. Musica jazz, sigarette e amici di famiglia
23. Notti d'agosto al sapore di mare
24. Ciao amore, ciao
Non รจ mai abbastanza - Parte due
25. Il tempo passa
26. Bisnonna Silvia, sei eterna
27. Resta
28. E basta
29. All'ombra di un tramonto
30. Luce dei miei occhi
31. Ne รจ valsa la pena
32. Nuovo inizio
33. Roma, Amor
Epilogo
Ringraziamenti
Sogno - EXTRA
Scappare - EXTRA

9. Il pescatore e la monaca - Pt. 2

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By CuoreAdElica






ALBA
Ischia, estate.






[...]
Come gocce d'asfalto siamo
Altro che gocce d'acqua
Ho le gocce per la felicità, ehi
Ti va di passarci una notte con me?
Tra le strette di mano e i giochetti di gambe
Mi va, sì, e ci passo serate
Ma resto in apnea, vedo quanto riesco a restare.
- Acqua di Mace, Rkomi e Madame.










Bussarono alla porta dell'oblò.

Eravamo tornati indietro da un'ora e mezza, avevamo attraccato al molo di Ischia Ponte. Avevo deciso di andare per ultima a fare una doccia e sistemai i costumi nel piccolo scomparto dell'armadio.

Mentre me ne stavo avvolta nel mio asciugamano con i capelli grondanti d'acqua, qualcuno venne a disturbarmi.

Mi strinsi l'asciugamano al petto col braccio, con un sospiro mi affacciai, era Riccardo. Non me lo aspettai, infatti trasalii un po' quando mi trovai a incrociare i suoi occhi.

Gli aprii, il mio cuore prese a martellare inaspettatamente. Lui mi sorrise con quell'imprevedibilità da brividi. Con Riccardo non sapevo mai che fare o come comportarmi, poiché le sue espressioni dicevano così tanto di lui e solo conoscendolo alla perfezione potevo carpire cosa passava per la sua testa.

«Ehi», inclinò il mento, scorgendo con gli occhi il mio fisico nascosto. «Disturbo?»

«Dovevo vestirmi. Cosa c'è?», replicai poggiandomi con la spalla alla parete e stringendo fortissimo l'asciugamano tra le dita, onde evitare una figuraccia e far vedere qualche lembo di pelle indiscreto.

«Ti porto con me», disse senza aspettarsi risposte od opposizioni, categorico.

Mi venne da ridere appena. «Come dici?»

«Vieni con me, adesso. Ti aspetto qua fuori», m'informò.

«Non me lo chiedi neppure? Devo e basta?», mi accigliai.

Lui strinse le labbra, schioccando la lingua dietro una smorfia. «Dovresti rifiutare?»

«Potrei», feci spallucce, «Magari ho altri programmi, con altri ragazzi, magari Michele mi ha chiesto—»

«Ti aspetto qua fuori, bambina. Non farmi aspettare troppo», tagliò corto, mi fece un occhiolino prima di richiudere l'oblò.

Aveva ragione. Non gli avrei mai rifiutato alcun invito. Nemmeno il più sciocco.

Asciugai i capelli ricci, li sistemai e mi stupii per quanto vennero ben definiti e profumati. Occupai molto tempo per capire cosa mettere, non mi aveva specificato dove fossimo andati, o meglio, dove mi avrebbe portata. Mi preoccupai eccessivamente del mio aspetto, forse inutilmente. Il risultato non mi sembrò poi tanto pessimo.

Misi il profumo e uscii dall'oblò. Riccardo era seduto sulla prua, quando mi sentì si voltò. Infilata tra le labbra c'era una sigaretta dalla punta incenerita e arancione, si affievolì quando se la tolse dopo aver aspirato delicatamente. I suoi occhi scesero su di me, il fumo lo avvolse in una nube salendo verso l'alto. Verso il cielo.

Mi lasciai studiare da lui. Poi sorrisi, «Vado bene?», domandai facendo una giravolta intimidita.

«Eccome», sorrise a sua volta. S'alzò, fece l'ultimo tiro dalla sigaretta per poi schiacciarla nel posacenere accanto a lui.

Lo raggiunsi a passo svelto. «Dove vuoi portarmi?»

«Hai detto di volermi conoscere, o sbaglio?», puntualizzò, mi allungò una mano, con quella libera afferrava la scaletta per scendere sugli scogli.

«Vorrei, sì», risposi sùbito. Era la cosa che più volevo, ma in quel momento non ne ero pienamente consapevole.

«Ti porto dove sono cresciuto. Ho già avvisato i tuoi, ora andiamo.»

«In che senso hai già avvisato i miei?»

«Sì, ho detto loro che saresti venuta con me e ti avrei riportata intatta così, sapendo che sei con il sottoscritto, non si sarebbero preoccupati troppo», mi guardò.

«E si sono fidati?»

«Certo, principessa. All'apparenza sono affidabile», mi sorrise, sornione.

«All'apparenza...», gli feci notare, «Strano che mio padre non ti abbia linciato o lanciato in mare.»

Lui rise, mi aiutò a scendere sugli scogli e raggiungemmo il pontile. Riccardo si sistemò i capelli, camminò al mio fianco.

«Allora? Dove sei cresciuto?», mi strinsi nelle spalle, oscillando con le mani intrecciate sul ventre.

«Sono cresciuto al Porto. Dovremo usare il mio motorino, spero non ti dispiaccia. È a pochi minuti da qua, senza traffico.»

«Ci abiti ancora lì?», domandai, voltandomi a fissare le sue espressioni.

«Solo alcuni parenti che, però, non vedo da tantissimo tempo. Abbiamo venduto la casa molto tempo fa.»

«Oh...», annuii, «Tua mamma?», lo guardai, attraversammo una mole di ragazzi della nostra età, perlopiù turisti, pronti a passare una lunga serata. Il mio braccio a cercare il suo, involontariamente, ma non ebbi il coraggio di incontrarlo.

«È una storia complicata.» Era inespressivo.

«Non ti va di raccontarmene giusto un pochino? Solo un po'. Non voglio sapere tutto stasera», gli sorrisi, sperando di rassicurarlo.

Infilò una mano in tasca. «Ti sei mai chiesta come mai avessi intrapreso il lavoro di spacciatore?», mi guardò, sperando in una risposta positiva.

Non mi stupii di quella domanda, tutt'altro, ero contenta. Stavamo parlando veramente, per la prima volta, senza ironia, senza battute o scontri. Una semplice chiacchierata da amici. «Io non lo definirei lavoro, però sì, me lo sono chiesta molte volte», voltai il mento verso di lui, alquanto incuriosita della piega del discorso.

L'aria serale ci girava attorno densamente, facendomi rizzare i peli delle braccia. Lui scimmiottò la mia voce, "io non lo definirei lavoro", ricevette una gomitata. Continuò: «Ti ho anche detto che ho lavorato sin da quando sono ragazzino... giusto?»

«Giusto.»

«E non ti ho mai parlato di mamma o di papà...»

«Giusto anche questo», strinsi le labbra, attenta a dove volesse andare a parare.

«È molto più semplice di quanto sembra in realtà. Sai cosa significa fare la vita?», incrociò il mio sguardo.

«... dovrei saperlo?», sussurrai, confusa, strizzando l'occhio.

«Mia mamma fa la vita. In gergo napoletano indica una persona che per lavoro si prostituisce», spiegò, mi ritrovai a guardarlo con interesse. «Ebbene sì, mia madre è una prostituta.»

Ci guardammo in un tempo indeterminato. Quando capii fosse serio, annuii, mi morsi la lingua «No, sì. Comunque è un lavoro che rispetto molto, tua mamma dovrà essere proprio una donna forte e bella», lui trattenne una risata per il mio modo di fare impicciato, «Sono seria. Lo farei anch'io», osai.

Riccardo scoppiò a ridere. «È un lavoro di merda, Alba, e non lo farai mai nella vita, spero tu lo sappia.»

«Non è un lavoro di merda, invece.»

«Ah no? Io trovo sia profondamente umiliante per chiunque. Vendere il proprio corpo è follia. Sai quanti viscidi vecchi si è portata a letto solo perché non riuscivano a trovare moglie che gli succhiasse il cazzo per quanto fossero brutti come la fame?», sbottò, mentre il suo collo si arrossì leggermente, «Amo mia madre, rispetto le sue scelte perché il corpo è il suo, ma non lo accetterò mai.»

«Io trovo che questo sia un discorso abbastanza maschilista, invece», dissi con calma. «Scusami la domanda, ma quante ragazze ti sei portato a letto?»

«Cosa c'entra adesso? Mica le pagavo per venire a letto con me, la maggior parte delle volte erano loro a volermi.»

«È la stessa identica cosa, anche se non sembra. Ogni donna va a letto con chi vuole, e se vuole essere pagata allora ben venga, scelta sua.»

«A me va bene, figurati, è mia mamma ed è stata lei a scegliere questo genere di lavoro. La cosa che non sopporto proprio è il concetto di approfittare, odio il fatto che mia madre venga toccata anche quando magari non vuole davvero. È una cosa ripugnante. Scusami se la penso così», tirò fuori dalla tasca il pacchetto di sigarette e se ne portò una alle labbra direttamente da esso.

«Tranquillo, non volevo constatare il lavoro di tua mamma, non mi permetterei mai.»

«Lo so, bambina», alzò l'angolo delle labbra. «Mia mamma mi ha concepito nel bordello in cui lavorava precedentemente», continuò, «A venticinque anni. Iniziò a prostituirsi a sedici, la nonna aveva bisogno di soldi e così, mamma, decise di aiutarla in quel modo. La società patriarcale e reclusa dell'epoca consigliava alle donne di bell'aspetto di dedicarsi a questo genere di cose.»

«Capisco cosa intendi», guardai i miei piedi camminare uno avanti all'altro.

Aspirò un altro tiro dal mozzicone che stringeva tra le dita. «Mio padre entrò nel bordello sbronzo. Pagò la prima donna che aveva davanti e se la portò dietro per tutta la notte. La donna era mia madre e in quella notte, quella sola e unica notte, concepirono me. All'epoca era un disonore abortire, Ischia è piccola, le cose prima o poi si vengono a sapere. Mia madre decise di tenermi, e, solo quando capì che fossi abbastanza grande, decise di cercare papà», raccontò, «Mio padre è di Napoli, Napoli Centro. Pasquale Sorrentino...», sospirò, preso da un turbine di pensieri, «È un boss mafioso...», cercò il mio sguardo.

Trovai i suoi occhi. Credetti che mi stava dicendo tutte quelle cose per farmi uno scherzo di poco gusto. Lui, però, parve serissimo. Distolse lo sguardo e continuò a camminare al mio passo, tenendo la sigaretta tra le labbra.

«... che vuol dire?», sussurrai, incredula.

«Fa parte della famiglia Sorrentino di Scampia. Ha ereditato il ruolo da mio nonno.» Per un attimo mi risultò tutto confusionario, assurdo. «Quando mia mamma lo scoprì le venne un colpo, ma fu inevitabile presentarmi a mio padre. Sotto ogni aspettativa, mi legittimò e così diventai Riccardo Sorrentino», arrivammo al motorino, mi passò un casco. «Crebbi tra il Porto e Scampia. Andavo lì ogni fine settimana...», cercò il mio sguardo, «Odiavo andarci, come odiavo tutti quei completini che indossava mia madre ogni sera prima di mettermi a letto. Odiavo ogni cosa quando ero bambino, Alba.»

«E adesso?» Chiesi, quasi ovviamente, infilandomi il casco.

«Adesso sono cresciuto. Iniziai a lavorare per sfizio, per rendermi indipendente da casa mia. Poi mio padre venne arrestato, qualche anno fa, dopo avergli trovato della droga nella macchina e, ovviamente, lo riconobbero per molti altri crimini. Così dovetti iniziare a saldare i debiti di papà tramite lavoretti e, ancora oggi, devo farlo per mantenere me e i genitori di mia mamma, dato che i soldi di mamma non sono abbastanza», disse infilandosi anch'egli il casco, «È ovvio che con i soldi di mio padre stavamo tutti alla grande, ma da quando i debiti sono saliti è difficile persino pisciare. Ecco spiegati i miei infiniti lavori.»

Non dissi nulla. Lui manco s'aspettò che rispondessi. Quindi scavalcò la sella, si fece più avanti e mi porse la mano per darmi lo slancio. Io eseguii, pensierosa.

«Io non ti pago», dissi, sistemandomi la gonnellina sulle cosce.

Riccardo si voltò a guardarmi, «... mh?»

«Per il babysitter, io non ti sto pagando.»

«Sei proprio scema», mise in moto il motorino, dopodiché si assicurò che stessi messa bene: «Tutto okay?»

Io annuii, con un sorriso. «Sto bene. Tu come stai?», decisi di poggiare il mento sulla sua spalla e osservarlo dallo specchietto.

Riccardo sorrise flebilmente, mi osservò per un tempo interminabile prima di rispondermi. «Sto bene, Alba.»

«Allora possiamo partire», poggiai le mani ai bordi dei suoi fianchi.

Osservai le luci di Ischia cambiare: il cielo nero e le sue stelle bianche come miliardi di spilli, parevano cadere da un momento all'altro, guardai le case colorate sfilare ai lati della strada e i passanti allegri che ridevano. Fortunatamente non trovammo traffico, ma trovai uno strano dispiacere nel rendermi conto che stava per parcheggiare, ciò significava staccarmi dalla sua schiena e abbandonare quel calore rassicurante che mi davano le sue spalle.

Improvvisamente mi sentii parte della sua intimità, sapendo che stavo per entrare in una cosa sua mi dava una prospettiva ristretta, quasi come se stessi per leggere un anfratto recondito della sua vita.

Il Porto era un luogo composto da musica e mare. I locali emanavano calore, familiarità e il mare era una tavola scura con qualche luce specchiata della costa. Dall'altro lato di Ischia, di fronte a noi, vi era la penisola italiana, si vedeva Napoli ricoperta di luci sfavillanti.

La movida si concentrava tra le panchine, ragazzi che fumavano e ridevano. Scesi dal motorino e gli passai il casco, lui li sistemò e tolse le chiavi dal quadretto.

Con un cenno del mento mi intimò di seguirlo.

«Ti manca vivere qui?», chiesi, il mio gomito a sfiorare il suo braccio di nuovo.

Lui rise, forse ripercosso da una sequenza di ricordi. «La notte è un casino, non lo consiglio. Per il resto non è male, abitabile.»

Notai un gruppetto di ragazzi fissarmi, guardarmi in una maniera che mi fece sentire a disagio, strofinai le mani tra di loro e deglutii. Quasi come se Riccardo riuscisse a sentire il mio battito cardiaco, abbassò il viso verso di me, mi ispezionò accigliato.

«Cos'hai?», me lo chiese con una dolcezza disarmante.

«No...», mi grattai il polso, «Niente. Ho avuto una brutta sensazione, tutto qui», ignorai il mio stomaco che si rivoltava, era in subbuglio.

Si guardò attorno, guardingo, con quel suo modo di fare impeccabile e rigoroso sembrò notare la marmaglia di ragazzi guardare dalla nostra parte.

Lo sentii sospirare. «Posso spaccare la faccia a ognuno di loro se ti danno fastidio, basta che mi fai un cenno.»

Io negai, alzai il viso ed esalai semplicemente: «Stringimi la mano.»

«La mano?», fissò essa, s'accorse che tremavo. «Sicura sia appropriato per situazioni del genere?», fece un sorriso al contrario, irresistibile, alzando un po' il sopracciglio.

«L'uomo si sente inferiore quando un altro gli toglie il soggetto ambito», dissi a memoria, «È un detto maschilista, ma estremamente moderno. Ti consiglio di leggere qualcosa su Virginia Woolf.»

«Parli veramente troppo quando vai in panico», notò.

«Per questo vado bene alle interrogazioni», sorrisi.

Riccardo decise di osservarmi per altri svariati secondi, poi la sua mano scese sul mio polso e sentii la ruvidezza del suo palmo aprirsi contro le mie dita. La morsa del cuore mi stracciò quasi il respiro per la delicatezza del suo tocco. Avrebbe potuto sentire il battito del mio cuore solo sfiorandomi.

Le sue dita si incastrarono tra i miei polpastrelli e li strinse con decisione, il suo pollice a tracciare una linea sul dorso. Guardai la mia mano e la sua, unite come avevo solo potuto immaginare.

Mi chiesi se lui avesse mai voluto stringermi la mano, proprio come stava facendo e come io avevo sperato.

Riccardo richiamò la mia attenzione, costringendomi a seguirlo, ad abbandonare il campo visivo del gruppo di ragazzi. «Alba, sei al sicuro con me», disse a un tratto, gli guardai il profilo dritto, la mandibola virile e la punta del naso definita, le labbra piene.

«Perché mi dici questo?»

«Perché voglio che tu non ti senta minacciata dopo ciò che t'ho detto. Sarò pure il meno affidabile degli uomini che tu conosca, ma non c'è dubbio che con me non ti accadrà niente di brutto. Hai la protezione persino di Dio quando sei con me, non preoccuparti.»

«Non sono preoccupata per questo. Ma grazie per la premessa benevola», sussurrai, sorridendogli. «Sono preoccupata per te.»

«Per me

Era strano parlare con lui quando la sua mano era avvinghiata alla mia. Era un'invasione, una dolce invasione che giocava sporco con il mio cuore.

«Sì. Non è pericoloso?», mormorai.

Era una domanda a cui era semplice rispondere. Una domanda retorica. Probabilmente non rispose perché già sapevo la risposta.

«Ti ho già avvisata che sulla mia barca c'è il rischio di cadere e morire in mare a causa della tempesta. Io corro il rischio da quando sono consapevole di chi sono. Non ti mento, pericoloso lo è», ammise come una presa di coscienza.

Lo guardai, con le mie dita a stringere le sue, un attrito doloroso quanto ammaliante. «Sai...», sospirai, guardando i miei piedi che seguivano il suo passo preciso, lo immaginai percorrere quella strada un miliardo di volte nel corso della sua vita. «Da piccola, quando venivo qui a Ischia per le prime volte, mio padre mi insegnava a nuotare in una baita, forse Sant'Angelo, non ricordo bene. Quando arrivavano le onde lui mi tirava sempre su, mi prendeva e mi portava di nuovo sulla sabbia», lui seguì il mio racconto, con attenzione, «All'età di quattro anni, quando a stento riuscivo a pronunciare una frase completa, decisi di fregarmene delle onde. Nella mia testa erano stupende, erano qualcosa da vedere da vicino. Mi chiedevo come ci si sentisse a starci dentro, a ruotare sulla cresta dell'acqua fino alla battigia. Così aspettai la distrazione di papà e con un sorriso felicissimo rincorsi il mare fino a buttarmici a capofitto», lui ridacchiò, facendo ridere leggermente anche me. «L'acqua mi travolse, ricordo ancora il senso di perdizione che ho provato quando il ringhio dell'onda mi travolse. All'inizio ammetto di essermi pure spaventata, poi però mi sono lasciata cullare dalla marea e sono risalita in superficie con tranquillità. Fu violento l'impatto con la sabbia, il costume era pieno di sassolini e i capelli corti mi si rivoltarono in testa. La prima cosa che sentii fu la voce di mio padre devastato dal terrore e dalla preoccupazione. Mi prese in braccio e mi tolse i capelli dal viso. Avevo gli occhietti tutti impregnati d'acqua, ma non piansi e non dissi che mi ero fatta male il ginocchio urtando su una pietra. No, invece scoppiai a ridere.»

Riccardo aveva sorriso piano, alzò l'angolo della bocca, facendomi notare il suo piccolo neo nascondersi sul segno della guancia. Per un attimo il mio cuore cadde nello stomaco.

Con ciò sperai di avergli fatto capire che non mi spaventava quel mondo, che se avesse voluto avrei potuto star con lui anche quando tutto sembrava andare a rotoli. Se avesse voluto, lo avrei salvato io.

Se avesse voluto, avrei rischiato ancora per stare con lui in quel modo. Passeggiare e ridere su vecchi racconti di quando eravamo piccoli.

Riccardo non proferì parola, e nemmeno io. Lasciai da parte tutti quei tormenti e pensieri e mi concedei di osservare il luogo in cui un piccolo Riccardo scorrazzava. Le barche di pescherecci mischiate a panfilo eleganti di turisti internazionali. L'odore invitante di bar e pub aperti fino a notte fonda pieni fino all'ultimo tavolo, ragazzi e ragazze gioiosi a navigare per le strade sempre con qualche sigaretta o drink tra le mani.

«Da piccolo giocavo sempre a calcio in quel piccolo spiazzale», disse indicando da lontano una grossa e lucente piazza dove la musica era a tutto volume e tante persone ci ballavano in mezzo.

«Giocavi a calcio?»

«Sì, assieme ai vicini di casa.»

«Non hai mai praticato alcuno sport?», chiesi, curiosa.

«Non avevamo soldi per farmi praticare sport seri, nelle associazioni vere e proprie. Però non mi ha mai destabilizzato come cosa, non me ne importava tanto. Piuttosto prendevo un pallone di cuoio scamozzato dal tempo e, dalla mattina alla sera, giocavo a calcio», spiegò, «Un giorno mi venne vicino pure un allenatore, uno di quelli seri, mi disse che ero portato. Io lo ringraziai e ignorai la sua richiesta di partecipare alla sua squadra. In un ghetto come questo non c'erano manco i soldi per un poco di pane, figurati per stronzate come divise o scarpette», fece spallucce, un po' rammaricato, con amarezza. «A me andavano bene i piedi scalzi o le infradito di gomma, con solo il costume addosso.»

«Ti è sempre piaciuto fare sport, quindi?»

«Sì. Sempre. Era il mio sfogo personale, lo è ancora.»

«Adesso cosa fai?»

«Ma in realtà nulla di particolare. In prima media, a soli undici anni, conobbi Angelo che poi diventò il mio migliore amico. È di Forio, è quello che si è presentato quella notte al Valentino.»

«Oh, sì... quello con i capelli rasati?»

«Sì, sì. Lui», annuì. «Il padre era un fanatico di calcio, ma Angelo non era portato. Così quando mi vide giocare con lui fuori casa loro, mi convinse ad essere allenato da lui. È stato lui a badare ai miei cambiamenti, a crescermi sano e in forma. Sono cresciuto con lui ed Angelo, fino ai diciassette anni, quando poi morì per un brutto cancro al fegato», abbassò il mento. «Io ed Angelo siamo stati l'uno la roccia dell'altro, è stato difficile per lui, ma adesso sembra passato tutto.»

«Mi dispiace», sussurrai, «Non pensavo che fosse una domanda inappropriata la mia».

Riccardo si accigliò e rise un po'. «Non lo era. Stai tranquilla, mi sta bene parlarne.»

Quindi annuii, anche se mi sentii comunque un po' in colpa.

«E tu, allora?» mi chiese, «Quali sono le tue passioni?»

«Oh, be'», sospirai, «Sono una ragazza dall'animo artistico», iniziai, facendogli alzare le sopracciglia. «Amo disegnare, la pittura in generale, se vedessi la mia camera a Roma non sapresti distinguere il muro dai miei disegni», sorrisi con fierezza. «Amo leggere, scrivere, di tutto. Amo qualsiasi cosa abbia bisogno di essere studiata. Mi piacciono le cose da capire. Amo la musica... forse questa è la cosa più importante di me», sorrisi.

«Io devo capirla ancora questa cosa. Perché ti piace così tanto?»

«Io sono nata assieme alla musica, Riccardo. La mia storia inizia da lei. Dai miei nonni che si sono conosciuti con Azzurro di Celentano, ai miei che si sono amati con L'Emozione non ha voce di Celentano. Tutto inizia con lei. Il mio nome e il mio sangue sono musica. Scorre sempre musica, qualsiasi musica è dentro di me», dissi, con un sorriso stampato in faccia e lui a guardarmi come fossi veramente una bambina che fantasticava, «Non c'è cosa che non mi parli di musica.»

«Io ti parlo di musica?», domandò di soppiatto.

Lui e le sue domande a cui non sapevo rispondere.

Per un attimo rimasi in silenzio, poi guardandolo mi resi conto della musica che mi usciva dal cuore. «Sì. Hai una musica ben precisa.»

«Davvero?», mormorò poco convinto.

«Mh-hm», sorrisi. «A volte basta cercare le canzoni giuste, quando le trovi non ti lasciano più. Mio padre mi ha insegnato ad amare le canzoni che ti parlano, che ti raccontano una storia», spiegai, «Tu saresti in grado di amare una persona tramite la musica, solo e solo quella?»

«In che senso?»

«Non c'è un senso. Ameresti una persona tramite le canzoni che ti ricordano di lei?»

«Sì», rispose senza esitazione.

«Sì?» ripetei, «Per tutto il tempo che hai?»

«Sarebbe inevitabile, no? Ascoltare una canzone e ricordarsi della persona amata. Sarebbe anche stupido non ammetterlo.»

«Giusto», sorrisi, «Mio padre ha amato mia madre per anni senza incontrarla, solo tramite canzoni diverse. Si fidanzò anche nel mentre, ma non era nulla di paragonabile», raccontai.

«Sei molto fortunata, sai?» chiese, stringendomi vicino a sé quando passammo accanto a un gruppetto di ragazzi.

Arrossii per quell'atto intimo. «Riguardo cosa?»

«Ai tuoi genitori», rispose. «È raro trovare ancora una coppia che si ami follemente dopo il matrimonio. Non sembrano infelici, mai una volta. E, poi, a me sembra che ti abbiano insegnato bene le basi dell'amore.»

«Assolutamente sì. Se non fosse per loro non avrei mai capito che l'amore si trova ovunque, e che forse certe persone sono veramente destinate a vivere insieme per sempre», mormorai, mentre mi beavo del contatto morbido con il suo bicipite.

«Avrei voluto averla anch'io una giusta concezione d'amore. Me la sono dovuta cavare da solo», iniziò, «L'ho trovata per strada, sai? Sono sempre stato un acuto osservatore. Ho trovato la definizione di amore tramite i quadri che mi si dipingevano davanti, tra le strade. Dalle litigate che sentivo a notte fonda da ragazzi o adulti sotto casa mia, ai sorrisi del proprietario del bar qua vicino a sua moglie ormai morta, alle donne che accompagnavano i mariti a prima mattina nelle giornate d'inverno a pescare. L'ho trovato nei genitori di Angelo, l'ho trovato nei libri... ma mai da vicino», mormorò, «Nessuno dei miei genitori mi ha mai amato come un figlio. Per mamma sono stato un caso, un marmocchio da tenere e far crescere in fretta. Per mio padre sono stato un burattino, un bambino nato per aiutarlo negli affari. Non ho mai ricevuto vero amore, l'ho cercato di notte, con ragazze a caso, sperando che una di loro me ne potesse dare un po', ma era solo sesso in fondo», sorrise amaramente, «E mi sta bene così.»

«Non fermarti, però», sussurrai sentendo il vociare della movida spargersi altrove come una bolla che volava via, si allontanava. «Arriva per tutti.»

Lui fece una smorfia, come se non ne fosse pienamente convinto, ma non ci tenne a contraddirmi sul serio.

Ci inoltrammo in un vialetto buio, illuminato solo da due pali a distanza di quattro metri l'uno dall'altro. La luce sulle mattonelle era spezzata, interrotta da malfunzionamenti, era una luce calda e aranciata.

Le serrande delle case che ci passavano vicino erano chiuse, vigeva silenzio in una e ad un'altra un casino tremendo. Panni stesi a penzoloni su spaghi da una casa all'altra e l'odore familiare di frittura di pesce usciva da una finestra aperta, vicino ad una porta c'era una scopa umida e un secchio ancora pieno d'acqua e detersivo, come se qualcuno avesse appena iniziato a pulire casa.

«Dov'è qui?», domandai, curiosa.

«Ti faccio vedere dove abitavo», spiegò, «E poi ti porto da una parte che sicuro ti piacerà.»

Io sorrisi e annuii. Anche se non c'era anima viva che passava di lì e a riempire il silenzio era solo il brusio nelle case e la lontana musica proveniente dalla strada principale, io non lasciai la sua mano e lui non lasciò la mia. Mi sentivo al sicuro mentre i miei passi si sincronizzavano ai suoi e il mio respiro si alternava al suo.

«Eccola lì», la indicò, facendomi alzare lo sguardo. Era una casa tradizionale ischitana, il portone di legno marrone, la cassetta della posta di ferro attaccata al muro malamente e le serrande di verde dipinto, delle scale che portavano ad una terrazza su cui stendere i panni bagnati.

«Chi ci abita adesso?»

«Una famiglia che conosceva mia nonna» disse, «Qua ci abita ancora mia zia e i miei cugini», indicò una casa, «E da qualche parte abita ancora qualcuno della mia famiglia che non ricordo.»

«Sembra tutto così accogliente», commentai.

«Lo è fino a quando non ci vivi sul serio», mi tirò con sé ed io lo seguii. «Guarda», sussurrò, «Qui c'è ancora segnata la mia altezza col passare degli anni», indicò l'angolo di un muro bianco macchiato da lineette scure.

Osservai i piccoli numeri, «A che età hai cominciato a segnarli?»

«Dieci.»

Lo guardai stupita. «E tu a tredici anni eri già altro un metro e sessantasei?», domandai. «Ora quanto sei alto?»

«Sarò un metro e ottantanove, novanta...»

«E io che pensavo che arrivare a diciott'anni ad un metro e sessantaquattro fosse una cosa straordinaria...».

Lui rise. «È una modesta altezza.»

«Simpatico.»

Dopodiché proseguimmo ancora lungo il viale. Mai un secondo lontana dalla sua mano. Mi raccontò qualche strano aneddoto che usava la sua famiglia quando mancava l'acqua e mi venne da ridere nel pensare un piccolo Riccardo che, per farsi una doccia, si buttava direttamente in mare e gironzolava nudo per la strada.

«Spero tu abbia fame», mi disse.

Io arricciai il naso. «Veramente sì», risposi con sincerità.

«Andiamo, allora.»

Mi portò con sé, fino ad un bar a luci soffuse, vuoto e una leggera musica jazz faceva da sottofondo. Un'insegna scritta con una matita scura sulla lavagnetta del menù casareccio citava: "Lasciate ogni speranza voi ch'entrate", ciò mi fece capire che fosse il posto più giusto in cui potesse mai portarmi.

C'erano dei lunghi tavoli di legno, tradizionali, con delle panche ai lati, davano aria di casa, familiarità. Un languorino improvviso mi riempì lo stomaco quando sentii l'odore di dolciume provenire dall'interno.

«Ric!», sentii una voce femminile, infantile, da dentro al locale, non appena mise piede sulla soglia.

Un'adorabile bambina corse verso di lui. Aveva una carnagione scura, nera, che alla luce pareva fatta di metallo, brillava quasi quanto una stella. I capelli nerissimi, afro, le incorniciavano il volto immaturo: le labbra carnose, due occhi affusolati e azzurrissimi. Quella bambina era una meraviglia.

Riccardo si chinò per prenderla in braccio, un braccio a sostenerle le gambe mentre le mani della bambina si strinsero al suo collo, ella venne riscossa da una risata. «Pensavo non tornassi più!», esclamò contenta di rivederlo.

Riccardo le sorrise, lasciandole un bacio tenero sulla guancia. «Mi sei mancata, kleinding.»

La bambina gli sorrise, «Anche tu», lo abbracciò di nuovo. Poi la piccola bambina notò la mia presenza. Mi guardò quasi stupita. «Chi è lei?», mormorò, non sapevo se fosse timida o quella domanda avesse uno scorcio di stupore, meraviglia.

Riccardo si voltò verso di me, se la sistemò meglio sul braccio e mi guardò. «Marvena, lei è Alba», mi presentò, «Forza, presentati.»

Capii che fosse timida, e che fosse anche mossa da un'emozione strana.

«Ciao», sventolò la mano verso di me, «Io sono Marvena.»

Io le sorrisi, con tenerezza. «Ciao, Marvena. Piacere di conoscerti, io sono Alba.»

Mi fissò per altri secondi, lunghi secondi, prima di dire qualcosa all'orecchio di Riccardo, qualcosa che lo fece sorridere e mi guardò di sbieco.

«Perché non lo dici a lei? Mica è brutto se glielo dici», la incoraggiò, «È molto amichevole, non devi preoccuparti.»

La piccola Marvena mi guardò negli occhi. «Sei molto bella, Alba», disse, mordicchiandosi l'unghia, «Ric non ha mai avuto bei gusti nelle ragazze, è la prima volta che lo vedo con una carina veramente.»

«Okay, questo potevi anche non dirlo», l'ammonì, con un po' di divertimento.

«Vedi che ho ragione. O erano brutte o erano antipatiche», mormorò con serietà mentre Riccardo la rimetteva giù.

«Dove sono mamma en pappa?», chiese.

«Vado a chiamarli. Saranno molto contenti di rivederti», disse Marvena, corse dietro al bancone e sparì dietro ad una tenda rumorosa.

Riccardo mi guardò, «Non è vero che ho pessimi gusti, comunque», mormorò.

Risi, annuendo, «No, certo, non lo avrei mai pensato», sarcastica.

Lui assottigliò le palpebre, piegò appena il mento. «Mi stai per caso prendendo in giro?»

«Non oserei mai», mi finsi sorpresa, offesa.

Quando fece per ribattere, un'esclamazione lo fece voltare. «Riccà! Ma sij tu overament?» — «Riccardo, ma sei tu veramente?», disse una voce maschile, forte.

Da dietro la tenda comparì un uomo alto, con la barba curata e una statura muscolosa. Dopodiché, da dietro di lui, uscì una donna meravigliosa. Bella quanto la piccola Marvena.

Aveva una pelle paradisiaca, dei capelli curati e morbidi solo alla vista. I suoi occhi si riempirono di incredulità e gioia quando carpirono la figura di Riccardo.

«Ongelukkig, dove sei stato?» disse, proclamando una voce dolce e soave, da mamma preoccupata.

La donna lo raggiunse in un batter d'occhio, gli strinse il viso e lo abbracciò. «Non ti sei più fatto vivo, pensavamo fossi andato dalle parti di tuo padre.»

«No, sono rimasto qua. Ho solo trovato un bel po' di lavori che m'hanno tolto del tempo», le spiegò con una delicatezza nella voce che non gli avevo mai sentito.

«E comm staij?» — «Come stai?», chiese l'omaccione.

«Sto bene. Voi?», chiese ad entrambi.

«Ce la passiamo bene, Riccardo. Ma ora non parliamo di noi!», gli sorrise, la dolce donna, «Mi ha detto Marvena che con te c'è una bella ragazza», calcò quel termine come se fosse una rarità, uno sguardo entusiasta.

Riccardo sospirò guardando Marvena da dietro al bancone, vispa e furba.

Quando la donna mi vide, fu inevitabile sorriderle. Lei alzò leggermente le sopracciglia, come se fosse sorpresa davvero della mia presenza. «Oh, è bella davvero...» sussurrò, mi si avvicinò. «Piacere, cara, io sono Keesi, e quel pancione lì è Franco.»

«Alba», le sorrisi e sorrisi anche all'uomo che mi guardava.

«Alba», ripetè, «Che bel nome», mi carezzò le braccia, «Cosa vi porta qua?»

«Facevamo un giro, ci è venuta fame», spiegò in breve Riccardo.

«Hai sentito Franco?», disse Keesi, «I ragazzi hanno fame, forza!».

Ci volle poco a capire che la giovane Keesi fosse l'uomo di casa. Franco con un sussulto si buttò ai fornelli. «Voi non vi preoccupate, fate i comodi vostri, facciamo tutto noi.»

Riccardo la ringraziò e le assicurò che avrebbero parlato dopo. Poi egli, con una riverenza, mi fece passare avanti.

Dopo esserci accomodati in un tavolo appartato, che dava sul porto, mi venne naturale chiedergli: «E tua madre? Dov'è che vive?», mi voltai verso di lui, distolsi lo sguardo dal mare.

Riccardo alzò lo sguardo dalla tovaglia a quadri blu. «Vive a Casamicciola. Un altro comune. Ha trovato una casa vicino al bordello in cui l'hanno assunta. Non le parlo da mesi», mi disse giocherellando con la forchetta.

«E non ha avuto altri figli?», osservai il capello mosso che gli cadeva sullo zigomo, le sue labbra carnose a muoversi piano prima di rispondermi.

«Ha sempre abortito», fece spallucce. «Chi lo avrebbe sopportato un altro bambino che le faceva scendere il seno con il latte?», disse con sarcasmo, un amaro sarcasmo.

«Con tuo padre ci parli?»

«No. Almeno non direttamente. Non può avere contatti con la famiglia. Ho sue notizie solo dai suoi colleghi», mormorò. "Colleghi", che assurdità.

Annuii. «E Geppa e Tonio? Suppongo che a 'sto punto non c'entrano con tuo padre, e da come ne hai parlato non sono i genitori di tua madre...»

«Sì, ecco, non sono i miei veri e propri nonni. Erano vicini di casa, mamma, quando non aveva nessuno che potesse guardarmi, mi dava a loro. E Geppa non ha mai avuto figli per problemi di genetica, così si trovò un nipotino senza saperlo...», sorrise, «Mi hanno preso con loro quando ho fatto diciott'anni.»

«Loro ti vogliono molto bene, Riccardo», sorrisi, e lui fece lo stesso, osservandomi in silenzio.

«Sì, lo so...», sussurrò, «Però sono consapevole che non posso dargli problemi, non posso restare con loro.»

«Ma non puoi nemmeno abbandonarli.»

«Non è che non posso, ma non voglio», ammise, «Non voglio lasciarli da soli.»

Sospirai, poggiai una mano sulla guancia e rimasi a guardarlo. Lui fece lo stesso: la schiena appoggiata alla panca, le braccia tese sul tavolo e il suo mento inclinato mentre i suoi occhi mi accarezzavano il viso, con una fragilità immane.

«Sono sicura che troverai il giusto compromesso», lo tranquillizzai. «È ancora estate, aspetta magari l'inverno, o l'autunno, oppure la primavera. Prenditi del tempo per ragionarci su», consigliai.

Lui annuì distrattamente, senza smettere di guardarmi. Poi si alzò dallo schienale e poggiò i gomiti sul tavolo, sorreggendosi. Si strinse nelle spalle. «Quindi, principessa», mormorò, nascondendo un sorriso furbo, «Università di Lettere, eh?»

Sospirai, lasciandomi andare una risata. Guardai le stelle. «Ci provo.»

«Vuoi fare l'insegnante?», chiese.

«Sì», sorrisi, «Mi piace insegnare cose nuove alle persone, spiegare e trasmettere passioni.»

«È un ottimo obiettivo», annuì, convinto, «Hai una faccia da insegnante.»

Sorrisi divertita, in qualche modo quel mio sorriso fece sorridere anche lui. «Come?»

«Sì, la faccia da insegnate, quella saccente e giudiziosa», assottigliò le palpebre.

Schiusi le labbra. «Non è affatto vero!»

«No?», rise.

«No!», ripetei, ridacchiando.

Rise ancora, piegando il viso verso il basso. Lo guardai male, poi, quando rialzò il viso e la sua risata emanò un calore talmente forte nella mia pancia, esordì: «Scherzavo, bambina.»

Scossi il capo e lasciai perdere. Chiacchierammo a lungo, di tutto e di più, senza mai fermarci. Era fantastico parlare con lui, non c'era un momento in cui non mi incuriosivo o non mi divertivo. Avevamo un'attrazione mentale assurda, ogni cosa dicessi trovava sempre un punto da discutere e persino quando arrivò il cibo e Keesi ci interruppe, noi continuammo a parlare.

Ciò che mangiammo fu buonissimo. Forse la compagnia di Riccardo lo rese ancora più inimitabile. La musica jazz era un accompagnamento stupendo e non avevo idea di come la serata sarebbe terminata, e non volevo nemmeno pensarlo.

«Che vuol dire che non ti piace la birra?», disse, sgranando gli occhi come se fosse la cosa più strana avesse mai sentito.

«Non l'ho mai assaggiata...»

«E che cazzo bevi quando esci?»

«Di solito non bevo birra», ridacchiai con un'alzata di spalle.

«Non posso accettarlo», con agilità aprì la sua birra, «Tieni, assaggia.»

«Sei sicuro?», domandai.

«Senza fare storie», mi allungò la Peroni ghiacciata.

Così sospirai e la afferrai. Ne presi un sorso. Era frizzante, saporita.

Quando Riccardo notò la mia espressione indecisa, sorrise. «Buona, eh?»

«Sì, ma non la berrei tutti i giorni a qualsiasi orario.»

Lui alzò gli occhi al cielo come per dirmi che non capivo un cazzo.

Marvena sgattaiolò fuori dal locale e si arrampicò sulla panca, accanto a me.

Riccardo le sorrise, «Cosa ci fai tu qua?», le chiese, abbassando dolcemente il viso.

«Volevo stare un po' assieme a voi», mormorò, «Me ne vado subito», gli assicurò.

«Va bene, però non mettermi in imbarazzo.»

Io trattenni una risata. «Vedi che è vero che hai gusti orrendi», replicò ancora convinta, Marvena.

«Sì, va bene, come vuoi tu», troncò il discorso.

«Da quanto state insieme?»

«Cosa?», rispondemmo all'unisono.

Marvena ci fissò con il viso confuso. «... sì, da quanto siete fidanzati?»

«Oh... no, no», rispose, Riccardo.

«No, non siamo fidanzati», lo seguii subito dopo.

«Come no...?» Era delusa.

«Non stiamo insieme, Marvena», continuò Riccardo.

«Mh... allora, continuerai a stare con quelle brutte?»

«Oh mio Dio. Non è affatto vero che ho gusti di merda!», scoppiò a ridere.

«Io penso che tu li abbia», concordò Marvena.

«Ma se ne hai conosciute a stento tre?»

«E mi sono bastate tre», gli fece la linguaccia.

«Hai solo dieci anni, che ne devi sapere tu?», alzò le sopracciglia.

«Io ce l'ho un fidanzatino!»

«Oh, certo, Paolo è un ottimo fidanzatino», stese il braccio sullo schienale della panca, guardò Marvena con divertimento. «A stento sa qual è il tuo colore preferito.»

«Lo dici solo perché non ti sta simpatico», si imbronciò.

«Sì, e anche perché... è uno stronzetto», sussurrò l'ultima parola per non essere ascoltato dai suoi genitori.

«Sei un cretino», sbottò la piccola, poi si rivolse a me, «Alba, tu ce l'hai il fidanzato?»

Negai con il viso. Riccardo mi osservò con attenzione.

«Però ne hai avuti di fidanzati, vero?»

«Sì, be', ho avuto due fidanzati», le raccontai, «Uno con cui sono ancora amica, l'altro era uno stupido e mi trattava male.»

Sentivo la pressione degli occhi di Riccardo scavarmi le guance.

«Ti... trattava male?», ripetè, dispiaciuta.

«Già, non era una brava persona. Però l'ho lasciato, eh. Adesso non mi fa più del male, anche se prova ancora a chiamarmi», alzai gli occhi al cielo, «Spero che... Paolo, si comporti bene con te.»

«Oh, eccome! Mi regala sempre i cioccolatini e dice di volermi sposare.»

«A me sembra fantastico», le sorrisi. «A Riccardo non sta simpatico quasi nessuno, perciò è normale.»

«Hai ragione», rise. Poi guardò Riccardo, «La mamma voleva avvisarti che se non hai dove andare per dormire, puoi usare la tua vecchia camera sopra al locale, non l'abbiamo mai toccata da quando sei andato via.»

«Grazie, kleinding», la ringraziò dolcemente.

«Adesso è meglio che vada, la mamma non vuole che vi disturbo», scese dalla panca e corse via.

Guardai la finestra chiusa sopra al locale, che probabilmente era la camera che utilizzava Riccardo.

«Come mai abitavi qua?», chiesi riportando lo sguardo su di lui, il mio cuore sussultò quando vidi che mi stesse già osservando.

«Quando mia madre si spostò a Casamicciola, tre anni fa, non volevo dare problemi a Geppa e Tonio — che lavoravano già da te da anni ormai — e Keesi e Franco mi proposero di dormire nel monolocale. Era inutilizzato e pieno di robe inutili. Io e Angelo lavorammo per loro d'estate, si affezionarono a noi due e così io continuai ad aiutarli ogni tanto con le bollette. Hai visto Keesi, è una donna molto affabile e calorosa, se le entri nel cuore ti prende come un figlio», mi spiegò, grattandosi la punta del naso, «È da mesi che non li venivo a trovare.»

«Come mai?» Con Keesi aveva utilizzato la scusa dei lavori, io non ci credevo. 

«Ero pieno di affari», rispose, sospirando, «... di droga, insomma. Non potevo metterli a rischio, qua ci vengono a fare colazione i carabinieri, poliziotti e se avessero trovato anche solo un sospetto, avrei mandato a puttane tutta la loro attività. Non potevo fargli questo», disse con sincerità.

Mi grattai la guancia. «Capisco.»

Lui cercò il mio sguardo, «E chi era il figlio di puttana che ti trattava male?»

Quella frase così violenta mi fece sobbalzare le spalle, alzai le ciglia così da poter guardarlo. «Come dici?»

«M'hai capito.»

«È un ex», risposi selettiva.

«L'avevo capito.»

«Che vuoi sapere più?», sospirai.

«Non lo so, dimmelo tu, che devo sapere più?», tirò fuori una sigaretta, se la portò alle labbra e se la accese impulsivamente. Tutto sotto il mio sguardo attento, aspirò.

Mi guardai attorno, in cerca di parole. «Era solo uno stronzo.»

«Avevo capito anche questo», buttò fuori il fumo della sigaretta, «Che volevi dire con "trattava male". Non credo intendessi che non ti portava i cioccolatini», mormorò, una curiosità così brusca da spezzarmi qualcosa nelle prossimità del cuore.

Abbassai lo sguardo, mi sentii improvvisamente vulnerabile ai suoi occhi. Osservai le mie dita. «Se lo hai capito allora perché me lo chiedi?»

«Perché non mi va di interpretare le cose mezze dette.»

Deglutii appena. «È stata una lunga relazione», dissi, «Durata quasi tre anni, ho avuto il coraggio di lasciarlo solo ad agosto dell'anno scorso», mormorai.

«Com'è che si chiama?»

«Manuel», sospirai, «Si chiama Manuel».

Lui annuì.

«All'inizio sembrava quello giusto, diceva che mi amava sul serio. Fin quando non arrivò il primo schiaffo», sussurrai, lui strinse la mandibola, facendo ricadere della cenere nel posacenere, «E allora le prime scuse, i primi "non lo faccio più, è stata colpa tua, mi hai fatto incazzare". Poi il secondo, più forte del primo, e i "io ti amo, voglio solo il tuo bene e se un mio amico mi dice che sei una figa da paura allora me la prendo con te perché sei una troia". Poi il terzo, e lì le scuse non ci furono. Neanche al quarto o al quinto, nemmeno al sesto. Nemmeno al trentunesimo o al settantesimo. Nemmeno all'ospedale», la mia voce si spezzò, ma mi feci forza.

Sapevo che era il mio passato, e lo avevo superato. Dovevo solo distanziare gli avvenimenti. Passato e presente.

«Le litigate coi miei, mio padre su tutte le furie e mia madre sempre in preda a pianti isterici. I lividi ovunque e la paura di un abbraccio. Mio padre che provava a parlarmi, a farmelo capire che fosse un coglione, che non fosse uomo, ed io che mi ripetevo fossero tutti degli idioti e che di me non ci avevano mai capito niente. Le estati qui passate tra le telefonate di Manuel che non voleva uscissi o andassi a ballare, tra le litigate e le urla. Con la bisnonna Silvia che mi stringeva nel letto tra le lacrime...», elencai, «Non le auguro a nessuno tutte queste cose, Riccardo. Nemmeno a Manuel, non gli auguro niente di quello che mi ha fatto passare. Non dovrebbe manco esistere una cosa del genere, né in cielo né in terra, che un uomo picchi una donna solo perché gli va, o perché non vuole che gli altri la guardino.»

Riccardo rimase in silenzio. Mi guardò a lungo, ed io mi lasciai guardare. In qualche modo, quei suoi occhi iridescenti stavano guarendo ogni ferita sotto pelle, ogni livido.

«Non posso dirtelo che mi dispiace, sarebbe da insensibili», pensò, «Però... vorrei tanto averti conosciuta qualche estate fa, così ti avrei fatto capire che quello non era vero amore.»

«Non ci è riuscito mio padre, come avresti potuto tu?», ridacchiai, con gli occhi ancora lucidi.

«Avrei fatto l'amore con te», lo disse con tale calma che la sua voce si aggrovigliò al mio stomaco, si infiltrò nel battito cardiaco del cuore fino a farmi trattenere il respiro.

Mi domandai veramente cosa sarebbe accaduto se avessi conosciuto Riccardo due estati prima. Magari avrebbe notato i lividi che avevo addosso, anche quelli invisibili, e li avrebbe nascosti al posto mio. Mi avrebbe spaccato il cellulare e mi avrebbe impedito di tornare alla Villa. Mi avrebbe portata via con lui, mi avrebbe dato una birra e mi avrebbe fatta innamorare veramente. Magari mi avrebbe spogliata nel silenzio di una spiaggia e mi avrebbe abbracciata sott'acqua. Mi chiesi cosa sarebbe successo se fosse stato lui la mia prima volta, se fosse stato lui a entrarmi dentro per primo, a farmi bene e a farmi male. Mi chiesi se fare l'amore con lui mi avrebbe guarita sul serio, e probabilmente sarebbe stato impossibile, ma mi avrebbe salvata almeno per un po'.

Ma la sua convinzione mi indusse a pensare che forse, se mi avesse spogliata per primo, tutti i lividi che avevo ancora, in realtà, non ci sarebbero stati.

Non ne parlammo più. Lasciammo che l'argomento volasse via assieme alla sigaretta che infine condividemmo.

Keesi arrivò con un sorriso mentre parlammo accompagnati dal rumore del mare. Una Chiesa poco vicina a noi ci suggerì fosse scattata la mezzanotte con il suono forte e rintronante delle campane. Non so cosa le chiese Riccardo, scoprii parlasse l'africano. Vidi solo Keesi annuire felice.

«Come mai parli l'africano?», domandai.

«Mi piaceva come lingua. Lo parlo con Keesi e con Marvena.»

Mi incuriosii. «Dimmi una frase in africano, allora.»

«Una qualunque?»

«Una qualunque.»

Ci pensò qualche secondo, «Jy is die mooiste meisie wat ek nog ontmoet het

«Accipicchia, è una lingua complicata», rimasi stupita, «E cos'è che m'hai detto?»

«Che sei una stupida bambina.»

«Non ti credo, era una frase troppo lunga», ribattei.

«È per la struttura della frase, non è poi così lunga.»

«Come sei antipatico, però.»

Quando decidemmo di andarcene, era mezzanotte e mezza.

Decise di pagare lui, anche se mi recò un enorme malcontento. Non appena usciti dal locale con Marvena che ci salutava con la speranza di rivederci, in lontananza intravidi un gruppo di ragazzi poco sobri gironzolare a vuoto per la strada.

Riccardo lo fece istintivamente: mi afferrò la mano, me la inchiodò al suo palmo così forte da stringermi anche il cuore. Temetti avesse capito il mio tentennamento, come quando capì quello precedente davanti a quei ragazzi che mi fissavano. Dopo avergli raccontato di Manuel, capì anche meglio a cosa era dovuta quella mia immotivata ansia non appena un paio di ragazzi mi fissavano. Pensai che, forse, avesse intuito il motivo della mia risposta brusca e affrettata quando mi chiese cosa avessi e cosa mi turbasse.

Lo ringraziai infinitamente per avermi capita.

«Ti piace Tiziano Ferro?»

«Tiziano Ferro?», ripetè, mentre con l'altra mano mi strinsi al suo braccio per pararmi dal vento freddo e leggero che mi fece venire i brividi.

«Sì, sai chi è, no?»

«Certo che lo so. Però lo ascoltano le quarantenni», rispose divertito.

«Non è affatto vero», sbottai, «Ha una scrittura delicatissima, quasi paragonabile a quella di Jovanotti.»

«Pure Jovanotti?», rise.

«È il mio preferito.»

«Ai vecchi piacciono 'sti cantanti, lo sai?»

«Invece ti sbagli. Sono delle canzoni delicatissime, penso che ti farebbe bene una sana dose di canzoni per bene.»

«Se mi venisse in mente di farmi un ascolto sarai la prima a saperlo.»

«Ottimo.»

Raggiungemmo il motorino, egli mi infilò il casco e lo legai bene. Una volta sulla sella, riappropriarmi del calore che emanava la sua schiena fu una beatitudine inspiegabile, nemmeno quando abbracciavo i miei genitori la provavo.

Mi sentivo al sicuro, lì, dietro a quelle spalle.

Lì, dietro a quella chioma di capelli biondi.

Lì, dentro a quella schiena ampia.

Mi sentivo tremendamente al sicuro.

Spaventosamente.

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