Domani sarรฒ alba

By CuoreAdElica

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๐—–๐—ผ๐—บ๐—ฝ๐—น๐—ฒ๐˜๐—ฎ โœ”๏ธ ๐™ฝ๐šŽ๐š  ๐™ฐ๐š๐šž๐š•๐š ๐Ÿ’‹ 1/2 Alba ha il tramonto stampato in faccia. Capelli rossi, occhi ver... More

Cast
Albero genealogico
Chi sono Elia e Isabella?
MP3 di Alba
Prologo
Alba odia i capelloni - Parte Uno
1. L'isola dell'Amore
2. Uno sconosciuto nella Villa
3. Favori e debiti
4. Ottimo ascoltatore, pessimo argomentatore
6. Ad ogni uomo il vestito che si merita
7. La Libera
8. Il pescatore e la monaca - Pt. 1
9. Il pescatore e la monaca - Pt. 2
10. A caccia di fiori e pranzi stravaganti
11. Il monolocale
12. Sole, spiaggia, sesso
13. Di mare e di stelle - Pt. 1
14. Di mare e di stelle - Pt. 2
15. Ne vale la pena?
16. Una canzone tua, nostra
17. Essere visti per chi siamo davvero
18. Sei dove non sono io
19. Le scritte sui muri rimangono in eterno
20. Ci viviamo
21. Sii prudente con questo tuo cuore
22. Musica jazz, sigarette e amici di famiglia
23. Notti d'agosto al sapore di mare
24. Ciao amore, ciao
Non รจ mai abbastanza - Parte due
25. Il tempo passa
26. Bisnonna Silvia, sei eterna
27. Resta
28. E basta
29. All'ombra di un tramonto
30. Luce dei miei occhi
31. Ne รจ valsa la pena
32. Nuovo inizio
33. Roma, Amor
Epilogo
Ringraziamenti
Sogno - EXTRA
Scappare - EXTRA

5. La briscola รจ uno strumento di difesa

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By CuoreAdElica





ALBA
Ischia, estate.




Il mattino successivo scesi le scale di corsa, perennemente a risuonare nell'aria il rumore di piatti, cinguettii e profumo di limone. Salutai i miei seduti in veranda, che mi chiesero come fosse andata la sera prima. Dopodiché andai in cucina, trovando Geppa e mia nonna.

«Buongiorno a tutti», dissi allegra, salutando anche Tonio fuori alla finestra, impegnato a tagliare dei cespugli.

«Ué, Alba! Come sei raggiante stamattina! Guarda, ti ho tagliato delle fragole, le ho prese stamane al mercato, son fresche fresche», mi indicò la ciotola sul bancone.

Le sorrisi felice e mi avventai sulle mie fragole, mi sedetti sulla penisola di marmo come una gazza ladra che fissava i gioielli scintillanti. Le osservai sfilare le lische dal pesce spada, così come le guardai tagliuzzare il prezzemolo.

Mi guardai attorno. Guardai il piano cucina imbrattato di cibo, rivestito di ciotole, di pentole, bottiglie di sugo di pomodoro. Il vaso con i fiori; il sole si stagliava su tutta la stanza e la porta che dava ai vigneti era socchiusa. Osservai meglio tra i vari cespugli, ma non trovai niente di ciò che cercavo.

Mi schiarii la voce, «Geppa», dissi giocherellando con la foglia di una fragola.

«Sì, tesoro?»

«... ma, una domanda, per curiosità, ma Riccardo non c'è?», mormorai, cercando di non destare sospetti con la mia sfrontatezza.

Geppa mi guardò e negò, parve triste. «Oggi quel disgraziato ha deciso di farmi incazzare. Sai, quel ragazzo è bello e caro, ma fa delle scelte di vita che non condivido. Un giorno di questi poi vede come lo prendo a padellate e gli rimetto a posto quella capa tosta che ha», scosse il capo, tagliando l'insalata.

Annuii, disinvolta, notando che mia nonna mi avesse guardata di sottecchi.

Finii la mia ciotola di fragole e andai dai miei, attraversando l'arcata del soggiorno. Mi sedetti accanto a loro, leggevano in grazia di Dio. Mia madre aveva i piedi sulle gambe di mio padre, e lui glieli accarezzava in punta di dita.

«Avete organizzato qualcosa per questo fine settimana? È luglio sabato sera», sorrisi a entrambi, ero elettrizzata all'idea.

Loro ridacchiarono. «Avevamo in mente una mezza cosa. Dobbiamo ancora ragionarci, tu lascia fare a noi.»

«Mi state escludendo dai vostri piani?» Borbottai, fingendomi delusa. Loro alzarono le sopracciglia in contemporaneo. «Va bene, fate i piccioncini in vacanza, io andrò a leggere in giardino», mi alzai altezzosamente e andai a prendere la mia lettura corrente: Ragione e Sentimento di Jane Austen e me lo portai sotto al braccio.

Mi chiesi, però, a cosa si riferisse Geppa. Senza rifletterci troppo decisi di scrivere a Riccardo.

"Non ti sarai mica offeso per averti dato del scarso argomentatore? Pensavo che conoscessi i tuoi punti deboli."

Spensi il cellulare e cominciai a leggere, anche se la mia testa non riusciva del tutto a recepire ciò che leggevo. Lessi sulle cinquanta pagine quando mi arrivò la notifica della sua risposta.

"Non do molta importanza ai pregiudizi."

Risposi ridendo.

"Vorresti dire che mi sbagliavo? Sei un ottimo argomentatore quanto ascoltatore?"

"Sono il migliore argomentatore, peccato che non mi hai ancora dato modo di dimostrartelo."

"Egocentrico o narcisista?"

"Mi conosco bene. Non sono né egocentrico, né narcisista."

"Perché tua nonna è arrabbiata con te?"

"Perché pensi che io te lo dica?"

Alzai le sopracciglia.

"Perché non dovresti, invece?"

"Giochiamo a farci domande a cui non sappiamo rispondere?"

"Sei tu che hai iniziato. Volevo solo sapere se fosse successo qualcosa di orrendo, soprattutto dopo che ti ho dato uno dei miei libri preferiti."

Rispose dopo qualche minuto.

"Non è successo niente, mia nonna esagera. I tuoi libri sono al sicuro."

"Va bene. Allora ti lascio alle tue faccende. Ciao, ciao."

Riccardo non rispose. Continuai a leggere, sempre con la mente un po' persa tra pensieri vaghi, non riuscivo a stare ben concentrata.

Le ore passarono con la tranquillità ad accarezzarci piano. Il pranzo fu piacevole, ascoltai le chiacchiere dei miei e vennero a pranzare anche i miei nonni Pietro e Rosa, che sarebbero restati poco, alloggiavano in un resort tropicale su una baita del versante opposto a quello della Villa.

Decisi di farmi un bagno in piscina all'alba delle cinque e quando il Sole si fece meno caldo, uscii dall'acqua e mi andai a preparare per scendere un po' in paese, nonostante sapessi che di mercoledì nessuno usciva la sera.

Però, pensai, posso osservare Ischia in silenzio, goderne le luci e la pacatezza. Pensai che magari avrei potuto prendere un gelato, andarmene in giro per le spiagge con qualche bambino in villeggiatura che ancora giocava con la sabbia.

Indossai un vestitino bianco di lino, aperto lungo la schiena, che mi fasciava bene il seno e metteva in risalto la mia corporatura esile.

Legai i capelli in una coda ordinata, mentre i ricci oscillavano scomposti sulle spalle. Avvisai che sarei tornata presto. E così infilai le cuffiette, e il suono della musica incalzante de Il Conforto di Tiziano Ferro e Carmen Consoli mi accompagnò lungo la discesa della collina su cui vigeva la Villa.

Gli ultimi raggi del Sole mi baciarono il viso e il piacevole tocco della brezza estiva mi accarezzò la pelle delle gambe.

Mi feci una lunga camminata a piedi. Scoprii vie nuove all'insegna del verde, dei fiori nuovi. Ville enormi, confortanti e macchine che mi passavano accanto con la musica a palla, motorini guidati da innamorati che si stringevano. Dalle finestre uscivano lunghe file di costumi penzolanti, lenzuola, magliette e bermuda. Urla napoletane, risate fragorose di ragazzini e un cane che rincorreva un'ape sul marciapiede. Piccole lucertole a sfiorare i dossi tra il cemento e intersecarsi nelle mura di pietra.

Giunsi a Ischia Ponte senza sapere come. Il tramonto era una meraviglia della natura, intralciato dal Castello Aragonese nella sua grande compostezza massiccia. Dopo aver passeggiato per i negozietti del centro storico ed essermi fatta un giro alla libreria, decisi di scendere verso i lidi, così da saggiare il profumo di salsedine e lo scrosciare del mare nitido.

Passeggiare davanti alle spiagge dopo l'ora calda — quindi verso le otto e mezza di sera — era come deliziarsi degli avanzi di una cena strepitosa. Era come passare davanti a un ricordo altrui: quelle impronte di sabbia che risaltavano sull'asfalto pesto, orme di ombrelloni sfilati via dalla sabbia dopo chissà quante ore stuccati nel fondo, infradito dimenticate e secchi dell'immondizia riempiti fino all'orlo, fino a far cadere le confezioni dei cornetti dell'Algida nella sabbia.

Era quella, la sensazione. Risentire l'eco di un pomeriggio estivo, tra risate e urla stridule prima di gettarsi da uno scoglio relativamente alto.

S'intendeva che ci fossero dei lidi nelle vicinanze già da prima di arrivarci davanti effettivamente. Il marciapiede su cui camminavi si copriva all'improvviso di una patina di granelli di sabbia, come se qualcuno avesse soffiato con la bocca la sabbia dalle spiagge apposta. E poi l'odore era pregno di odori: si confondeva con quello che proveniva dalle cucine degli alberghi balneari nelle prossimità e con quello del mare in sé.

Arrivai alla Spiaggia dei Pescatori con calma, la spiaggia su cui crebbe mio padre. La sera avvolgeva ogni angolo delle case, il Sole calante creava delle dune ombrate sulla spiaggia d'oro laddove vi era depositate delle piccole barche di pescatori capovolte.

Una canzone armoniosa, con lo sfondo di un pianoforte, risuonava nelle mie orecchie mentre arrotolavo il filo delle cuffiette tra le dita, canticchiando sottovoce.

In lontananza intravidi un bar, costruito su una scogliera. Pensai di farci un salto per una rinfrescata. Ma mi si avvicinò un ragazzo, sembrava volermi chiedere qualcosa, dunque tolsi la cuffia da un orecchio e abbozzai un sorriso, cordiale.

«Je a ij a quacche part?» — «Devi andare da qualche parte?»

«Come scusa?», risposi confusa.

Lui sbuffò. «Nenné, devi andà da qualche parte?»

«Sì...?» Risposi. Mi spaventai, sùbito.

«E arò devi andà?», arricciò le labbra, inasprito, portandosi una sigaretta rollata male alle labbra.

«Lo so io dove devo andare», risposi a tono, infilandomi di nuovo la cuffietta.

Il ragazzo, incaponitosi, mi afferrò per il braccio, facendomi male. Mi tirò via le cuffiette, trattenni l'istinto di sganciargli uno schiaffo a piena guancia, «Sei 'na maleducata. Dài, non te la posso offrì 'na sigarett?», disse lascivo, come volesse farsi perdonare per avermi fatto male.

Sbottai subito, volevo allontanarmi. «No. E lasciami il braccio prima che te lo spezzi», mi dimenai.

Lui rise, innervosito, «Che e' itt?» — «Che hai detto?»

«Oh!» Fu un'altra voce maschile alle nostre spalle a richiamare l'attenzione del ragazzo. Io mi massaggiai il polso, allontanandomi di qualche passo dal ragazzo, che adesso fissava dietro di me. «Che cazzo fai?»

Riconobbi subito la voce di Riccardo, quando mi fu vicino e risentii il suo profumo ne ebbi la certezza. Era riconoscibile anche a dieci metri, lasciava scie di profumo ogni qualvolta mi passasse vicino. O forse ero io che mi ostinavo a ricordarmene l'essenza, non so per quale motivo.

«Maro', c' stev chierenn 'na cos» — «Madonna, le stavo chiedendo una cosa.»

Guardai male il ragazzo. «Da quello che ho potuto vedere non mi pareva il modo più carino per chiederle una cosa.» Riccardo aveva quel suo modo pacato e trattenuto di congedare chiunque come se nulla lo scalfisse per davvero, come se fosse imperturbabile da ogni cosa.

Ma quando il ragazzo provò a spiegarsi, arrampicandosi sugli specchi, mi scocciai e ricominciai a camminare, indossai le mie cuffiette penzolanti e incrociai le braccia al petto.

Il rumore della musica occupava tutta la mia mente, era così forte che udii a malapena la voce nitida di Riccardo che mi chiamava a gran voce. Ero sicura che la canzone la potesse sentire anche lui, una volta avermi raggiunto di corsa, attraverso le mie stesse cuffie. Anche se non le avevo tolte.

Vedendolo accanto a me, gli lanciai un'occhiata di sbieco. Tolsi ancora una cuffietta, lui aveva un po' l'affanno come se avesse corso per un tragitto più lungo di quanto pensassi.

Lo incitai a proseguire.

«Stai bene? Ti ho vista da lontano... lavoro al ristorante qua vicino e ti ho pure chiamata, ma non mi avrai sentito», si grattò la nuca dopo aver indicato in maniera svelta un angolo dietro di noi, togliendosi i ciuffi disordinati da davanti alla fronte.

«No, effettivamente non ti ho sentito...», osservai il suo petto assestarsi con un paio di sospiri. «Scusa», lo rimirai, sincera.

Lui annuì, dandoci poca importanza. «Sicura di star bene?»

«Sì. Mi sono solo incazzata. Odio i ragazzi che si comportano in quel modo, mi fanno sentire stupida», ammisi. «Non mi piace essere guardata come una stupida», mi mordicchiai il labbro. La sua presenza mi rendeva estremamente nervosa.

Lui sorrise, trattenendo una risata. Lo guardai confusa. «Ci avrei scommesso, principessa.»

Mi lasciai andare ad una piccola confidenza, gli diedi una piccola spintarella con il gomito. Trattenni un sorriso stringendo gli angoli della bocca. «... Quindi, ricapitolando: dipendente, spacciatore, babysitter e ora anche cameriere? Sicuro di essere la stessa persona per ogni lavoro?».

«Il babysitter lo faccio part-time.»

Finsi una risata, ricevendo uno sguardo divertito da parte sua. «Simpatico.»

Lui rise. Non mi parve forzato. Rise per davvero. «Lo faccio per i soldi.»

Io annuii, sorpresa per la sua onestà. «Ragionevole, lo farei anch'io.»

Riccardo scosse il capo, schioccando la lingua sul palato. Affondò le mani nelle tasche del bermuda nero, sotto al grembiule corto e formale, «No, non te lo consiglio, principessa, non ne hai bisogno tu.»

«E perché no? Non mi credi capace di svolgere più lavori? Non fare discorsi maschilisti, Riccardo

Quando i suoi occhi — abbastanza chiari da far vedere chiaramente la pupilla ma non abbastanza scuri da non farli brillare — raggiunsero i miei in un'espressione sorpresa, scintillante, soddisfatta, capii che quella reazione fu provocata dal suo nome pronunciato dolcemente da me. Lo capii anch'io, più tardi, quando lui mi rispose. Era la prima volta che dicevo il suo nome ad alta voce non in maniera sarcastica, o ironica, o diffidente. Avevo usato un tono diverso, serio.

«Non riguarda il maschilismo. Credo tu possa fare qualsiasi lavoro tu desideri, anche duecento all'ora, ma non te lo consiglio perché non condurresti una vita come si deve. Fidati di uno che fa questa medesima vita da una vita intera», disse in maniera sardonica, fu crudo. Realista; qualche settimana più tardi capii che quell'aggettivo, "realista", era quello che più gli si addiceva.

Io lo guardai abbastanza per memorizzare la sua espressione facciale, quindi annuii piano. «Hai sempre lavorato? Anche quando andavi a scuola?»

«Sì», rispose, «Prima facevo il barista, poi ho fatto il fruttivendolo, il postino... ho iniziato a quattordici anni, ma prima mi assumevano anche in nero», confessò.

E mentre continuava a spiegarsi, a raccontarsi osservai il suo respiro sotto alla maglietta bianca a maniche corte e un grembiule nero con qualche macchia qua e là, con su scritto il nome del ristorante: O' Sole Mio. I capelli più lunghi legati in un piccolo codino disordinato, qualche riccio a ribellarsi fuori, come se si sentisse oppresso dall'elastico. Un dettaglio che notai su di lui fu quello che non gesticolava, o meglio, non eccessivamente, non quanto lo facevo io. Era pacato nei modi, anche se non sembrava, era riservato anche nei gesti.

«I tuoi nonni non sono d'accordo con ciò che fai, vero?»

Lui sospirò. «È una lunga storia. Forse, un giorno, te la spiego, un giorno lontano», ammiccò un breve sorriso.

Io mi accigliai, «Perché lontano?»

«Fidati, meno sai di me, meglio è.»

Rimanemmo in silenzio, un'onda del mare rinsaccò contro uno scoglio. L'aria era satura di sale, era leggera. Il mare diventava una tavola opaca. La salsedine si mischiava al suo profumo così fragrante perfettamente. Mi distrassero un secondo tutti quei dettagli, mi resi conto di come avevo perso la cognizione del tempo stando vicino a lui e parlare, parlare e... provare a parlare.

«Dio... che sbadata», esalai. Mi sentii in colpa. «Ti ho trattenuto a parlare. Scusami. Non volevo rubarti il tempo», mi scusai, mortificata.

Ma lui non ne parve scioccato o sorpreso. «Non mi hai rubato del tempo, non preoccuparti. Però forse è meglio che mi faccia rivedere.»

Io annuii. Ci salutammo con dei brevi sorrisi, senza dire niente a voce alta, e lui mi diede le spalle, intento a rifare la strada a ritroso.

Poi con un singulto, mi voltai. «Riccardo», le parole mi uscirono dalla bocca senza rendermene conto, quando lui si girò capii che non potevo rimangiarmi niente né correre via. «Volevo dirti che, comunque, non sei un pessimo argomentatore. Te la cavi bene.» Aggiunsi impacciata.

Riccardo rise, abbassando un po' il mento. E fui meravigliata nel vedere come le sue labbra si aprivano e mostrarono la linea dritta dei suoi denti, un sorriso contagioso. Alcuni ricci gli caddero sulle tempie. Quella fu la prima volta, invece, che mi sorrise davanti agli occhi, come a sbattermi in faccia qualcosa.

«Direi che me la cavo più che bene.» Provò, sollevando appena il mento, aspettandosi per forza una risposta.

Io feci finta di rifletterci, alzando gli occhi di lato e mordendomi la guancia. «Non mi hai convinta ancora al cento per cento.»

«Sarà per la prossima volta», rispose, per un attimo rimase a guardarmi per intero, quel suo muovere le pupille sul mio corpo scaturì una strana sensazione nel mio stomaco.

«Ci conto.»

«Contaci, principessa», mi fece un occhiolino e dopo si infilò le mani nelle tasche, di nuovo, e proseguì per la strada a capo chino. Forse sorrideva, ma non riuscii a vederlo bene.

Con uno strano sorriso stampato sulla faccia, ritornai a casa sana e salva. A mia sorpresa, ad attendermi a casa era mia zia Ilaria con suo marito, la sorella di mio papà. La piccola Marghe mi sorrise subito, accovacciata all'uscio di casa come se aspettasse proprio me.

Entrai dal portone spalancato con in braccio Margherita, con il ciucciotto in bocca e la testa piegata sul mio collo, sonnecchiava.

Posai il cellulare e le cuffiette arrotolate su se stesse sul tavolo del salotto. Andai dalla nonna in cucina, dove c'era anche mia mamma, Geppa e zia Ilaria.

«Ciao, sono tornata!» Enunciai prima di entrare e trovarmele davanti.

«Ciao, Alba!» Mi sorrise zia, venendo vicino a me con il suo pancione gonfio, e mi diede un abbraccio dolce.

«Come stai? E il piccolo?» Chiesi, accarezzandole il grembo.

«Stiamo bene, tesoro. E che ci fa questa scimmietta qui?» Si rivolse a Margherita, dandole una carezza sulla guancia.

La mamma mi chiese se avessi fatto un'ottima passeggiata, ed io annuii, raccontandole di quanto visto. Parlammo sulle librerie nuove che zia mi consigliò di visitare e io ascoltai attentamente mentre Margherita giocherellava con i miei orecchini.

«Riccardo, a nonna, per favore», sentii Geppa, appoggiata allo stipite della porta che dava alle vigne. Anche mia mamma la guardò. «No, non voglio che tu vada. Torna qua, o ti giuro Riccà che ti faccio finire come tuo padre», si passò una mano sulla fronte, quella sentenza fece voltare anche mia nonna, «Non devi cacciarti in queste cose losche, a nonna, ti prego. Torna qua, mangi qua, ti preparo qualcosa...» ma probabilmente Riccardo troncò il suo discorso.

Geppa, come se avesse sentito il mio cuore battere velocemente, si girò a guardarmi. A guardare proprio me. Mi guardava, ma ascoltava suo nipote: mi accigliai, così come fece lei. Confusa io, confuse lei.

Si schiarì la gola quando vide che tutte la stavamo guardando.

«Sì, Alba è tornata...»

Mia mamma, adesso, fissava me, senza capire, anche zia. Poi Geppa allontanò il telefono fisso, schiacciandoselo sulla spalla; mi fece cenno con la mano di andare verso di lei. Diedi Margherita in braccio a mia zia. «Scusami, vuole un attimo parlare con te.»

«Con me?» Mi indicai.

Lei alzò le spalle, come se non conoscesse manco lei suo nipote. Non più, ormai. Era sconfortata.

Con un sospirò afferrai la cornetta del telefono, arrotolai il dito al filo attorcigliato e mi poggiai allo stipite.

«Pronto?» Risposi, non riuscii a velare la mia preoccupazione.

«Alba, dici a mia nonna che non deve spaventarsi.»

Quella, quella volta lì, fu la prima volta che lui disse il mio nome senza lasciar qualcosa di sottinteso. Come se fossi qualcuno di reale.

«Che è successo?»

«Eh, cose mie.» Era ovvio non me ne avesse parlato, ma io, testarda, continuai.

«Eh, no. Me lo devi dire. È davvero preoccupata.»

«Non è niente, davvero.»

Ragionai, poi guardai dietro di me e con cautela dissi: «Riguarda uno dei tuoi lavori di merda?» Sapevo quale lavoro.

«Alba non è veramente niente. Che cazzo, aiutami un attimo che non posso stare ancora per molto al cellulare.»

«Io le dico quello che vuoi, però a una condizione», iniziai, facendomi sempre più silenziosa.

Lui sospirò, arreso. «Quale?»

«Tra un'ora ce la fai a stare qua?»

«Un'ora?», ripetette, «... non lo so. Devo ancora partire da Ischia, devo arrivare a Forio... ci vuole mezz'ora solo per andare.»

«Non me ne importa. Tra un'ora precisa vedi di stare qua, senza un graffio o altro. Così tua nonna sta tranquilla... e anche io... e anche tutti gli altri», continuai.

«Mi chiedi troppo, principessa. Non sono ancora in grado di volare sulla strada.»

Mi venne da sorridere. «Sono convinta che potrai farcela. Sei un uomo leale?»

«Il più leale che tu possa conoscere.»

«E allora vedi di stare qua tra un'ora», dissi velocemente. «E ora attacca, che stai perdendo tempo.»

«Grazie. Ti devo un altro favore.»

«Poi ci pensi.»

Lo sentii ridere prima di attaccare. Così, con un sospiro riposi il cellulare e sorrisi a Geppa. Sperai di essere convincente e tranquilla.

«Sta qui tra un'ora. È tutto apposto.»

«Come?»

«Sì, sì. Tra un'ora ritorna.» Le sorrisi, provando a convincerla sul serio, e convincere me ancora di più

Presi Margherita in braccio, vicino all'orecchio pronunciai: «Adesso tu mi aiuterai a non pensare a lui»l.» Marghe sorrise.

Cenammo nella quiete della sera. I lampioni gialli a fare luce sulla lunga tavola. Ogni poco guardavo l'orologio e il cancello, mangiai poco e niente.

Chiacchierai con mio zio Flavio, fratello di papà, interessata dal suo lavoro di tipografo e insegnante di arte al liceo artistico. Durante le chiacchiere usuali del dopo cena, con la Luna alta, il rumore del rombo di una moto mi fece voltare quasi di scatto verso il cancello della Villa.

Mia mamma, capendo chi fosse, si alzò per andare ad aprirgli. La sua sagoma scura e ampia scavalcò la moto, non lo vedevo nitidamente per via delle piante in mezzo, ma, quando varcò la soglia del giardino, portava il casco scuro in testa. Gliela copriva tutta, la visiera a coprirgli gli occhiali. Quando se lo tolse, per abitudine, abbassò il viso. Le ciocche bionde rilucerono alla luce fioca e lontana delle lanterne, se le portò dietro con la mano fiacca cosicché il suo viso rinvenisse dall'oscurità. La tensione accumulata mi si snodò dalla cartilagine delle spalle. Mi sentii leggera.

Indossava una canotta nera e il jeans del medesimo colore gli incorniciava i lineamenti spigolosi. Quando i suoi occhi caddero sulla tavola, cercò me e, quando mi trovò, fece la sua solita mossa, una sorta di riverenza con il capo. E, dopo aver riportato l'attenzione su di me rialzando il mento, mi fece un occhiolino veloce.

Si portò i capelli da davanti al viso all'indietro, un gesto meccanico. «Scusate l'interruzione», la sua voce dal vivo aveva tutt'altro effetto di quando gli avevo parlato a telefono.

Guardai nuovamente il mio piatto mezzo pieno, mezzo vuoto, provai a non sorridere. Lo guardai di sbieco avvicinarsi sempre più, in una mano teneva il casco, era grande, sembrava uno che praticasse motociclismo. Si chinò per dare un bacio sulla testa della nonna, di Geppa.

«Brutto disgraziato», Geppa lo guardò riuscii a scorgergli affetto però, sospirò, tuttavia sollevata. «Vieni a mangiare qualcosa, muoviti», lo minacciò quasi, e lui non osò ribattere, poiché sapeva che si sarebbe adirata di più.

Tonio si scusò con noialtri, li seguì dentro casa. Lo sentii pronunciare: «Che cos'hai qua? Che è sto sangue?»

«Non è niente. Stronzate, nonno. Davvero.»

«Tutta colpa di quel maledetto», borbottò, Geppa. Lo disse più volte, come per far sentire in colpa Riccardo.

Riccardo non replicò, si subì la rabbia. Non sentii più niente, solo il rumore del piatto che si riempiva, il rumore della forchetta con cui Riccardo infilzava la pasta.

Mio padre mi lanciò uno sguardo. Sembrava volermi chiedere qualcosa. Io gli sorrisi, però, timidamente e sospirai, poggiai la guancia sul palmo. Osservai Gioele giocare con Marco, figlio di zio Flavio.

«Riccà!» Fu la voce di mio padre, sobbalzai. Lo fissai stralunata. Reclinò il viso all'indietro, per cercarlo oltre lo specchio del vetro della veranda.

Riccardo si affacciò dalla cucina, nella penombra.

«Dopo mica ti dispiace fa 'na partitina a briscola?»

«Elia...», lo rimproverò mia madre.

«No, non mi dispiace.»

«Però t'avverto! So' abbastanza competitivo!», si affacciò anche mio padre, si guardarono ed io guardai entrambi.

Riccardo sorrise, «Non sono da meno.»

«Perfetto, allora.»

Prima che Riccardo potesse cadere nelle grinfie di mio padre, decisi di alzarmi con la scusa di andare in bagno e ma mi recai da lui.

Entrai in cucina in silenzio, quasi in punta di piedi, senza far accorgere niente a nessuno. Riccardo stava pulendo i piatti, si sentiva solo lo scrosciare dell'acqua nel lavandino. Quando mi sentì sedermi sulla sedia, si voltò.

«Sono arrivato in orario?», domandò, chiudendo l'acqua e asciugandosi le mani col panno là vicino.

«No. Hai fatto otto minuti di ritardo», gli guardai le spalle grandi, forti. Mi chiesi se quei muscoli fossero per i lavori che faceva o per qualche allenamento preciso. A me non sembrava manco facesse una dieta speciale per mantenersi così imponente.

«La prossima volta andrà meglio», si appoggiò al bancone di fronte a me, lentamente, scandì i movimenti, le braccia sulla superficie e la schiena chinata. I capelli a scivolargli sulle ciglia.

«Non sei stanco?»

«Tutti i giorni», rispose subito con franchezza, «Ma se mi permettessi di riposare non andrei più avanti.»

«Invece dovresti lasciarti questo lusso di scegliere quando è il momento di staccare la spina e quando quello di spaccarsi il culo», mormorai, sincera.

«Principessa, non sei nelle condizioni di darmi consigli di relax.»

«Penso di esserlo eccome», dissi. Poi riflettei, mentre ci guardavamo nel silenzio della cucina, le voci dei miei familiari ovattate e la luce sopra ai fornelli ad adombrare qualsiasi cosa, a creare giochi d'ombra con gli oggetti della cucina. «Tu non sei abituato ad avere qualcuno che si preoccupi per te, non è così?»

Riccardo abbassò lo sguardo, come se lo avessi letto nella mente. Giocherellò con il bracciale al polso. E fece spallucce, rialzò lo sguardo. «Credo di non saperlo e non voglio, a esse' sincero. Preferisco che gli altri non si preoccupino per me, poi mi sentirei in colpa se mi succedesse veramente qualcosa», spiegò, arricciando l'angolo della bocca, «Per questo ti ho chiesto di riferire a mia nonna che stavo bene. Non si fida di me, però di te si. Sei più importante di me, e io preferisco così. Se non c'è nessuno a preoccuparsi per me, allora non ho niente da perdere.»

Mi resi conto che quei discorsi erano troppo maturi per un ragazzo di soli vent'anni. Mi sembrava un enorme paradosso. Era troppo giovane per avere così tanta moralità, così tanto sulle spalle. La mia curiosità accresceva ad ogni cosa lui mi dicesse.

Io scossi il capo, confusa. «... Ma perché? Non capisco.»

«È semplice: non voglio perdere nessuno e, di conseguenza, non voglio che gli altri perdano me.»

Avrei voluto sapere di più, ma decisi di non chiedergli altro. «Ti avevo detto di tornare senza alcun graffio», mi umettai le labbra.

«Mi sono graffiato mentre cambiavo le ruote della moto», spiegò, guardandosi il piccolo taglio sul braccio.

Io ridacchiai. «Oh, adesso anche meccanico? Mi sorprendi. Domani scoprirò che sei astronauta?»

«Forse sì, forse no», rispose, vagamente.

Abbassai lo sguardo, guardandomi le mani. «A mio padre piace molto giocare a briscola, ti conviene non deluderlo», lo avvisai.

«Tranquilla, sono bravo con le carte», mi sorrise.

«Me lo auguro. Usa il gioco della briscola per chiacchierare, la sua tecnica è quella delle domande a trabocchetto. Quindi se ti fa delle domande strane è per destabilizzarti e farti deconcentrare», gli confessai.

«Allora cercherò di stare il più concentrato possibile», si alzò da quella posizione scomposta, sgranchendosi la schiena. Così facendo la parte più bassa del ventre venne esposta involontariamente, intravidi dei muscoli che nemmeno sapevo potessero svilupparsi. «Però tu dovrai stare lontana», si ricompose.

«Cosa? No», risi, «Devo vedere mio padre che ti fa il culo a strisce», dissi con orgoglio.

Lui rise, negando con il capo. «Io non ne sarei così convinta. Ti conviene stare lontana almeno un metro, sei un oggetto di distrazione», mormorò.

E di nuovo, quella sensazione dritta nello stomaco, come un tornado a mischiarmi intestino, fegato e appendice, facendomi male ma anche bene.

Allora sorrisi, maliziosa. «Motivo in più per starti incollata. Sarò una palla al piede.»

Riccardo alzò le sopracciglia, poco convinto e abbastanza soddisfatto dalla mia provocazione. Allora decisi di salutarlo con un inchino. Con un sorriso mi recai nuovamente in giardino.

Riccardo arrivò poco dopo.

Stavano tutti ridendo e scherzando ad alta voce. Papà già aveva in mano il pacchetto di carte. Mio nonno Pietro aveva lasciato il suo posto per darlo a Riccardo che tanto se stava andando. Zia Ilaria anche se ne stava andando, era stanca e Margherita stava per prendere sonno.

Quando salutò Riccardo scoprii che i due già si conoscevano. "Ischia è piccola" disse papà, forse a rispondere a quella mia espressione sorpresa sul viso. Parlarono per qualche secondo prima di congedarsi.

E mentre loro cominciarono a giocare in egregio silenzio, a farmi compagnia rimase mia madre. Gioele si alzò dal suo posto e si intrufolò sulle gambe di Riccardo, quest'ultimo nascose un sorriso tronfio.

«A papà, ma da che parte stai?», rise in silenzio. Guardai Riccardo sotto una finta aura di indifferenza. Era strano che Riccardo stesse così a cuore a Gioele.

La partita cominciò a dilungarsi di molto. Decisi di alzarmi e andarmi a sedere vicino a mio padre.

Guardai le carte di papà. Poggiai la guancia sulla sua spalla, e dissi, come una minaccia: «Secondo me stai barando, comunque.»

Riccardo alzò lo sguardo su di me, contemporaneamente sollevò le sopracciglia. «Io non credo», rispose.

«Io credo di sì», ribattei ancora.

«Alba, lasciali giocare in pace», disse Gioele.

Feci una faccia infastidita. Dunque sospirai, mi lasciai cadere sullo schienale della sedia come una pezza spremuta.

Papà gli aveva già fatto le domande più strane che potesse mai tirar fuori. Dal primo animale domestico, all'ultima volta che aveva fatto pipì in una piscina.

«Papà posso farti il cambio?» Chiesi, d'un tratto.

«Vuoi continuare al posto mio?»

«Sì. Vai a dormire, tanto non credo che Riccardo penserà che non sei abbastanza competitivo», guardai Riccardo e lui annuì per assicurarlo.

«E va bene, ma te lo concedo solo perché sei mia figlia e perché sto morendo di sonno», mi passò il mazzo.

Mia madre si alzò assieme a mio padre. Lo aspettò all'entrata, stava sorridendo. «Se vi foste conosciuti quando era giovane, probabilmente sareste diventati amici. Solo che mio marito è troppo orgoglioso per ammetterlo», mormorò mia madre, rivolta a Riccardo.

«Amore, non mettermi in ridicolo», papà le diede un bacio sulla fronte e le circondò le spalle con il braccio.

«Buonanotte ragazzi, non fate troppo tardi», ci raccomandò la mamma. «Lele, su, è tardi anche per te amore. Domani è un altro giorno», gli allungò la mano.

Gioele annuì, «Ciao, Ricki, io tiferò per te dal mio letto.»

«Traditore», dissi sottovoce.

«Grazie campione», Riccardo gli scompigliò i capelli.

«Buonanotte, Alba. Ti voglio bene», mi sorrise, assonnato.

«Ti voglio bene», gli risposi.

Rimanemmo solo noi due, nel silenzio religioso della notte, le cicale di sottofondo e le stelle a fissarci.

«Allora...», dissi, accavallando le gambe e guardandolo da dietro il mazzo di carte. «Ti costerà questa partita con me, lo sai?»

«Con te, a quanto pare, ha tutto un costo», rispose, fissando le mie ginocchia accavallate e il perimetro delle cosce segnato.

«Non sono mica una facile io, eh. Cosa ti aspettavi? Che ti facessi vincere su due piedi?»

«Non mi permetterei mai di pensarlo», alzò le mani.

«Perfetto, allora ti conviene farmi capire se sei un bravo giocatore, oltre che bravo argomentatore. Se devi vincere, devi vincere bene e ti devi meritare la vittoria.»

«Sei competitiva quanto tuo padre?»

«Di più.»

«Giochi sporco?»

«Sporchissimo, ma dipende», sorrisi.

«Adesso mi sembri tu quella egocentrica e narcisista.»

«Il giusto», sospirai e buttai una carta.

Riccardo fissò la carta e gli spuntò un sorriso sbilenco, guardò il suo mazzo e ne buttò un'altra.

«Dimmi un po'...», mormorai, mettendo un'altra carta, «Te non scopi da molto, eh

Riccardo parve folgorato da quella domanda così improvvisa. Alzò subito lo sguardo su di me. Appoggiò i gomiti sul tavolo e si morse la guancia, «Cosa te lo fa pensare?»

«Sono un'ottima osservatrice», lo incitai a buttare una carta. «Non hai alcun portafoglio dietro. Niente portafoglio, niente preservativo.»

Lui rise, dopo aver buttato una carta. «Osservazione stupida. Fortuna che ci sei pure salita nella mia macchina», guardai la carta, sbuffai. «Non ho una casa fissa, principessa, e ti stupirei se ti dicessi che, nel sedile su cui sei stata seduta tu, sono avvenuti i migliori orgasmi che una donna potesse avere.»

Lo guardai da sotto le sopracciglia, mi mordicchiai il labbro. Leggermente distratta. Non sapevo che carta buttare, e nemmeno che cosa rispondere. Mi aveva colta di sprovvista, e il mio cuore aveva preso a battere precipitosamente, come un tamburo impazzito.

Riccardo fu compiaciuto del mio silenzio, e mentre aspettava una mia carta, si accomodò meglio sulla sedia, pareva avesse già vinto. Mi osservò come un cane in guardia, «Giochi proprio sporco, principessa, non me l'aspettavo da te.» Lo disse con fare compiaciuto, però.

«Mi sottovaluti troppo.»

«Sai, invece tu mi sembri proprio una di quelle che non è mai stata a letto con un uomo serio, e probabilmente non sai nemmeno come si raggiunge l'orgasmo. Oppure mi sbaglio, Alba

«Innanzitutto, non sono una di quelle. E poi ti sbagli, ovviamente.»

Ma Riccardo sospirò ad alta voce, rumorosamente, come in disaccordo. Negò con il viso. «Ma io non ti credo. E ci credo che hai fatto sesso, principessa. Una come te non può non aver mai portato a letto un uomo, sei troppo furba e brava con le parole. Al contrario, credo che nessuno degli uomini con cui hai dormito sia stato all'altezza del tuo corpo. Ti sei sprecata per cazzi che non ti meritavano nemmeno un po'.» Lo disse arricciando il labbro superiore, che gli portò ad arricciare il naso.

Usa le mie stesse carte. Sta facendo il mio gioco.

Lo guardai, lo osservai bene. Anche lui era bravo con le parole. Lo era eccome. E mi stava facendo contorcere, mi stava trafiggendo nello stomaco, un dolore masochista che avrei voluto provare ogni volta che un uomo mi avrebbe parlato. Avrei voluto sentirmi sempre in quella maniera quando qualcuno mi parlava, e basta.

«Hai ragione, la penso alla stessa maniera», sospirai. «Però li capisco, se mi vedessi da qualche parte e avessi un apparato maschile, allora mi ecciterei anch'io, e non poco», sorrisi, «E spero che le tue belle donne si siano sentite soddisfatte nel tuo letto... o nella tua macchina.»

Decisi di buttare una carta che mi avrebbe fatto vincere sicuramente. Ma lui ancora non lo sapeva.

«Non ti preoccupare per loro. Non sono mai state mie veramente, nessuna di loro. Però ti posso garantire che non se ne sono mai andate insoddisfatte.»

«Lo spero. Il corpo della donna può essere sottinteso, può lanciare segnali sbagliati. È illusionistico

«Ne ho visti tanti di corpi, Alba. Credo di saper apprezzare qualsiasi corpo e qualsiasi forma esso abbia, so quanto illusionistico può essere», mormorò, la sua voce a entrarmi nello stomaco, a inchiodarsi negli angoli viscerali della mia anima. Qualcosa dentro di me si smosse violentemente.

Buttai l'ultima carta. Poi sorrisi.

«Bene, Riccardo, ti conviene cercarti una bella donna per stanotte, perché la tua sconfitta non sarà facile da mandare giù», mi alzai dal mio posto, poggiai il mazzo sulla tavola.

Riccardo fissò l'ammasso di carte sul tavolo. Sorrise e scosse il capo. Sospirò, e buttò il suo di mazzo, consapevole di aver perso.

Si alzò, sovrastandomi nella sua altezza. Senza neanche toccarmi, sentii il suo tocco ovunque. «La prossima volta giocherò sporco quanto te.»

«Quante sconfitte dovrai subire, allora.»

«Non vedo l'ora», calcò attentamente. «La prossima volta, però, giochiamo come dico io.»

«Non vedo l'ora», sorrisi falsamente.

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