Tecum

By azurahelianthus

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#2 VOLUME DELLA SERIE CROSSED PATHS "𝐿𝑒𝑖 π‘’π‘Ÿπ‘Ž π‘Žπ‘›π‘π‘œπ‘Ÿπ‘Ž π‘’π‘›π‘Ž π‘›π‘œπ‘‘π‘‘π‘’ π‘ π‘’π‘›π‘§π‘Ž 𝑠𝑑𝑒𝑙𝑙𝑒 𝑒... More

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I.
II.
III.
IV.
V.
VI.
VII.
VIII.
IX
X.
XI.
XII.
XIII.
XIV.
XV.
XVI.
XVII.
XVIII
XIX.
XX.
XXI.
XXII.
XXIII.
XXIV.
XXV.
XXVI.
XXVII.
XXVIII.
XXIX.
XXX.
XXXI.
XXXII.
XXXIII.
XXXIV.
XXXV.
XXXVI.
XXXVII.
XXXVIII.
XXXIX.
XL.
XLII.
XLIII.
XLIV.
XLV.
XLVI.
XLVII.
XLVIII.
XLIX.
L.
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𝐔𝐍𝐀 𝐋𝐄𝐓𝐓𝐄𝐑𝐀 𝐏𝐄𝐑 𝐓𝐄
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XLI.

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By azurahelianthus

Lo riconoscevi l'amore vero quando si presentava alla tua porta. Riusciva ad entrare anche con mille giri di chiavi, anche con la serratura più sicura, anche con un codice criptato e inventato da un hacker, e ti stravolgeva la vita. Si prendeva il tuo cuore in mano, lo strizzava, ci giocava e lo faceva sanguinare, ma solo per avere la possibilità di curarlo da tutti gli altri tagli che ti erano stati fatti, in silenzio e di nascosto.

All'amore, io, non ci avevo mai creduto. Non finché non avevo incontrato un paio di occhi caldi come il sole e profondi come la notte, un profumo dolce come il miele e delle carezze così delicate da ripararmi. Ho capito solo dopo di averlo amato, di amarlo e di essere destinata ad amarlo per l'eternità.

Più o meno quando cercavo pezzi di lui in luoghi in cui sapevo che non ci sarebbe mai stato, per vivere sempre con la speranza di incontrarlo di nuovo. Con la speranza di innamorarmi di lui un'altra volta, come la prima volta. 

L'ho ricapito quando mi ha aiutato senza dirlo, quando si è sacrificato per salvarmi, quando ha lasciato che lo odiassi, quando mi ha portato a tatuarmi, quando mi ha disegnato delle costellazioni sulla schiena, evidenziando le mie cicatrici, o quando si è fatto dare le chiavi dell'auto da Melville per accompagnarmi a rifare le unghie. 

"Le cose che a noi sembrano superficiali, per altri sono tutto. Ci sono cose semplici, superflue quasi, che ci rendiamo conto di quanto sono essenziali solo quando vengono a mancare", aveva detto oggi. "Credo che avere le unghie curate per te sia una di quelle cose. Una di quelle che ti fa sentire più te stessa". 

Quando ero uscita dall'estetista con le mie nuove amate unghie lunghe, del solito bordeaux che amavo e con una forma a mandorla, che lui chiamò "da strega", mentirei se dicessi che non mi ero commossa. 

Un paio di piccole gocce erano uscite dal mare nei miei occhi ed io mi ero vergognata di me stessa, ma lui, come sempre, le aveva bevute una ad una come un elisir e poi mi aveva guardato con stima assoluta. "Ho sempre voluto bere le tue lacrime nella speranza di vedere il mondo nello stesso modo in cui lo guardi tu", aveva sussurrato. 

Mi aveva portato in un bosco poco lontano dall'orfanotrofio, accessibile e isolato, poiché privo di sentieri e difficile da raggiungere per gli umani. Si era seduto su un tronco tagliato a metà e mi aveva disposto nel suo grembo, quasi come una bambina, godendosi le carezze delle mie unghie sulla sua nuca. Ora sorridevo perché avevo capito il motivo per cui aveva scelto questo posto e questa posizione. Lo avevamo già fatto, anni prima, poco dopo la mia lunga conversazione con Adar e Astaroth. 

«Dimmi la verità, demoniaccio...». Sorrise a quel soprannome. «Perché mi hai portata qui?».

Mi osservò da vicino, con il mento posato sulla mia spalla e le braccia strette attorno alla mia vita. «Anni fa, in un posto simile a questo, tu mi stavi lasciando andare. Mi stavi estirpando da dentro di te come una radice velenosa, lasciando scorrere via il veleno attraverso delle lacrime invisibili, con le spalle scosse da singhiozzi. Credo che sia stato quello il momento in cui hai capito di dovermi lasciare andare, proprio fra le mie braccia».

«Sì, mi ricordo molto bene». Se mi concentravo sui ricordi, riuscivo ancora a sentire il mio stesso cuore spezzarsi e la mia cassa toracica inondarsi di quelle lacrime che non potevo fare uscire.

Alzò il palmo della mano verso di me e dalle sue dita uscirono degli sbuffi di fuoco, un po' rossi e un po' blu. Era diventato davvero bravo a invocare Ignis e a controllarlo, come a domare Anemoi e Fermentor. Lo si vedeva dai cambi climatici non più repentini e adatti alla stagione in cui ora ci trovavamo. «Ora credo sia arrivato il momento di lasciare andare loro».

Sapevo a chi si riferisse con "loro": i miei, ormai suoi, poteri. Coloro che mi avevano accompagnato dalla nascita, così come segnato, poiché erano il motivo per cui tutti mi volevano. Il motivo per cui mio padre mi aveva insegnato tutto ciò che sapeva sull'autodifesa, il motivo per cui Erazm mi aveva protetto per anni, o ancora, il vero motivo per cui mia madre era morta. Inutilmente, direi, perché ora io quei poteri non li avevo più, ma lei non era comunque qui. Non sarebbe mai più tornata. 

«È che ho passato una vita intera a sacrificarmi, sacrificando anche gli altri, per poi perderli per sempre. Non me ne pento, sia chiaro, ti ridarei i miei poteri a costo di tutto. Anche se dovessi rinascere mille volte, mille altre sarebbero le volte in cui avrei scelto di donare a te i miei poteri perché lo sapevo, lo sentivo, che nessuno sarebbe stato più adatto di te. Ma a volte mi guardo lo specchio e mi sento in colpa...». Mormorai tremante. «...a pensare che la gente ha perso così tanto per due motivi che c'entrano con me, la mia nascita e la mia morte».

Mi osservò sbigottito, ma poi si schiarì la voce e tornò normale. «Hai detto che la tua scelta era scritta nel destino e che non potevi sottrarti, quindi non credo sia colpa tua. Credo, piuttosto, che tu abbia fatto tutto quello che hai fatto per dare un futuro migliore a tutti noi. E alla fine dei conti, il tuo gesto eroico è stato anche ripagato, no? Guardaci ora. Forse non c'è, nella nostra vita, tutto ciò che desideriamo, ma c'è ciò che amiamo».

«Lo credo anch'io. Credo anche... di aver lasciato andare da tempo tutta questa situazione. Sono fiera che sia tu ad avere i miei poteri perché so che saranno al sicuro per l'eternità, fra le mani di una persona che non ha mai fatto nulla di male se non per costrizione altrui. Era ciò che volevo e va bene così». Giocherellai con le unghie.

Mi agguantò il mento fra le dita e mi costrinse a guardarlo. «Lo sai, vero, che non sono le tue capacità fisiche o le volte in cui riesci a resistere sull'orlo delle lacrime a renderti debole. Lo sai che non è così, perché sai che è la tua mente che decide chi e cosa sei, vero?». 

«Da quando sto con te lo so». Sussurrai in risposta. 

Sapeva leggermi nella mente anche ora che non c'era più nessuna porta a collegarci, nessun ponte e nessun filo, forse perché effettivamente non serviva. Forse perché quando si ama è così che va: io ti conosco meglio di te e tu mi conosci meglio di me, perché ti amo più di quanto ti ami tu e mi ami più di quanto mi ami io. Era il mio fatum, in fin dei conti, e io non lo avevo mai dimenticato, l'avevo solo nascosto in un cassetto del cuore. 

«Devo dirti una cosa». Dissi dopo un po', quando lui ormai aveva chiuso gli occhi e si era abbandonato alle mie carezze. Infatti, aprì un solo occhio e con esso mi guardò sospettoso. «Sai che tutti gli dei hanno qualcosa di cui "occuparsi", no?».

Aprì anche l'altro. «Spero tu non sia la dea del sesso, flechazo, perché che io sappia gli dei lavorano per tutti e non solo per una persona, specie se quella persona è un demone, quindi, per quanto possa farmi piacere da una parte, dall'altra sono molto preoccu-». 

Lo zittì con una mano sulla bocca e ridacchiai quando mi leccò il palmo con un'espressione ammiccante. «Non sono la dea del sesso, Dan».

«Allora chi sei?». Mi osservò confuso e a me venne da ridere, ma dovetti trattenermi. 

Mi morsi le labbra per nascondere un sorriso. «Sono la dea del fato, amore mio. Per essere più precisa, sono la dea del fatum».

«C-che significa?». Mi guardò più confuso di prima. 

Sorrisi. «Che io posso vedere il filo che collega un'anima all'altra. Sono l'unica che conosce le coppie che sono fatum e l'unica che può intromettersi, spezzando il filo se necessario, ma solo se il futuro di uno dei due soggetti non verrà intaccato. Se soffriranno tutti e due, allora non sono autorizzata ad intromettermi e loro troveranno da soli il modo di farcela insieme».

«Quindi...». Mi fulminò. «Tu hai sempre saputo che anche questa volta eravamo destinati l'uno all'altro. Che ero sempre il tuo fatum, come tu il mio». 

Annuii colpevole. «Per questo ti odiavo. Diamine, sono morta e poi sono risorta, ho passato le pene dell'inferno e sono stata lontano per anni, ma tu comunque eri ancora il mio fatum e lo saresti stato per sempre. Ma credo che entrambi lo sapessimo già... il legame di fatum va oltre la morte, oltre le ferite e il dolore. Prima non si spezzava mai, ora...».

«Ora tu puoi controllarlo. Allora perché non hai spezzato il nostro di filo, se mi odiavi così tanto e l'idea ti faceva ribrezzo?».

Mi strinsi nelle spalle e abbassai lo sguardo. «Perché ti ho amato dal primo istante e lo sapevo, ma non volevo accettarlo per nulla al mondo perché farlo lo avrebbe reso più reale. E poi perché non potevo. Se avessi osato spezzare il nostro filo avrei avuto conseguente molto gravi, perché avevo già visto che io senza di te sarei impazzita e tu senza di me non eri in grado di stare. E questo era ancora più frustrante».

«Hai mai... spezzato il filo di qualcuno, Arya?». Mi fissò preoccupato.

Una lacrima mi solcò la guancia e lui la prese con la bocca. «Qualche giorno fa, Dantalian, e il senso di colpa mi sta facendo a pezzi, ma non avevo altra scelta. Era il mio compito, non potevo fare altro».

«Flechazo, per quanto ora possa far male a Med ed Erazm, se hai dovuto farlo è perché nel loro caso fa più male trattenere la corda piuttosto che lasciarla andare. I loro palmi ora fanno male, bruciano e sono feriti, ma un giorno le ferite guariranno e potranno tenere nuove cose fra le mani, cose che non faranno più male». Mormorò, accarezzandomi i capelli con la sua solita delicata dolcezza. 

Dischiusi la bocca. «Come hai capito che-».

«Che parlavi di loro?». Mi sfiorò la guancia. «Perché sono gli unici che non hanno la forza necessaria a superare il dolore. Ormai sono stati superati e lo sappiamo tutti, Arya, lo vediamo che la fine per loro è arrivata. Ma noi sappiamo anche la fine non è sempre qualcosa di brutto, vero?».

Annuii, sentendomi un po' meglio. «La fine segna sempre l'inizio di qualcos'altro».

Una risata dolce e delicata, che non proveniva da nessuno dei due, ci arrivò alle orecchie come un rumore lontano. Se fossimo stati umani di certo non avremmo potuto sentirlo. Ci alzammo curiosi e bastò una sola occhiata fra di noi per capire che avremmo fatto la stessa cosa.

Iniziammo a camminare velocemente, usufruendo della velocità non umana, e in pochi minuti ne trovammo la fonte. C'era un bambino biondo e vestito con una salopette di jeans comodamente seduto a terra, dove si trovavano molti rami, foglie ed erba poco pulita. Non c'era nessuno da lui, a parte noi, ma era impossibile che fosse arrivato lì da solo. 

Eppure lui rideva di cuore, stringendo fra le piccole ditina l'erba verde e quasi godendo della freschezza di essa, con i capelli resi più chiari dai raggi del sole che trapassavano gli alberi e gli occhi scuri felici, felici delle piccole cose come solo un bambino sapeva esserne. 

Dantalian si avvicinò cautamente. «Moccioso, dove sono i tuoi genitori?».

«Non chiamarlo moccioso!». Gli mollai uno schiaffetto sulla spalla. 

«Io chiamo tutti i bambini mocciosi». Si strinse nelle spalle e cercò di vedere se il bambino avesse addosso qualche tipo di riconoscimento, ma nel farlo lui gli agguantò il dito con il suo, decisamente più piccolo, tanto da non riuscire neanche a farne il giro completo, e cominciò a scuoterlo come se fosse un giocattolo. «Ehi, moccioso, non sono un cazzo di giocattolino da mocciosi!».

Alzai gli occhi al cielo e presi il bambino in braccio, per toglierlo dalle possibili malattie che avrebbe potuto beccarsi. «Non è così grande da risponderti e neanche per capirti probabilmente, idiota».

Il bambino, come se fosse attratto da lui, si sporse verso il suo corpo con le manine per toccare qualche tatuaggio. Dantalian, schifato, si tirò subito indietro e storse il naso. «Non mi piacciono affatto i bambini».

«Mi pare che tu piaccia tanto a lui invece». Mi trattenni dal ridere, mentre il bambino poggiava la bocca sull'avambraccio di Dantalian bagnandolo di saliva, ma non ce la feci più quando lui lo fulminò con lo sguardo e gli allontanò la testolina, seppur molto delicatamente, con un'espressione ancora più schifata.

Delle voci con un dialetto palesemente italiano urlarono più volte un nome, avvicinandosi sempre di più a noi. «Dan!».

«Che ho fatto?». Si guardò attorno preoccupato. 

Scoppiai a ridere. «Credo stiano chiamando il bambino».

«Oh Dio, grazie per trovato il nostro bambino! Abbiamo delle tende poco lontane da qui e ad un certo punto Daniele non c'era più». Una donna dai capelli biondi come il bambino si avvicinò quasi correndo, parlando in un italiano perfetto. 

Annuii. «Ecco a te, l'abbiamo sentito ridere e lo abbiamo trovato qui». Il mio italiano era perfetto, perché tutti gli dei e tutti i demoni sapevano ogni lingua come se fosse la loro madrelingua. 

«Siete italiani?». Si avvicinò anche il padre, un ragazzo dai capelli rossicci e il fisico atletico, e Dantalian, geloso come sempre, mi passò un braccio attorno alla vita.

Inclinai la testa. «No, ma lo sappiamo parlare abbastanza».

Il principe al mio fianco li fulminò entrambi e strinse la presa sulla carne dei miei fianchi. «Fossi in voi mi preoccuperei di più del moccioso che avete fra le mani. Avrebbe potuto farsi molto molto male, prendere delle malattie, essere sbranato da un orso, essere rapito da un pedofilo o ancora peggio-».

«Hanno capito!». Lo bloccai con un sorriso imbarazzato.

La donna sorrise e osservò il bambino. «Sì, ci staremo molto più attenti. Grazie di cuore per averlo salvato!». Prese la manina di suo figlio e la mosse. «Dì ciao!».

Il bambino, spontaneamente, ci mandò dei baci volanti con la mano ed io ricambiai subito, sorpresa di vedere Dantalian fare lo stesso con un sorriso sulle labbra. Quando si furono allontanati abbastanza, si girò di scatto e si fissò il punto dove il bambino aveva poggiato la bocca, prendendo una foglia da terra. 

«È in questo momento che mi manca Vepo». Borbottò, pulendosi con la foglia appena raccolta e fulminando la tasca dei suoi jeans quando iniziò a vibrare a causa di un messaggio sul cellulare. «Vedi chi è, per l'amore di tutti i demoni presenti, porco...». Iniziò a bestemmiare a non finire.

Frugai nella sua tasca anteriore e quando agguantai il suo telefono lo tirai fuori, alzando gli occhi al cielo causa della necessità del pin. «Qual è il tuo pin?».

«31517116».

Confusa lo inserii e persi di vista la domanda quando notai una mia foto come schermata home, una che non sapevo neanche mi avesse fatto, dove mangiavo delle fragole e ridevo chissà con chi. Non era recente, affatto, ma era bellissima poiché spontanea. 

Poi venni distratta di nuovo dal messaggio che spuntò quando cliccai la casella dei messaggi e mi morsi le labbra per non mostrare la risata che stavo trattenendo, ma Dantalian sembrò notarla perché mi dedicò una minacciosa occhiataccia. «Perché ridi adesso?».

«Perché ti ha scritto che domani sarà l'anniversario di tutte le coppie dell'Èlite e che quindi andranno a festeggiare fuori, di conseguenza né Honey né Rica né Samir potranno occuparsi di Amaya e Damian quindi... tocca a noi due. E dice di "non frantumargli i coglioni"». Scoppiai a ridere fragorosamente. 

Bestemmiò volgarmente. «Ho detto proprio poco fa che odio i bambini, cazzo!». Volse lo sguardo al cielo e sospirò frustrato. «Tu mi stai prendendo per il culo, non è vero? Ti diverti a farmi soffrire, Dio, perché sei un bastardo di merda!».

«Amore...». Ridacchiai.

Non mi guardò neanche. «Scusami, tesoro, ma ho bisogno di inveire contro il tuo capo in questo momento».

«E io ho bisogno di chiederti una cosa». Si girò a guardarmi e aspettò che ponessi il mio quesito. «Perché hai scelto quel pin? Che significa?».

Assunse il suo classico sorrisetto. «È una parola, in realtà. Una parola in codice, dove ogni lettera appartiene ad un numero in ordine cronologico, quindi la A è 1, la B è 2...». Ripeté il numero, scandendo meglio i numeri, così da farmi capire. «3-1-5-17-1-16». 

Ci ragionai. 3 era la C, 1 era la A, 5 era la E, 17 era la S, di nuovo A, e per ultimo, 16 era R. 

Il suo pin era Caesar. L'insalata Caesar, ciò che ci aveva fatti incontrare, anche se lui mi cercava già da tempo, ma aveva iniziato ad amarmi senza sapere ancora che io fossi "quella lei" che stava cercando. 

Senza pensarci due volte, posai la mano sul retro della sua nuca e lo tirai a me, scontrando le mie labbra con le sue. Emise un verso sorpreso il primo secondo, ma dopo poco stava già ringhiando come un affamato, stringendomi i fianchi e portandomi ancora più vicina a lui, come se si potesse essere più incollati di così. 

«Baciami sempre, Dantalian». Mormorai. 

Sorrise. «Non posso promettertelo, Tiam».

«Perché?». Mi tirai indietro allarmata, ma il suo sorriso non si spense, e anzi, si allargò ancora. Il suo sguardo si addolcì, mentre mi carezzava la guancia con il dorso della mano.

«Perché non posso dirti che sarà per sempre, non ti farei mai qualcosa che non vuoi. Ma posso dirti...». Mi sussurrò sulla bocca, leccandomi il labbro inferiore. «..che ti bacerò finché vorrai le mie labbra su di te».

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