E il tempo scivola via

By Maschera_di_fumo

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Premessa
Playlist
Dedica
Prologo
[...]
Capitolo 1
Capitolo 2
Capitolo 3
Capitolo 4
Capitolo 5
Capitolo 6
Capitolo 7
Capitolo 8
Capitolo 9
Capitolo 10
Capitolo 11
Capitolo 12
Capitolo 13
Capitolo 14
Capitolo 15
Capitolo 16
Capitolo 17
Capitolo 18
Capitolo 19
Capitolo 20
Capitolo 22
Capitolo 23
Capitolo 24
Capitolo 25
Capitolo 26
Capitolo 27
Capitolo 28
Capitolo 29
Capitolo 30
Capitolo 31
Capitolo 32 (Prima parte)
Capitolo 32 (Seconda parte)
Capitolo 33 (Prima parte)
Capitolo 33 (Seconda parte)
Capitolo 34 (Prima parte)
Capitolo 34 (Seconda parte)
Capitolo 35
Capitolo 36 (Prima parte)
Capitolo 36 (Seconda parte)
[...]
Capitolo 37
Capitolo 38
Capitolo 39
Capitolo 40
[...]
Epilogo

Capitolo 21

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By Maschera_di_fumo

La campanella, che segnava la fine delle lezioni del mattino, era appena suonata. Gli studenti potevano finalmente pranzare nella mensa scolastica. Se doveva dire la verità, non aveva fame. Si sarebbe volentieri risparmiato quel “rituale” della scelta del tavolo, suddiviso stereotipatamente in scale sociali. Voleva evitare di sedersi vicino a Christopher, che era uno dei ragazzi popolari, avrebbe attirato l'attenzione più del dovuto. Solitamente non gli importava dell’opinione altrui, ma da quando il suo corpo era cambiato, aveva perennemente il viso pallido, era dimagrito così tanto, aveva paura che qualcuno capisse che lui aveva il cancro. Per non parlare degli occhi ancora rossi dall’attacco in bagno. Si guardò intorno con l'intento di svignarsela ma, una voce familiare che lo chiamava, gli sottolineò che era troppo tardi.

«Vick, com'è andata a lezione?» White lo affiancò sorridente mentre il teppista cercava di evitare di il suo sguardo. Price aveva ammesso, davanti a Duke, per la prima volta ad alta voce, che lui gli piaceva e il trovarselo lì, lo aveva al quanto destabilizzato. Era come se tutto diventasse molto più reale, tangibile. Aggrottò la fronte e lo fermò per un braccio, «Stai bene?»

«Sto bene mamma chioccia», lo schernì prima che Chris gli prendesse il viso tra le mani ed incrociasse, finalmente, lo sguardo con il suo.

«Hai gli occhi rossi, che ti è successo?» chiese apprensivo.

«Mi sono fumato una canna in bagno», alzò un lembo della bocca formando un sorrisetto irritante, «Qualcuno potrebbe vederci, sai?»

Adesso che glielo aveva fatto notare, i loro visi erano vicini tanto che il respiro dell’azzurrino gli accarezzava delicatamente il volto. Sussultò per poi guardarsi in torno in cerca di Ellen. Non vi era più nessuno nei corridoi. «Non mi importa. L’unica cosa in cui non mi sento pronto è dirlo alla mia famiglia».

Sgranò gli occhi, basito. Daniel si vergognava di lui e della loro relazione mentre, al biondino, anche se non erano fidanzati, non importava nulla. Quindi era vero che lui non si vergognava? Non ci era abituato.

«Sei bravo a cambiare discorso, cosa ti è successo?»

«Ho avuto un attacco di tosse in bagno, contento?» si arrese distogliendo lo sguardo, per poi riportarlo su quelle iridi color miele, così dolci. Con il pollice gli accarezzava una guancia, delicato. Poteva davvero lasciarsi andare? Poteva davvero farsi vedere debole? Non poteva sapere la risposta, ma ne aveva bisogno. Poggiò la fronte sulla sua, chiudendo gli occhi. «Sono stanco», sussurrò flebile per poi sollevare le palpebre.

«Vorrei tanto fare di più», si morse il labbro inferiore prendendogli le mani tra le sue.

Price avvicinò la bocca alla sua, negli occhi aveva una scintilla diversa. Le iridi azzurre come il fondo dell'oceano gli impedivano, se solo avesse voluto, di distogliere lo sguardo. Magnetici. Le labbra del teppista si unirono a quelle del biondino. Quel bacio a stampo era diverso, non solo perché per la prima volta era stato Vick a prendere l'iniziativa, ma perché era devastante come la prima volta, in quell’appartamento, soli. Gli sembrava di toccare il cielo con un dito. Quel bacio, così breve, così fugace, sembrava fosse durato così a lungo ed allo stesso tempo così poco.

«Stai già facendo troppo», sussurrò a fior di labbra, accarezzandole con le sue, al pronunciare quella frase.

Christopher si staccò lentamente, come se si stesse sforzando di farlo. «Devo dirti una cosa».

«Prevedo guai», alzò un sopracciglio.

«I miei amici sanno che mi piaci», Victor spalancò gli occhi, «E sanno della tua malattia».

«Che?»

«Mi dispiace non avertelo detto prima, non c'è stata occasione. La Chemio, le visite…»

Il silenzio invase i successivi minuti mentre gli sguardi, abilmente, sfuggivano. «È andato tutto bene quando glielo hai detto?»

«Si, e mi hanno anche coperto con i miei quando sono rimasto di più in ospedale».

Il ragazzo annuì, «Sei fortunato».

«Già», sorrise guardandolo, «Andiamo?»

«Non ho molta fame», ammise riprendendo a camminare con il ragazzo. Stava facendo finta di niente?

«Il medico ha detto che devi mangiare, sei sottopeso e ti sei indebolito».

«Tutti non fate altro che ripetermelo, anche mio zio questa mattina mi ha forzato a fare colazione», sbuffò seccato varcando la soglia della mensa.

«Quindi dovrò costringerti a fare pranzo», constatò, «Dovrò imboccarti? Preferisci l'aereoplanino o il trenino?»

«Che domande, la macchinina», si guardarono per poi scoppiare a ridere.

§

Tornare in mensa era stato strano, l'ultima volta che vi era entrato era stato con Daniel. Un sorriso amaro sbucò sul suo volto, fugace. Era buffo come quel luogo, che continuava a frequentare, era pieno di ricordi con il suo ex fidanzato. Quante volte lo aveva visto provarci con la bella ragazza di turno? Sospirò pesantemente mentre seguiva White al suo solito tavolo.

«Dean, Josh», li salutò sedendosi, «Oggi Vick mangia con noi».

Il teppista si limitò a fare un gesto con il capo e sedersi, incominciando a giocare con il cibo nel piatto. Solo guardandolo gli veniva la nausea.

«Ci sono nov- » provò ad iniziare una conversazione, ma fu interrotto sul nascere dalla sua mogliettina pettegola Dean.

«Price, ho saputo di te e mio fratello», il suo interlocutore alzò lo sguardo dal piatto ed aggrottò la fronte, poi sgranò gli occhi come se avvesse preso coscienza solo in quel momento. «Me lo ha detto lui», aggiunse.

«Quindi ha iniziato ad accettarsi, buon per lui.» dal suo tono di voce sembrava non gli importasse. Anche se voleva fare l'indifferente, la verità era che si sentiva frustrato. Sapeva che il fratello lo avrebbe accettato, avrebbero potuto evitare di fingere almeno davanti a lui, eppure aveva dovuto tenersi alla larga anche quando il fratello minore era nella stanza accanto perché poteva scoprirli.

«Volevo chiederti scusa», finalmente gli occhi azzurri incrociarono quelli cerulei di Mcdaniel.

«Per cosa?» domandò confuso.

«Per quello che ti ha fatto mio fratello, non me ne sono mai reso conto».

«Non è colpa tua, tu non sei tuo fratello», punzecchiò la pietanza con la forchetta, «Non devi scusarti».

«Sappiamo anche che piaci a Chris», s’intromise Lloyd con il sorriso, «Se dovesse fare qualcosa di stupido, facci un fischio».

«Non pensi che sicuramente farà qualcosa di estremamente stupido?» convenne Dean.

«Ragazzi, vi ricordo che io sono qui», fece notare il biondo.

«Trattalo bene il mio maritino, è un bravo ragazzo ma te lo affido».

«Ragazzi…» li richiamò White, inutilmente.

«Ma se dovesse combinarne qualcuna delle sue noi saremo dalla tua parte», continuò il riccio.

«Decisamente», annuì il moro, «Tu e Susie siete davvero una bella coppia e vi sosteniam-»

«Ragazzi!» alzò leggermente la voce, riuscendo a zittirli. Era rosso come un peperone, «N-Noi non stiamo insieme.» balbettò.

«Ah, no?», posarono all’unisono lo sguardo su Price.

«Signor pomodoro, hai decisamente degli amici chiacchieroni. Sembrano una coppia di vecchiette che spettegolano al parco mentre danno da mangiare ai piccioni le molliche di pane».

«Colpiti ed affondati», ghigno vittorioso White mentre guardava i suoi amici basiti, «Se non chiudete la bocca ci entreranno le mosche».

«Se lo avessimo saputo prima che eri così, ti avremmo invitato prima a passare il tempo con noi», asserì Dean compiaciuto.

«Sei il primo che ha avuto il coraggio di rifiutarlo, dobbiamo segnalo sul calendario», notò Joshua annuendo.

«Non mi ha rifiutato», alzò gli occhi al cielo iniziando un botta e risposta con l'amico mentre il teppista se la rideva sotto i baffi negando lentamente con il capo.

Si voltò, sentendosi osservato, incrociando le pupille con quelle di Dean. Victor era confuso, cos'era quello sguardo? Aveva altro da dirgli?

§

Alla fine aveva saltato le lezioni pomeridiane preferendo stendersi su uno dei lettini scomodi dell’infermeria, a detta di Victor. Aveva dormito solo una mezz'oretta lasciando spazio alle insicurezze per il resto del tempo. Cosa sarebbe successo se avesse avuto un attacco in classe? Tutti avrebbero scoperto che era malato e, guardandolo, avrebbero tratto le giuste conclusioni. Da tempo quando si guardava allo specchio, non si riconosceva più, non si piaceva più. Adesso poteva capire sua madre quando gli diceva “Ricordami com'ero prima”. Si sollevò poggiando la schiena sulla testiera del letto. Peccato che si ricordasse tutto di lei, ogni cosa, fino alla fine. Lui avrebbe fatto la stessa fine? Sarebbe morto lentamente? Tirò il capo all’indietro poggiandosi sul muro, freddo. Sospirò, il suo orgoglio non gli avrebbe mai permesso di farsi vedere così debole. Eppure oggi, davanti a Christopher, aveva abbandonato per un po' la sua maschera ammettendo di essere stanco. Guardò l’orologio, le lezioni stavano per terminare. Si alzò lentamente, si mise lo zaino nero in spalla e si diresse verso la porta, ma essa si aprì e fu rinchiusa dopo che Dean fu entrato. Sembrava un ladro che aveva appena rubato delle caramelle. Alzò un sopracciglio.

«Price, ho saputo che eri qui in infermeria e dovevo parlarti. Da solo», fece il moro.

«Ed eccolo il terzo placcaggio della giornata, vi siete messi d'accordo?» domando sarcastico.

«Cosa?»

«Nulla, nulla. Che c'è?» si appoggiò sul bordo di uno dei letti incrociando braccia e gambe.

Il moro sembrò agitato, non faceva altro che infilare le dita tra i capelli, spettinandoli. Si morse il labbro incrociando lo sguardo del teppista, «Ho bisogno di un consiglio».

«Da chi?»

«Da te, idiota», alzò gli occhi al cielo.

«Ma se ci siamo parlati si e no quattro volte, adesso vieni a chiedere consiglio a me?» alzò un sopracciglio, scettico. «Spero debba consigliarti una nuova maglia da mettere, non posso credere che tu stia indossando questa», la indicò, canzononandolo.

«Che ha che non va la mia maglia?»

«Nulla, togliendo il fatto che sembra tu sia uscito da un film erotico. È aderente, la tua bella cheerleader non è gelosa?» un sorrisetto solcò i lati della bocca.

«Io pensavo fosse difficile fare i conti con il sarcasmo di Chris, ma mi sbagliavo, tu sei molto peggio», alzò gli occhi al cielo, ridacchiando. «Comunque volevo parlarti proprio di Wendy».

«Perché lo stai chiedendo a me? Christopher può sembrare stupido ma non lo è».

«Ho bisogno di un parere esterno ed il più oggettivo possibile», si giustifico. Era teso come una corda di un violino sul punto di rompersi. «Io e Wendy abbiamo litigato, in realtà non so più nemmeno se stiamo ancora insieme».

«Sulle relazioni sentimentali non sono la persona adatta per dare consigli, lo sai meglio di me».

«Lei ha perdonato Virginia dopo tutto ciò che le ha fatto, capisci? Ed io non c’ho visto più, non voglio che la ragazza che amo soffra ancora», continuò ignorando i suoi inutili tentativi di dissuaderlo.

«Sei uno scimmione cotto a puntino», sospirò arreso, «Per quanto tu la ami, per quanto le tue intenzioni fossero buone, non puoi decidere per lei. Non puoi decidere per nessuno, solo per te stesso, e penso vada bene così. Puoi solo darle consigli, rimanere al suo fianco e consolarla se si farà male. Non è questo l'amore? Esserci l'uno per l'altro e crescere, sbagliare assieme». Un piccolo sorriso apparve sul suo volto, non poteva fare a meno di pensare a Christopher, a come sia piombato nella sua vita e gli fosse rimasto accanto nonostante tutto. Riportò lo sguardo su Dean, «Va a parlarle e risolvi la situazione».

«Mio fratello è stato proprio un cieco idiota a lasciarti andare», asserì di getto facendolo sussultare.

«Lo so. Sono favoloso, vero?» ghignò allontanandosi dal lettino, «Bene Scimmione, se è tutto io vado». Fece per aprire la porta, ma fu bloccato, ancora.

«Aspetta», lo richiamò, «A proposito di Daniel…» lasciò la frase in sospeso, grattandosi la nuca.

«Ha fatto qualche altra idiozia, vero?» si voltò verso il corvino, «Non preoccuparti, se la caverà come ha sempre fatto». Si sentiva a disagio a parlare di Danny davanti al fratello minore. Non era abituato e, soprattutto, non era pronto a parlare apertamente di lui. Il suono della campanella scoppiò quella sottile e fugace bolla di pensieri. «Adesso devo proprio andare, ci vediamo Scimmione», lo salutò ed uscì senza attendere risposta. Si diresse fuori dalla Boston High School molto velocemente, si appoggiò sul cofano della sua auto ed attese. D'istinto si tastò la tasca rimanendo deluso nel non trovare il solito pacchetto di sigarette. Era frustrante, come potevano pretendere che smettesse da un giorno all’altro? Osservò White uscire e salutare i suoi amici, sorrideva. Avrebbe tanto voluto che lo facesse anche con lui, ma probabilmente era impossibile. Come puoi sorridere in ospedale, mentre il ragazzo al tuo fianco malato di cancro sta facendo la Chemioterapia?

«Aspetti da molto?» chiese Chris avvicinandosi.

«No principessa, sono appena uscito», alzò un lembo della bocca, «Sali in carrozza».

§

L’autovettura era sprofondata nel completo silenzio mentre il teppista guidava quella vecchia auto. Dai finestrini il paesaggio sembrava ripetersi regolarmente, come in un sogno. Vi erano case e palazzi. Chris si voltò a guardarlo, quanto tempo era passato dall’ultima volta che era salito in quella macchina? Ricordava la prima volta che avevano trascorso il viaggio in completo silenzio, come in quel momento, ma era diverso. Il silenzio che riempiva la macchina non era imbarazzante. In poco tempo avevano legato molto ed ora, si stavano dirigendo al cimitero.

«So che sono bellissimo, ma potresti evitare di sbavare mentre mi fissi? Mi rovini i tappetini» lo canzonò, come suo solito.

«Stavo pensando a noi, a quanto siamo cambiati», sorrise riportando lo sguardo sulla strada mentre Price lo guardava con la coda dell’occhio. «Ci siamo spesso ritrovati a parlare seriamente di quelle cose che non diremmo mai a nessuno, soprattutto durante la Chemio».

«Perché stai pensando a questo?»

«Perché la prima volta che sono salito in macchina tra di noi c’era imbarazzo», poggiò il gomito sullo sportello e la guancia sul palmo della mano.

«C'è ancora, ma tu sei sordo e non lo percepisci», si morse il labbro per non sorridere.

«Sei sempre il solito!» il biondo si voltò a guardarlo ma, non si aspettò di trovarlo pensieroso. Il sorriso sarcastico che si aspettava non c'era sul suo viso, «Vick…»

«Se sono riuscito a sopportare il dolore della Chemioterapia è merito tuo. So per certo che, se fossi stato solo, sarei crollato. Invece c'eri tu che mi stringevi la mano, ogni volta», si fermò al semaforo rosso voltando il capo verso di lui, «Perciò, non credo di avertelo mai detto. Grazie». L'oceano si scontrò con la sabbia, come l'azzurro si mescolava con quel colore ambrato così intenso. Quel nuovo silenzio era diverso dagli altri. La mano calda di White sfiorò delicatamente la guancia pallida di Victor. I visi si avvicinarono lentamente, gli occhi erano ipnotizzati da quelli dell’altro, impedendogli di distogliere lo sguardo. Le punte dei nasi si sfiorarono ed i respiri caldi si mescolavano tra loro. Le labbra erano vicine, ma il suono di un clacson scoppiò quella bolla dov'erano solo loro, facendoli sussultare. L'azzurrino sembrò riprendersi, il semaforo era diventato verde. Ripartì, non poté impedire alle proprie gote di imporporarsi un po'. «C'è una cosa che non ti ho detto».

«Dimmi», lui invece era rosso come un peperone.

«Ci sarà anche mio zio, oggi, al cimitero.» si inumidì le labbra, «Oggi vorrei presentarti mia madre, questo lo avevi intuito, vero?»

Il biondo si limitò ad annuire in silenzio, dove voleva arrivare?

«Dopo il funerale non ho avuto il coraggio di andarla a trovare, non so neanche dove sia. Vederla avrebbe reso tutto più reale e non ero pronto. Non credo lo sarò mai».

«Tu non hai mai visto…» lasciò la frase in sospeso.

«No», asserì secco, «Sono un ipocrita, vero? Detesto “mio” padre per non essersi presentato al funerale, ma poi sono il primo che non ha avuto il coraggio di andarla a trovare».

«È diverso, Vick. Tu eri distrutto, hai perso la tua colonna portante, la donna che ti ha cresciuto… Hai perso tua madre rimanendo solo. Non devi biasimarti per questo, tu sei forte che nemmeno immagini», poggiò la mano sul suo ginocchio mentre il ragazzo parcheggiava.

«Io non sono forte, sono solo bravo a mentire», gli sorrise. Quel sorriso era così triste, gli occhi lucidi, così intensi, così profondi. Non vi era scherno, non vi era maschera su quel viso. Quelle iridi azzurre, come il cielo in estate, erano cristalline.

«Di solito non sto mai zitto, ma tu riesci a farmi rimanere senza parole», il teppista si avvicinò al suo viso e gli lasciò un bacio a fior di labbra.

«Allora devo ricordarmi come si fa», ghignò, «Andiamo». Uscì dall’auto, seguito da White.

«Testa di rapa, com'è andata a scuola?» domandò Charlie avvicinandosi con due mazzi di fiori tra le braccia. Sorrise facendo l'occhiolino a Chris.

«Sono per me? Grazie», esclamò teatralmente mettendosi una mano sul petto.

«Ma smettila», lo rimbeccò. «Come si è comportato?» chiese mentre il nipote alzava gli occhi al cielo.

«È andata bene», sorrise sfiorando le dita di Victor che le incrociò timidamente con le sue. Dov'era finito quel ragazzo così sicuro di sé?

«Se si dovesse comportare male riferiscimelo che lo sistemo per le feste».

«Di Natale?» chiese canzonatorio con un sorrisino strafottente sul viso, il diretto interessato.

«Certo», rispose sarcastico lo zio. «Comunque, questi fiori sono per Hanna», gli diede il mazzo di viole*, «Salutala da parte mia».

«Perché? Tu dove vai?» aggrottò la fronte, confuso.

«A trovare una persona. Ho rimandato per tanto, troppo tempo», li scrutò per poi sorridere. Fece loro strada, diede loro delle indicazioni e li salutò. «Dopo che hai accompagnato il tuo amico, ti aspetto a casa», concluse ammiccando un occhiolino vistoso. Per poi sparire in un’altra stradina.

«Tuo zio mi sta simpatico», ruppe il silenzio, continuando a camminare vicino al ragazzo che continuava a mirare a terra.

«E se avessi cambiato idea? Se non volessi più vederla?»

«Allora accompagna me, devo dirle che suo figlio è un idiota teppista che salta le lezioni, fuma e che sta combattendo la sua stessa battaglia».

«No», deglutì cercando di inghiottire quel persistente nodo alla gola, «Non dirglielo, la faresti preoccupare».

Si fermarono davanti ad una lapide bianca in pietra. Era infissa la foto di una donna dai capelli rossi e mossi, alcune lentiggini costellavano il suo viso delicato e gentile. Le iridi azzurro ghiaccio come un ossímoro, erano calde. Sulla lapide vi era inciso, in bronzo, il suo nome: Hanna Clark. Il figlio, con movimenti molto lenti, poggiò i fiori alla base per poi rialzarsi allo stesso modo. «Tua madre era bellissima», sussurrò timoroso.

Faceva male, faceva male vederla lì, non poterle parlare, non poterla più abbracciare. Non poteva più udirla la sua voce mentre canticchiava tra i fornelli, non poteva sentire una delle sue ramanzine. Lo aveva lasciato lì, solo, in quel l'appartamento freddo dopo un lungo calvario. Dopo numerosi andirivieni tra casa ed ospedale. Aveva lasciato su di lui quel vuoto, quella solitudine, quelle preoccupazioni che un ragazzo della sua età non avrebbe dovuto avere, provare. Tante volte si era ritrovato a piangere, nel suo letto, sotto le coperte. Sapeva che, anche se avesse urlato, nessuno lo avrebbe sentito perché era solo. Nessuno si sarebbe più preoccupato se stesse mangiando a dovere, se avesse fatto i compiti, se si fosse lavato i denti… Fino all’arrivo di Christopher e lo zio, ovviamente. «Quando le regalai delle viole, i suoi fiori preferiti, all’ultima festa della mamma che passammo insieme, le si illuminò il viso. Mi disse che le piacevano quei fiori perché simboleggiano umiltà e modestia». Alzò gli occhi verso Chris, trovando subito il suo sguardo.

Iniziò ad accarezzargli la schiena in silenzio e salì fino ai capelli azzurro elettrico.

Distolse repentinamente lo sguardo mordendosi il labbro inferiore. Prese un profondo respiro chiudendo gli occhi e, quando li riaprì iniziò. «Mamma, mi dispiace per non essere riuscito a farti visita per tutto questo tempo. Sono successe tante cose e, anche se avessi potuto, non ce l'avrei fatta. I tuoi dubbi erano fondati, ho il cancro anche io, come te. Ma, grazie a questa eredità che mi hai lasciato, ho potuto conoscere lui.» gli strinse la mano, «Ti presento Christopher White, il mio Stalker personale». La voce si incrinò verso la fine e delle lacrime solcarono prepotenti sul suo volto smunto. Cercò di trattenerle, cercò di cacciarle via asciugandosi maldestramente con le maniche della felpa.

«Fa bene piangere», Chris lo strinse a se in un abbraccio e fu in quel momento che Victor crollò definitivamente scoppiando a piangere.

«Mi ha lasciato», singhiozzava rumorosamente tra le sue braccia. Il viso era nascosto sulla sua spalla, le sue mani stringevano il tessuto della sua maglia come se avesse paura che fuggisse via. «Ero così arrabbiato con lei per avermi abbandonato», la voce tremava.

«Sono certo non volesse lasciarti», lo strinse di più a sé.

«Lo so, io l'ho sempre saputo. Ma non sono mai riuscito a perdonarla, per questo volevo venire qui», tirò su con il naso alzando la testa. Il suo naso, le sue gote erano arrossate. Le lacrime erano scese seguendo i lineamenti del suo volto e gli occhi, ancora pieni di lacrime, sembravano scavargli dentro. Le labbra erano gonfie ed umide.

In quel momento, Christopher, si sentì nudo. Sapeva che le parole non sarebbero valse a nulla perché il silenzio, spesso, è molto più confortante e vale più di mille parole. Poggiò la fronte sulla sua limitandosi a guardarlo.

«Io…» cercò di sorridere, «Io la perdono perché, adesso, riesco a capirla davvero». Accarezzò la sua guancia con la sua mano incerta, le dita fredde sfioravano la sua calda pelle. I suoi sembravano volessero dire altro, tanto altro. Sembravano un fiume in piena di parole non dette.

Asciugò le sue lacrime con i pollici e, dopo aver preso un profondo respiro, si posizionò dinanzi alla lapide. «Signora, è un piacere conoscerla. So che è stata in pensiero per suo figlio, so anche che aveva timore facesse qualcosa di sconsiderato. Ma, adesso, il suo animo, la sua preoccupazione può placarsi. Le prometto che mi prenderò cura di lui, che gli resterò accanto».

Price sgranò gli occhi e delle lacrime, copiose, ricominciano a rigargli il volto. Aveva appena parlato con sua madre, gli aveva appena detto che sarebbe rimasto al suo fianco. Ormai, non era più solo.

§

I passi rimbombavano nello stabilimento, ai lati le lapidi con sopra incisi i nomi dei loro proprietari. Il silenzio era surreale in contrasto alla luce solare che si era lasciato dietro. Arrivato davanti alla sua donna, poggiò il mazzo di Non ti scordar di me**, osservandola. Come se dalla foto ella potesse esprimere qualsiasi emozione, cambiare espressione e sorridergli come faceva quando erano giovani. Perché, la verità era che Charlie Clark non era sempre stato un Dongiovanni. Con Leena Banks, la sua prima ed ultima fidanzata che amava alla follia, era un uomo migliore. Lei lo rendeva un uomo migliore. Sembrava come se quegli occhi castani, a mandorla, così puri, potessero intravedere del buono persino in lui. Ed essere guardato così, si era sentito il più fortunato sulla faccia della terra, era felice. Era felice che, dopo aver “lottato” per lei, contro il suo migliore amico Bob Harden, alla fine avesse scelto lui. Sapeva di non meritarla, ma era troppo egoista, troppo innamorato per ascoltare quella voce. Sorrise tristemente sfiorando la foto con le dita, immaginando di accarezzarle una guancia.

«Mi manchi», sussurrò quasi timoroso che lo sentisse. La verità però, era che lei non c'era più. Lei non poteva sentirlo e lui non poteva più affondare le mani tra quei lunghi capelli neri come la pece e sentire il suo dolce profumo. Dovevano sposarsi, si erano promessi amore eterno. Ma il destino era stato crudele, voleva punirlo per aver avuto al suo fianco ciò che non meritava. Chiuse gli occhi ed una lacrima, solitaria, rigò quel viso vissuto. Quell’incidente dove, tra i due, solo lui ne era uscito vivo. Il risveglio nel letto d’ospedale e poi, quelle parole pronunciate dal medico “Lei non ce l'ha fatta”. Le aveva impresse a fuoco nella sua mente, nel suo cuore. Ricordò come in quel momento, il tempo si fosse fermato. Per lui, il tempo non aveva più ricominciato a scorrere, era rimasto lì, in quell'auto, con la donna che amava più della sua stessa vita. Era per questo che era andato via da Boston, era per questo che aveva fatto di tutto per evitare di tornare. Ma, alla fine, era lì. «Ti amo», aprì gli occhi ed un sorriso si dipinse sul suo viso, «Ma questo già lo sai, te lo ripetevo in continuazione. La tua risata cristallina quando cercavo di essere romantico ma risultavo goffo, facevo solo pasticci. Ma poi mi sorridevi e mi baciavi, e pensavo che ne fosse valsa la pena. Dovevo essere io al tuo posto, ed invece…». Scuotè il capo, non doveva avere quei pensieri. Se fosse stata lì gli avrebbe fatto una delle sue solite ramanzine, gli mancavano persino quelle. Infilò le mani nelle tasche e sospirò intimandosi di non piangere. «Che ne dici se parliamo un po'?»

§

«Principessa, siamo arrivati alla sua libagione», lo canzonò parcheggiando davanti alla residenza White. Lo osservò ancora con gli occhi un po' arrossati e gonfi dal pianto.

«Mi stai dando dell’affascinante?» chiese muovendo ritmicamente le sopracciglia.

«Penso tu abbia frainteso», rispose ridendo, «Le principesse non sono tutte di bell'aspetto».

«Vorrà dire che io faccio parte di quelle che lo sono», replicò teatralmente facendo finta di spostarsi una ciocca di capelli molto lunga.

Tirò il capo all’indietro poggiandolo sul poggiatesta del sedile dell’auto. Il pomo d’adamo, si muoveva ogni volta che deglutiva, coperto da quello strato di pelle diafana. «Che narcisista che abbiamo qui», notò sarcasticamente. Seguì il silenzio, ancora una volta. Caldo e rassicurante.

«Allora, io vado. Ci vediamo domani», fece per andarsene. Poteva davvero lasciarlo andare così? Dopo tutto ciò che aveva fatto per lui?

«Mi piaci anche tu», asserì di getto, alzando la testa.

Chirs si fermò sul posto, con la maniglia dello sportello in mano. Lo aveva detto? Anche lui piaceva a Victor? Era ricambiato? Si voltò di scatto incrociando le sue iridi sincere. Boccheggiò incapace di dire qualsiasi cosa, di produrre qualsiasi suono. La sua voce non voleva uscire, ma servivano davvero le parole? Gli afferrò la nuca, accarezzandogliela dolcemente e si avvicinò lentamente alle sue labbra senza mai distogliere lo sguardo dal suo. Diede un paio di baci a fior di labbra prima di approfondirlo. Le lingue si accarezzarono provocando brividi lungo la spina dorsale. Socchiusero le palpebre per godersi quel contatto, da quanto lo desideravano? Lentamente si staccarono, il rumore dei loro respiri affannati fluttuava nella vettura, solitario. Osservò le labbra di Price, arrossate dal bacio, il septum sembrava risaltare e le gote, come le sue, erano calde. Non aveva mai provato sensazioni simili dando un semplice bacio, non gli era mai successo con Elisabeth. Si sentiva completo ma, allo stesso tempo, disorientato. «Vorrei che questo momento durasse per sempre», gli sussurrò a fior di labbra.

«Sei proprio un chiacchierone», sibilò con un piccolo sorrisino accarezzandogli la guancia. Le sue dita erano inaspettatamente fredde.

«Tanto lo so che mi adori», si citò con il sorriso sulle labbra. Fece per baciarlo ma un tonfo li bloccò, si voltarono e, davanti al condanno della macchina, Ellen li guardava basita. Ed adesso?

*Le viole: Significato “umiltà e modestia”.

**Non ti scordar di me: Significato “promessa d’amore eterno”.

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