Tecum

By azurahelianthus

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#2 VOLUME DELLA SERIE CROSSED PATHS "𝐿𝑒𝑖 π‘’π‘Ÿπ‘Ž π‘Žπ‘›π‘π‘œπ‘Ÿπ‘Ž π‘’π‘›π‘Ž π‘›π‘œπ‘‘π‘‘π‘’ π‘ π‘’π‘›π‘§π‘Ž 𝑠𝑑𝑒𝑙𝑙𝑒 𝑒... More

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I.
II.
III.
IV.
V.
VI.
VII.
VIII.
IX
X.
XI.
XII.
XIII.
XIV.
XV.
XVI.
XVII.
XVIII
XIX.
XX.
XXI.
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XXIII.
XXIV.
XXV.
XXVII.
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XXIX.
XXX.
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XXXIII.
XXXIV.
XXXV.
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XXXVII.
XXXVIII.
XXXIX.
XL.
XLI.
XLII.
XLIII.
XLIV.
XLV.
XLVI.
XLVII.
XLVIII.
XLIX.
L.
π„ππˆπ‹πŽπ†πŽ.
𝐔𝐍𝐀 𝐋𝐄𝐓𝐓𝐄𝐑𝐀 𝐏𝐄𝐑 𝐓𝐄
π‘πˆππ†π‘π€π™πˆπ€πŒπ„ππ“πˆ
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XXVI.

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By azurahelianthus

Canzone consigliata:
Wicked game - Ursine Vulpine ft. Annaca


❄︎

«Posso almeno sapere dove stiamo andando?». Chiesi frustrata.

Dantalian, alla guida dell'auto messa a disposizione per tutti gli Élite, mi scoccò un'occhiata minacciosa, ma divertita. «No».

«Ma perché? In questo modo potrei denunciarti per rapimento, lo sai?». Mi misi a braccia conserte e lo fissai di sottecchi.

Sorrise per la prima volta in modo sincero, come lo avevo visto fare molte volte negli anni precedenti: gli si formarono due V capovolte e girate ai lati delle guance e i suoi occhi si rimpicciolirono lievemente. «Allora io avrei dovuto denunciarti dalla prima volta in cui mi hai rapito il cuore e fottuto il cervello».

Alzai gli occhi al cielo, ma non riuscii a frenare un sorrisino. «Rieccolo, mi mancavano i tuoi tentativi di adularmi». 

«Anche a me mancava molto». Inclinò la testa e fissò la strada, spostando la mano sulla mia e posando entrambe sul cambio. «Non hai idea di quanto tutto questo mi sia mancato, flechazo».

Abbassai lo sguardo sulle nostre mani e fissai il perfetto modo in cui la sua mano grande e abbronzata copriva la mia, piccola e più pallida. Io ero fredda, lui era caldo. Io ero luce, lui era ombre. Insieme, eravamo qualcosa di simile all'eclissi. «In realtà ce l'ho».

Mi dedicò uno sguardo confuso, prima di tornare a guardare la strada con attenzione. «Tutto questo è mancato anche a me». 

Il suo sorriso. Dio, perdonami se penso questo di un demone, ma sono più che sicura che quella curva dolce sulle sue labbra di miele sia la porta che conduce al paradiso. E io, adesso, mi meritavo proprio di finire in paradiso.

«Sei sicuro che Denholm non ti farà problemi quando torneremo?». Mi mordicchiai l'unghia, o meglio, la pelle intorno ad essa. 

Scosse la testa e fece fare un giro completo al volante, prendendo una via stretta e non asfaltata. Menomale che l'auto era una Jeep nera. «Tutti gli Élite possono uscire, ma massimo due volte a settimana. Le partner, però, devono essere sempre seguite da uno di noi. Io non sono più uscito dalla serata in discoteca». Mi fulminò e io sorrisi, ricordando il balletto molto provocatorio con il povero umano. 

Ci fermammo davanti ad un cottage da montagna e improvvisamente capii perché Dan aveva usato delle catene sulle ruote poco prima di partire. La neve era ovunque in quel piccolo scorcio di paradiso: sul tetto, sopra l'erba attorno alla casa, sugli alberi del bosco che circondava il luogo. Aprii la porta con mani tremanti e sorrisi emozionata.

«Le neve...». Tremai. 

Mi circondò la vita con le braccia e posò il mento sui miei capelli. «Volevo un posto che potesse ricordarti chi sei veramente. Ho l'impressione che a volte ti dimentichi di essere Arya Buras e non una qualunque». 

Deglutii. «Non è che lo dimentico, è che io non lo sono più. Non sono più Arya Buras...».

Mi superò e mi prese per mano, portandomi all'interno della bellissima casa. Anche dentro era tutta di legno, con il divano e i tappeti bianchi, un camino che aspettava solo di essere acceso e una cucina a penisola. Mi lasciai cadere sui cuscini morbidi e lui prese dei piccoli tronchi, posati al fianco del camino, per accendere il fuoco. 

«Perché non usi Ignis per accendere il fuoco? Io lo facevo». Mi guardò con sdegno, come se la sola idea lo nauseasse. «Dan, hai dentro di te dei poteri che neanche immagini quanto siano potenti-».

Scosse la testa. «No, lo erano perché erano dentro di te. Perché tu sei potente».

«Dantalian, non potrò mai più riavere i miei poteri. L'unico modo per poterli riprendere sarebbe la tua morte e sappiamo entrambi che non è possibile perché Astaroth ti ha donato l'immortalità». Mi torturai le mani e abbassai lo sguardo. «Ma anche se potesse essere possibile, potrei riavere solo Anemoi, perché Ignis e Fermentor sono poteri demoniaci e io... io non sono una dea, ormai. Non posso riaverli».

Alzai lo sguardo, tremando appena. «Non posso riaverli, non c'è un modo, Dan. Sono tuoi adesso. È finita».

Spostò lo sguardo, affranto, da me al camino più volte. Poi chiuse gli occhi, anche se non ne aveva bisogno, e alzò il palmo lontano dai suoi vestiti potenzialmente infiammabili. Poco dopo, dalle sue dita iniziarono a formarsi piccoli sbuffi di fuoco, come una candela che era stata appena accesa e il cui fuoco ballava smosso dal vento. Circondò con la mano un tronco ed esso, a distanza di qualche minuto, prese fuoco, portandosi dietro tutti gli altri legnetti.

Si alzò, dopo aver ritirato Ignis, e si batté le mani sui jeans neri. Poi alzò lo sguardo e lo puntò su di me. «È per questo che non hai più i tuoi meraki e sei rimasta solo con i tatuaggi?».

«Cosa?». Sbattei le palpebre, sorpresa non dalla sua domanda, ma dalla sua capacità di osservazione. Alzò un sopracciglio e si sedette al mio fianco, in attesa.

Aggrottai la fronte. «Innanzitutto come fai a sapere che-».

«Ti ho osservato, a volte, in doccia. Poco prima di spogliarti, ovviamente, non sono un maniaco. Ma ti ho visto spesso in reggiseno, con le braccia nude, ed è un dubbio che mi preme da quel giorno». Mi interruppe.

Stranamente non mi dava fastidio, ma anzi mi piaceva quasi che fosse così attento nei miei confronti, che mi studiasse nei minimi dettagli. «Ad ogni modo, sì. Non ho più i meraki perché sono tatuaggi demoniaci e io la mia parte demoniaca l'ho...». Per un solo secondo, la mia vista si annebbiò e i miei polsi si fecero freddi di metallo. Chiusi gli occhi e li riaprii, tornando alla realtà. «È andata persa. La mia parte demoniaca non c'è più da tempo, oramai, quindi i miei meraki non sono mai potuti tornare da me».

Annuì. «Non ti mancano? Venom, per esempio, non ti manca?».

«Mi mancano tutti, Dantalian. Erano miei, erano, per me, come degli animali domestici sul corpo. Mi manca sentirli muovere, mi manca avere bisogno delle loro abilità, mi manca sentirmi bella, forte e potente». Mi schiarii la voce rauca. «Ma non posso fare niente per riaverli. Tutto quello che ho perso quel giorno, l'ho perso per sempre».

Scosse la testa, fissando un punto in mezzo a noi. «Non tutto...». Rialzò lo sguardo, dorato e brillante che mi attirava come una calamita. «Non tutto, Arya».

«Perché l'hai fatto, Dan? Perché hai commesso lo stesso sbaglio un'altra volta?». Mormorai sofferente.

Scosse la testa, con un sorriso leggero sulle labbra. «Io non ho sbagliato, Arya. Siete stati voi a sbagliare, vedendo in me ciò che avete visto e non ciò che c'era davvero, un'altra volta».

«Ma che stai dicendo?». Strinsi gli occhi.

«Hai idea di come ci si senta a conoscere una persona senza conoscerla davvero, ad odiarla perché lei sarà la tua vita e la tua morte allo stesso tempo? Ti conoscevo da anni, sapevo di te e del tuo arrivo. Ogni giorno vivevo con la consapevolezza che quello poteva essere il giorno in cui ti avrei incontrato e quando Baal mi ha offerto quell'incarico l'ho accettato come ho accettato tutti gli altri. Quando ti ho visto io dovevo sapere il tuo nome, in qualsiasi modo, perché eri così bella da sembrare un sogno e volevo avere la certezza di sapere chi eri prima di svegliarmi...». Sorrise al ricordo. «Ho incrociato i tuoi occhi e ho dimenticato di quella ragazza di cui la mia maledizione parlava, era sparita come se non fosse mai esistita. C'eri solo tu. Non mi sono innamorato di te giorno dopo giorno perché sapevo chi fossi, non lo sapevo. Non avevo un nome, un dettaglio o altro su quella ragazza, sapevo solo che mi sarei innamorato, ma per me tu eri una cotta e basta. Una semplice ragazza che desideravo arduamente baciare fino a perdere il respiro. E l'ho fatto. Pensi che avrei rischiato se avessi saputo che tu eri...». Alzò lo sguardo su di me. «...tu?».

Il mondo di cadde addosso una seconda volta. Tutto ciò di cui ero sempre stata sicura, tutto ciò che avevo immaginato, tutto ciò che mi aveva ucciso e spezzato, era improvvisamente sparito. Frantumato in piccoli pezzi di vetro, il cui riflesso era il mio viso. Rotto e scheggiato. 

«Quando l'ho capito è stata una secchiata di acqua gelida sulla schiena. L'ho capito un po' quando eri dentro la vasca piena di cubetti di ghiaccio, ma è stato lampante quando non ho permesso ai Moloch di portarti via e ho infranto la prima regola di mio padre: mai cambiare i piani. Così ho capito che tu eri lei: il motivo per cui ero ancora in grado di respirare e lo stesso che lo avrebbe spezzato per sempre. Eri mia, ma non potevo stringerti come volevo, toccarti come desideravo, baciarti come bramavo. Era una tortura dolce e sofferente. Volevo spezzare la maledizione in qualche modo dopo la battaglia, dopo aver ucciso Baal ed essermi fatto perdonare da te per averti mentito, ma come sempre non è andato tutto secondo i miei piani». Ironizzò con cattiveria.

«Non capisco... tu non volevi tradirci, alla fine, ma solo far credere a Baal che l'avresti fatto?». Sussurrai.

Mi ignorò. «Tu sei stata avvisata del mio apparente tradimento e da quel momento qualunque cosa avessi fatto o detto non mi avresti più creduto. Sono morto con te, quel giorno, quando sei tornata dall'inferno e io ho visto la candela spenta. Ho capito subito. Poi tutto è precipitato: volevo dirti la verità, ma ogni volta che mi avvicinavo scappavi da me, e quando siamo arrivati al Megiddo tutto è andato anche peggio. Il colpo finale è arrivato quando mi hai seguito il giorno in cui avrei avuto l'ultima conversazione con mio padre, o almeno credevo, perché hai rovinato tutto il lavoro di centinaia di anni». Mi fulminò.

«Come, scusa?». Mi raddrizzai e lo guardai male.

Annuì. «Hai capito bene. Hai rovinato tutto con la tua bella boccaccia piena di insulti e cattiverie, ma che avrei inspiegabilmente voluto baciare ancora, ancora e ancora, fino a morire. Ho dovuto fingere di essere colpevole, di aver commesso il tradimento che non stavo commettendo, solo perché avevo paura che ci fossero dei Moloch nelle vicinanze e non volevo mandare tutto a puttane. Poi l'hai fatto tu al posto mio, quando mi hai spezzato ogni singolo osso del corpo per mandarmi fuori uso». 

Mi guardò divertito e io lo osservai dispiaciuta. «A mia discolpa posso dire che non è stata un'idea mia». 

«Ho pensato sul serio che mi avresti ucciso, sai? Eppure eri comunque la cosa più eccitante che avessi mai visto in vita mia. Finché, al mio risveglio, non ho collegato tutti i punti e, mentre correvo verso il luogo, ho visto Astaroth e Adar. Ho capito che era un vostro piano e ho messo il mio da parte, convinto che alla fine della battaglia ti avrei spiegato tutto e avrei passato i successivi cento anni a pregarti, in ginocchio, con dei fiori e dei cioccolatini, di credermi e perdonarmi». Rise con rammarico e si mosse, strofinandosi i jeans. Sembrava uno psicopatico. «Peccato che alla fine della battaglia tu non c'eri e io ero sempre io, solo, odiato e con dei poteri che non erano i miei e che non volevo. Mi sembrava di rivivere cose già vissute». 

Adesso capii tutto. Per lui era stato peggio perché aveva già vissuto un evento del genere, per lui era la seconda volta. Aveva vissuto quel dolore, quell'odio, quella ferita, una seconda volta. A causa mia. «Dantalian, io non potevo immaginare...». Non sapevo che dire.

«Ero perso, amore mio. Totalmente perso». Inclinò la testa. «Soprattutto quando l'Anziana ha spezzato la maledizione, ma non sapevo più che farmene senza di te perché tu eri chissà dove ed eri... dannazione, l'unica persona che avrei voluto baciare non c'era più».

Tutto tornava al suo posto come un puzzle, non ancora totalmente finito, ma adesso riuscivo a capire cosa ci fosse disegnato sopra. «La prima volta che ci siamo rivisti mi hai accusato di essere rimasta in pace all'Olimpo... perché l'hai fatto?». Ormai avevo capito che Dantalian soffriva solo per le cose che aveva già vissuto e odiava rivivere.

«Ho tentato di chiamare mia madre molte volte durante le sevizie di mio padre, dalle prime alle ultime, e anche quando ha fatto quello che ha fatto durante quei mesi ad Agap. La chiamavo urlando disperato, pieno di dolore e di rabbia, senza sapere che non mi avrebbe mai sentito perché era in un altro universo, all'Olimpo. Non mi avrebbe mai salvato. Non sapevo che per chiamarla davvero bastava evocarla, perché nessuno me l'aveva mai insegnato». Storse il naso e mi prese la mano, quasi come se avesse bisogno di un appiglio per rimanere qui, con me, nel presente. «Per questo dico che sei la prima che mi ha insegnato qualcosa, perché tutto quello che so nella mia vita l'ho imparato a mie spese, con le mie mani, i miei occhi e il mio cervello. E quando sei tornata, dopo aver saputo da terze parti che eri stata spedita all'Olimpo per tutti quegli anni, un tempo infinito e pieno di dolore per me, sono impazzito...». 

Mi guardò dispiaciuto. «Mi sembrava di rivivere la stessa storia un'altra volta: io che soffro, io che urlo e chiamo, ma nessuno che mi risponde perché in pace dall'altra parte dell'universo...».

Scossi la testa, cercando di trattenere le emozioni al mio interno. Se solo sapesse la verità, se solo avesse saputo durante quegli anni, non avrebbe mai perso così tanto tempo ad odiarmi. E se io avessi saputo prima di lui, avrei sprecato meno tempo ad odiarlo. Se solo avessimo usato la bocca per parlare, per ciò che era stata creata, e non per urlarci contro, avremmo sprecato così poco tempo che forse... forse sarebbe stato ancora il nostro, di tempo.

Ma se non avessimo vissuto ciò che ci aveva cambiati, adesso forse non saremmo mai stati qui, insieme. Non ci ameremmo allo stesso modo, perché il dolore aveva donato intensità al nostro sentimento. Perché hai più cura di una cosa quando ci hai messo sudore, sangue e lacrime per averla.

Annuii. «Abbiamo perso così tanto tempo...».

«Ma non abbiamo perso noi, almeno. Quello mai». Sorrise debolmente.

Inclinai la testa. «Credo di avere una cosa da dirti».

«Lo so, sono davvero un figo e ti è difficile resistermi, ma nessuno ha detto che devi-». Iniziò a gonfiarsi come un pesce palla, a pavoneggiarsi come un pavone dalle più morbide e colorate.

Scossi la testa e sorrisi dolcemente. «Ti perdono, Dantalian».

Si immobilizzò. «Cosa?».

«Ti perdono. Io ti perdono, Dan». Mormorai.

Mi fissò per un tempo infinito. I suoi occhi si scurirono, le sue mani tremarono e vennero a posarsi sulle mie guance, il suo sguardo scintillò di emozioni pure. Strofinai la guancia sulla sua mano e mi protesi in avanti per lasciargli un piccolo bacio sulle labbra. 

I suoi occhi presero fuoco. Letteralmente, diventarono rossi. Rossi come il colore dei veri occhi di qualsiasi demone che stava per perdere il controllo, ma sul serio, un po' come quando i miei diventavano viola. Un tempo, almeno, ora non più. 

«Dan?». Mormorai confusa. 

Era ancora immobile e lo rimase anche quando parlò. «Se vuoi che mi fermi, se non mi vuoi, dillo ora, flechazo. Perché dopo... dopo che ti avrò avuta, non sarò più in grado di fermarmi. Sarai una droga». 

Sbattei le palpebre. «Nessuno ha mai detto che devi fermarti, infatti».

Come se avessi schiacciato un interruttore che era sempre rimasto bloccato, qualsiasi cosa appartenesse a Dantalian Zolotas mi travolse. Il suo profumo di miele e lavanda, il calore delle sue mani sul corpo, la morbidezza delle sue labbra sulle mie, i suoi capelli di seta neri come i miei fra le mie mani, le sue gambe fra le mie. 

Il suo amore, il suo desiderio, la sua ossessione verso i miei confronti, si riversò in me e non ne uscì mai più. Mi cambiò radicalmente, facendomi vedere quanto poco conoscessimo una persona prima di sentirla parlare di tutto ciò che l'aveva ferita. E ti sorprendeva vedere quanto facile fosse prendere il masso dalle spalle della persona amata e sorreggerlo per qualche momento, il tempo di un bacio, una carezza, una lacrima. 

Il tempo. Esso era sempre tutto. 

Mi baciò con qualcosa di più delle labbra, con qualcosa di più di ciò che sapevano fare tutti, indistintamente. Mi baciò con l'amore, mi baciò con il dolore, con le lacrime, con la passione. Mi venne quasi da piangere tanto era intenso, tanto era diverso da tutto ciò che avessi mai provato. 

«Lo senti anche tu?». Mormorò a scatti, fra un bacio e l'altro. 

Drizzai le orecchie, ma non smisi di baciarlo. «Cosa?».

Sorrise sulla mia bocca e lo trovai più bello del solito. «La meravigliosa sensazione di sapere che non c'è più niente che ci separa. Che siamo liberi, finalmente...».

«Liberi di amarci...». Sussurrai, spingendo sul suo petto marmoreo solo per farlo sdraiare sul divano. Gli salii sopra, a cavalcioni, e tornai a baciarlo, succhiando il suo labbro inferiore con forza, sapendo quanto gli piacesse quel semplice gesto. 

Gemette all'istante, alzando il bacino e scontrandolo con il mio. Una fitta di piacere si disperse nel mio corpo. «Ti amavo anche quando non mi era concesso, Arya. Ti ho sempre amato, anche quando questo...». Scontrò le labbra con le mie e mi leccò il labbro inferiore, mordendolo piano. «...mi avrebbe ucciso».

Gli passai la mano fra i capelli e mi piegai per leccargli la pelle morbida del collo. Un sapore lievemente amaro, probabilmente il suo profumo, mi sfiorò la lingua e le mie labbra tirarono la sua pelle come se fosse il mio dolce preferito. Il suo odore mi avvolse come un abbraccio e mi sentii a casa per la prima volta dopo anni. 

Mi strinse le mani sui fianchi, le sue dita scavarono sulla mia carne e strinse, inarcando la schiena e spingendo il suo bacino verso il mio, in cerca della scossa di piacere che ci avrebbe travolti. «Così mi uccidi, animus meus». 

«Te lo meriti». Scherzai, mordendogli il lobo dell'orecchio e godendo del piccolo scatto addolorato che fece il suo corpo. 

Mi agguantò per i capelli e mi portò davanti al suo viso. «Non pizzicare il can che dorme, flechazo. Anche io ho tante cose di cui punirti».

Strinsi gli occhi. «Non è affatto vero».

Mi leccò il labbro. «Tu dici?». Mormorò. 

«Anche se fosse, non ho mica paura di te, piccolino». Lo stuzzicai, pur sapendo quanto rischiassi. Non potevo farci nulla, mi piaceva.

Alzò un sopracciglio. Non feci in tempo a urlare che la posizione cambiò e io mi ritrovai sdraiata sul divano, con lui in ginocchio in mezzo alle mie gambe spalancate. Mi teneva per i polsi, slacciando il bottone dei jeans chiari per farli scendere sulle mie gambe.

«Ehi, attento a quei jeans! Sono di marca!». Strillai.

Come se non avessi detto nulla, li lanciò dall'altra parte del salone. «Te ne compro altri venticinque». Ghignò.

A differenza di ciò che credevo, non mi tolse affatto le mutandine, ma le spostò soltanto di lato con le dita. Mi fissò. «Così non le rompo, mi limito a rompere te...». Mormorò con un sorrisetto.

Che gran bastardo. «Non ti meriti il mio amore». Mi finsi offesa e feci un po' la drammatica.

Si sporse in avanti e afferrò l'orlo del maglione bianco che indossavo per sfilarmelo dalla testa con attenzione e premura. «Com'è che diceva Catullo? Ah sì... ama mihi cum mererem minus, quoniam erit cum ne egerent». 

Amami quando lo merito meno, perché sarà quando ne avrò più bisogno.

Sorrisi. «E com'è che diceva Ovidio? Ah sì, una cosa tipo... Odero, si potero; si non, invitus amabo».

Ti odierò, se potrò; altrimenti ti amerò mio malgrado.

Dopo aver gettato il mio maglione chissà dove, insieme ai miei jeans, si abbassò con la testa fra le mie gambe. Mi fissò. «Se mi odi davvero, come hai sempre cercato di farmi credere, allora non mi permetterai mai di fare questo».

Spostò il tessuto di lato, come poco prima, e passò la lingua calda nella mia intimità altrettanto calda, bisognosa delle sue attenzioni. La scossa di piacere fu intensa, ma breve, eppure mi ritrovai comunque a chiudere gli occhi. Ansimai involontariamente, perdendo il controllo di me stessa, ma non fui l'unica.

Abbassai lo sguardo un solo secondo, sui suoi occhi rossi, e il suo sorrisino si spense lentamente. Il suo petto si alzava e abbassava più veloce del normale. Si leccò le labbra. «Adesso per te è la fine».

Mi puntellai sui gomiti. «Perché?». Sussurrai, inclinando la testa.

«Perché ora che ho sentito quel suono, non ne sarò mai più sazio». 

Lo dimostrò, tuffandosi di nuovo in mezzo alle mie gambe, leccandomi, baciandomi, mordendomi anche, in un turbinio di emozioni che non mi lasciarono altra scelta che ricadere sulla schiena, tirare i suoi capelli corvini e ansimare. Gemere e ansimare. Ansimare e gemere. E più lo facevo, più lui sembrava affamato di me, scavando con le dita sulla carne morbida delle mie cosce per tenermi ferma o forse per sfogare lì tutta la sua pazzia, la sua ossessione per me.

«Oh dei». Ansimai, tirando i suoi capelli corvini.

Alzò lo sguardo, rimanendo al suo posto, e ghignò. «L'unica dea che vedo qui sei tu». 

Si chinò per darmi un bacio lì, sulla mia intimità, che mi portò ad alzare il bacino verso la sua lingua. Non staccò mai lo sguardo dal mio. Quando il suo respiro caldo tornò a sfiorarmi, non fui in grado di frenare il mio bacino, che si arcuò di nuovo alla ricerca del piacere di cui mi stava privando. Ma lui non si mosse.

Mi poggiai sui gomiti e lo fulminai. «Mi stai torturando?». Sibilai.

«Non essere ingorda, flechazo...». Si leccò le labbra. «...quando ti piace il tuo piatto non lo finisci in fretta».

Dio, non sono solita pregare, ma ti prego... salvami dall'intenso amore che provo verso quest'uomo che è arrivato dal buio più totale e mi ha portata alla luce. 

Improvvisamente mi spinse giù e si posò una mia gamba sulla spalla, facilitandosi il lavoro, e tornò all'attacco. Non si fermò, come se non volesse lasciarmi prima di essere certo che l'ultimo rivolo di piacere mi avesse lasciato, rendendomi molle come un budino, ma ancora più affamata di tutto ciò che c'entrava con lui. 

«Dantalian!». Non sembrava neanche mia quella voce urlante e rauca.

Lo sentii lasciarmi baci languidi sulla coscia, sull'interno di essa, e poi più su, sulla pancia che ormai era morbida e non più tonica come un tempo, perché qualsiasi dea aveva un fisico del genere. Mi ero sentita spesso in difetto per questo e sembrava che lui lo avesse capito da sé, ecco perché mi baciava proprio lì. 

«Ti ho sempre detto che eri una dea, bella come un angelo, anche quando avevi la tua parte demoniaca. Sei l'unico paradiso in cui mi è concesso entrare...». Mormorò, salendo con i baci fino al mio petto. 

In meno di qualche secondo cambiai le posizioni e finii sopra di lui, con il ruvido tessuto dei suoi jeans a contatto con le mie mutandine di pizzo rosso. «Mi fai impazzire, Dan».

Gli leccai il labbro inferiore e lo succhiai piano, soddisfatta di sentirlo gemere con un'espressione sofferente. «Dannazione, mi stai uccidendo. Mi uccidi da sempre, flechazo». Mi passò la mano fra i capelli scuri e li strinse, tenendomi ferma mentre si toglieva alla svelta i jeans. 

Dopo tornò a riempirmi di baci ovunque, sulla mascella, sul collo, sul petto, nel punto in cui poggiava la sua collana. Pazzo, era pazzo. «Dopo tutto questo tempo, non è mai cambiato nulla...». Rabbrividii nella sua presa, gettando la testa all'indietro.

Scosse la testa e mi baciò sul seno. «Semper et in aeternum, Haven». 

«Semper et in aeternum, Rylan. Sei mio». Mi mossi su di lui, ricavando un netto piacere nello sfregamento fra le nostre intimità, malgrado il tessuto che ci separava. Io andavo avanti e lui mi veniva incontro, come gli scogli e il mare in tempesta. 

Sorrise, schiudendo la bocca in preda al piacere e con gli occhi quasi chiusi, le mani ovunque su di me e le mie ovunque su di lui. «Totus Tuus, amor aeternus».

Tutto tuo, amore eterno. 

Sorrisi, cominciando a sentirmi vicina al secondo orgasmo. Con lui le cose difficili erano sempre tutte più facili, mentre quelle più semplici erano quelle più difficili. Il contrario di ogni cosa eravamo noi. «Dantalian». Mi ritrovai a mormorare, mordendomi le labbra in preda al piacere.

Il suo bacino si alzò contro il mio, la sua durezza mi colpì più volte nel punto più giusto, e il paradiso in quel momento non mi sembrava più così lontano. «Cazzo, flechazo!». Imprecò, posando la fronte sulla mia e puntandomi con i suoi occhi rossi.

L'orgasmo arrivò in quel preciso momento. Occhi su occhi, respiri sulle labbra, più vicini che mai fisicamente e spiritualmente. La sua bellezza era qualcosa di crudelmente angelico, con i capelli neri madidi di sudore, la bocca dischiusa, gli occhi offuscati dal piacere e semi chiusi e le mani strette sui miei capelli come se fossi l'unico appiglio, la sua unica salvezza. 

«Ti guardo anche io così». Mormorò, buttandosi sulla schiena e trascinandomi con lui. 

Aggrottai la fronte. «Così come?». 

«Come se fossi l'unica cosa che mi tiene in superfice e lo sei». Mi lasciò un dolce bacio sulle labbra, sicuramente gonfie e arrossate.

Gli accarezzai la guancia, che di morbido aveva solo la pelle che ricopriva le sue ossa, visti i tratti definiti del suo viso. «La mia notte senza stelle».

«Tiam...». Il suo sguardo si addolcì. 

Saltò in piedi, con me stretta su di lui come una scimmia, e mi portò con sé. Risi vedendo i nostri vestiti in punti totalmente diversi e lui mi mollò una sculacciata. «Ahi!».

«Cosa ridi?». Assottigliò lo sguardo sospettoso.

Gli morsi una spalla e risi del suo gridolino stridulo, che lo portò a farmi scendere immediatamente. Eravamo in piedi di fronte ad uno specchio posto nel corridoio. «Ti prendo in gir-». 

Mi fermai, osservando il mio corpo allo specchio. 

Non mi guardavo interamente da quando ero tornata nel mondo umano, da quando la mia vita era stata stravolta. I miei capelli erano neri, soltanto neri, nessun tocco di viola era più presente in essi, ed erano ancora mossi, ma non più arricciati in perfetti boccoli come lo erano anni prima. Le mie braccia erano troppo spoglie, con solo dei fiori e fili spinati tatuati, senza più alcun animale o qualcosa particolare. Le mie mani erano semplici, con le mie unghie corte e naturali, senza alcuna traccia di smalto, senza nessun anello sulle dita o nessun rumore metallico che accompagnava i miei movimenti. Ero struccata, più pallida del solito, le mie ciglia erano poco voluminose e rendevano i miei occhi più grandi, il loro verde bottiglia spiccava sul pallore della mia pelle e le mie labbra erano rosee, non più laccate di rosso. 

Il mio corpo non era più atletico, pur rimanendo slanciato, e i miei addominali erano stati sostituiti da alcune curve morbide, i fianchi più pronunciati e il seno più ampio. Vedersi in un altro modo, dopo che per anni eri stata abituata a vederti solo in uno, era strano. 

Non mi sentivo brutta, i chili in più o la nuova morbidezza non era un problema. Il vero problema è che i miei occhi confermavano ciò che la mia ansia mi sussurrava.

Una volta Erazm aveva detto di essersi tagliato i capelli perché aveva bisogno di vedere con i suoi occhi il cambiamento che era avvenuto dentro di lui. Per me era l'esatto contrario: avrei voluto vedermi come prima almeno esteticamente, per ricordarmi che ero sempre Arya, e invece anche il mio corpo mi urlava che ero diversa.

Mi portai una mano alla bocca e una lacrima mi scese lungo la guancia.

Dantalian, dietro di me, mi circondò con le braccia e posò le mani sulla mia pancia, oltre il mento sulla mia spalla. Mi osservò per tanto tempo, ma in un modo che aveva poco a che fare con il fissare il mio corpo. Mi stava fissando l'anima e ci stava dialogando solo con lo sguardo, tornato dorato e caldo.

Ad un certo punto parlò. «Non te lo permetterò, lo sai...».

«Di fare cosa?». Sussurrai.

Mi fissò attraverso lo specchio. «Di spezzarti e di far cadere a terra tutti i cocci. Ci sarò sempre io a raccoglierli».

«È che... non mi è mai capitato di odiarmi così tanto». Mormorai.

Mi lasciò un dolce bacio sulla spalla e mi parlò all'orecchio. «Io sì ed è per questo che ti aiuterò. Per ogni volta che ti odierai, io ti amerò al posto tuo. Per ogni volta che ti vedrai brutta, io ti guarderò due volte e ti vedrò bellissima in entrambe. Una per me, una per te».

«Quanto è difficile amarmi. Sei sicuro ne valga la pena?». Ridacchiai, mentre un'altra lacrima solcava la mia guancia.

Mi asciugò la lacrima con il pollice e la leccò. «Ec sine te, nec tecum vivere possum». Mi trascinò dietro di lui, lungo il corridoio, immaginai diretti in bagno per una lunga vasca.

Non posso vivere né con te, né senza di te.

Sbuffai e tentai di alleggerire il momento. «E se finissi in un ospedale psichiatrico? Scommetto che in quel caso saresti felice di vivere senza di me».

Aprii l'acqua calda della vasca, che iniziò a fumare e a riempirsi di schiuma, con tanti petali neri qua e là. Mi prese per le guance e i suoi occhi dorati aprirono un varco fra i nostri cuori. «Ubi tu Gaius ego Gaia». Sorrisi e la mia curva dolce sulle labbra contagiò anche lui.

Dovunque tu sia, lì io sarò.

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