Tecum

By azurahelianthus

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#2 VOLUME DELLA SERIE CROSSED PATHS "𝐿𝑒𝑖 π‘’π‘Ÿπ‘Ž π‘Žπ‘›π‘π‘œπ‘Ÿπ‘Ž π‘’π‘›π‘Ž π‘›π‘œπ‘‘π‘‘π‘’ π‘ π‘’π‘›π‘§π‘Ž 𝑠𝑑𝑒𝑙𝑙𝑒 𝑒... More

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I.
II.
III.
IV.
V.
VI.
VII.
VIII.
IX
X.
XI.
XII.
XIII.
XIV.
XV.
XVI.
XVII.
XVIII
XIX.
XX.
XXII.
XXIII.
XXIV.
XXV.
XXVI.
XXVII.
XXVIII.
XXIX.
XXX.
XXXI.
XXXII.
XXXIII.
XXXIV.
XXXV.
XXXVI.
XXXVII.
XXXVIII.
XXXIX.
XL.
XLI.
XLII.
XLIII.
XLIV.
XLV.
XLVI.
XLVII.
XLVIII.
XLIX.
L.
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𝐔𝐍𝐀 𝐋𝐄𝐓𝐓𝐄𝐑𝐀 𝐏𝐄𝐑 𝐓𝐄
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XXI.

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By azurahelianthus

«Wow, guarda un po' chi c'è». Nivek mi fissò con un sorriso provocatorio e mi indicò con la forchetta di plastica che teneva in mano. «Credevo che fossi una fighetta troppo vip per stare con noi».

Alzai le spalle. «Una fighetta lo sono sul serio ed è per questo che sei profondamente invidioso».

Posai il vassoio accanto ad Honey, che mi sorrise con dolcezza. Di fronte a lei c'era Melville, alla sua sinistra Nivek, di fronte a me, e al mio fianco si sedette Dantalian, che aveva di fronte un ragazzo che ancora non conoscevo e accanto ad entrambi una ragazza mai vista prima.

La ragazza notò il mio sguardo e arrossì, porgendomi la mano. Mi alzai lievemente per potergliela stringere e la mia mano fredda si scontrò con la sua, caldissima. Strinse e tornò a sedersi. «Io sono Cassandra, ma puoi chiamarmi Cassie».

«Io sono Arya, piacere di conoscerti». Sorrisi e iniziai a mangiare un po' di vellutata di verdure varie. Il suo aspetto verde non era invitante, ma il gusto non era male. Genuino.

Denholm era tornato la sera prima e di conseguenza anche il suo regime di paura. Avevo visto Kyran a lezione, ci eravamo salutati da lontano e i nostri occhi avevano detto quello che non potevamo dire.

Non posso toccarti, ma ti sento addosso.

La situazione non era piacevole, non mi sentivo a mio agio a stare con Dan e con Kyran a intermittenza ma non ero in grado di decidermi. Non c'era nessuno dei due che mi desse il 100% delle certezze o, al contrario, di dubbi.

Dopo la storia di Dan mi ero sentita in colpa come non mai. Avevo creduto alle voci e non a lui, non alla sua rabbia, non alle sue parole e agli sguardi tristi che assumeva tutte le volte in cui gli davo del mostro. Forse lo era, anzi, sicuramente lo era, un mostro, visto ciò che aveva fatto, ma ora capivo perché Non gli era stata lasciata altra scelta se non diventare ciò che gli altri credevano che lui fosse. Non potevo neanche immaginare il suo dolore. Ma questo non eliminava ciò che lui aveva fatto, il suo doppio tradimento, l'aver accettato di diventare un Élite, l'avermi trattato come se fossi un oggetto che gli appartiene o semplicemente quel piano finale di cui non voleva parlarci. C'era ancora troppo silenzio fra di noi e io di silenzio ne avevo vissuto in troppo.

E poi c'era Kyran. Sarebbe stato perfetto, con lui mi sentivo a mio agio e quasi capita, potevo essere una persona diversa perché lui non sapeva nulla di me che non venisse fuori dalla mia bocca e questo mi faceva sentire potente. Ma anche con lui c'erano silenzi inspiegabili, oltre l'impossibilità di stare insieme se non in luoghi nascosti. Spariva per giorni, sembrava quasi camminare all'interno dei muri visto che quando non voleva essere visto non si vedeva sul serio, e questo mi angosciava.

C'era qualcosa che non andava in entrambi, ma quale dei due avrebbe valuto la pena?

Un colpetto al ginocchio mi fece voltare. «Tutto okay?». Bisbigliò Dan.

Annuii. «Pensieri».

«Posso scacciarli, se vuoi». Prese la ciotolina con alcuni pezzi di fragola e banana dentro, una macedonia, e me la porse, malgrado la mia fosse ancora piena. Sapeva quanto mi piacesse e mi aveva donato anche la sua porzione. «È l'unica cosa bella dell'essere rimasto al buio per così tanto tempo. Impari a scacciare i demoni che ti graffiano la mente».

Mi si lucidarono gli occhi, sentii proprio le lacrime raggrupparsi in un unico punto, e quasi imprecai. Odiavo essere diventata così emotiva, per la miseria. Presi una fragola e la masticai lentamente, mentre la sua mano, da sotto il tavolo, si posava sulla mia coscia.

Non fece nulla, mi accarezzò semplicemente e mi ricordò che lui c'era. Lui era lì, sempre, per me e con me. Anche se a volte non sembrava, anche se a volte lo odiavo, sapevo che lui ci sarebbe sempre stato. Come un'ombra nell'oscurità, difficile da scorgere, ma una volta che la noti non vedrai più la stanza come prima. Sentivi i suoi occhi addosso anche quando non la guardavi, perché sapevi che c'era. Lo sapevi.

«Che stai facendo?». La voce stridula di Cassie ci fece voltare verso di lei e il ragazzo sconosciuto.

Lui aveva il viso di un diciottenne e il corpo di uno dell'età di Dantalian, o per lo meno l'età visiva e non quella vera. Era muscoloso, perfino più di Dan, con la pelle pallida e le spalle ampie, così tanto che la giacca bordeaux si tendeva quasi fino al limite su di esse. Le sue sopracciglia erano scure e aggrottate naturalmente, i capelli castano scuro e lunghi legati da un codino che vedevo a malapena, tranne per i ciuffi davanti che ne erano sfuggiti. Il naso era delicato, in netto contrasto con il resto del suo viso, e gli occhi erano stupendi, di un verde simile all'acqua cristallina di un mare caraibico, così chiari da essere difficili notare che fossero verdi. La sua bocca era carnosa e imbronciata, sembrava incazzato e forse lo era sul serio.

Fulminò Cassie e tornò a fare ciò che stava facendo, ovvero togliere i pezzi di banana dalla macedonia. Li prendeva e li metteva sulla ciotolina di Nivek, che continuava a mangiare come se niente fosse, osservando la scena con curiosità.

«Thone!». Lo rimproverò lei.

Lui si voltò di scatto e scacciò la sua mano con uno schiaffetto. «Quante volte ti devo dire che la banana è molto, troppo, dolce? Non fa bene mangiarla così spesso e in questi giorni abbiamo già sgarrato abbastanza».

«Ma tu non puoi decidere per me!». Cassie si mise a braccia conserte.

Thone la fulminò e la prese per il mento. «Io decido già per te, da anni. Sei tu che non l'hai ancora capito». Ringhiò.

Lei era la sua partner. Lo vidi dal simbolo in comune che portavano, lei al collo e lui sulla giacca. Mi sentii male per lei.

«Lasciala in pace, Thone. Se tu sei un fissato con la palestra e hai un disturbo alimentare non significa che devi privare lei di ciò di cui ti privi tu!». Sibilò Rica, dall'altra parte del tavolo e accanto a Myn.

Amyas, di fronte a lei, le tirò un calcio da sotto al tavolo. O almeno lo immaginai, visto che lei sobbalzò e lo fulminò. «Non intrometterti». Le intimò.

Lei, pronta a ribattere, fu fermata dalla voce di Odelia. «Non dovresti dirle cosa fare, non è giusto-».

«Sta zitta, Odelia». Amos, accanto ad Amyas e di fronte a lei, assottigliò lo sguardo e utilizzò un tono di voce basso e minaccioso. Non potevo vedere i suoi occhi, ma considerando la postura rigida erano sicuramente furiosi.

Mi sentii a disagio e per questo mi dimenai sul posto. Dantalian sembrò capirmi, malgrado lo sguardo basso improvvisamente attirato dal vassoio semi vuoto, e mi strinse di più la coscia. Il sentimento di disagio si ampliò quando Cassie si alzò e uscì dalla mensa senza mai voltarsi indietro.

Un silenzio pesante accompagnò il resto dei secondi, finché Melville non alzò lo sguardo, puntandolo alle mie spalle, e si irrigidì. Il sorriso di Nivek si spense in simultanea e la schiena di Dantalian diventò pietra. Non aveva neanche guardato dietro di sé, ma probabilmente aveva sentito l'odore di qualcuno con il suo naso demoniaco.

Io invece sentii la sua presenza, gelida e autoritaria. Quando mi voltai, sapevo di trovare gli occhi grigi di Denholm, vuoti di ogni emozione o sentimento. Vuoti come lui.

Melville lo guardò. «C'è qualcosa che non va?».

«Mi fa piacere che lo sappiate già». Si aggiustò la giacca e indicò dietro di sé. «Tutti i componenti maschili di questo gruppo sono pregati di seguirmi in ufficio. Discuteremo di una cosa... in privato». Camminò fino alla grande porta della mensa e si fermò, in attesa degli altri.

Non vidi neanche Dantalian scattare o lo avrei fermato prima. Non vidi neanche Kyran vicino al bancone del buffet della mensa. Non vidi in tempo il pugno di Dantalian andarsi a schiantare contro la sua mascella.

Ma vidi tutto il resto. Vidi Kyran e Dantalian combattere, prendersi a pugni, buttarsi a terra e darci dentro l'uno contro l'altro. Vidi Amos tenere fermo Kyran sul pavimento, per evitare che si attaccasse a Dantalian, e Nivek tirare via quest'ultimo per le braccia, insieme ad Amyas e l'altro ragazzo dai capelli castani che non avevo fatto in tempo a conoscere, anche se sapevo si chiamasse Samir perché lo aveva descritto come il più dolce del gruppo.

«Ti faccio pentire di essere nato!». Tuonò Dantalian.

«Ti aspetto, stronzo!». Ribatté Kyran.

E io ero stanca di tutto questo.

Superai Denholm, ignorando la sua occhiata curiosa, e le porte della mensa si chiusero, lasciando alle mie spalle tutto quel frastuono, il sangue, i pugni, la rabbia e i problemi.

Camminai senza una direzione, fissando davanti a me ma senza vedere davvero nulla, e mi fermai solo quando vidi i capelli biondo cenere di Cassie.

«Ehi, mi dispiace per tutto ciò che è successo prima...».

Si voltò e i suoi occhi rossi mi spezzarono un po'. «Non fa niente, ci sono abituata. A volte non so se è meglio accettare tutto questo o ribellarmi, io... io non so cosa fare».

Mi avvicinai e le portai via una lacrima con il pollice. Scossi la testa e le accarezzai dolcemente una guancia, come se fossi una mamma o una sorella maggiore. «Nankuru nai sa». Sussurrai.

«Cosa?». Tirò su con il naso.

Inclinai la testa e lasciai una carezza sui capelli. «Esiste un proverbio molto bello nella città di Okinawa, in Giappone, che dice "makutu sookee nankuru nai sa", ovvero "comportati come dovresti e in qualche modo vedrai che tutto andrà bene". Il tempo aggiusta le cose, il tempo risolve tutto».

«Wow, è... è... bellissimo. Grazie, Arya, grazie davvero». Sorrise riconoscente e mi abbracciò, anche se era la prima volta che mi parlava.

Spostò lo sguardo dietro di me e si allontanò, annuendo impercettibilmente. Non dovevo girarmi per sapere che era arrivato il leone della Savana.

«Che vuoi?». Mi voltai e lo osservai infastidita.

Sbuffò. «Di certo non questo atteggiamento».

«Ogni azione ha la sua conseguenza, mi pare di avertelo detto tanto tempo fa». Alzai le spalle.

Mi fulminò. «Esattamente, quindi non giudicare le mie conseguenze. Ad ogni modo, sono venuto qui per dirti che siamo sicuramente nei guai e che se non mi vedrai per un po' è perché sto... indagando».

«Indagando? Su chi? Su cosa?». Sussurrai con voce stridula.

Alzò gli occhi al cielo. «Se te lo dicessi non starei più indagando, staremmo indagando».

«Certo, sia mai che fra me e te non ci si metta un altro muro dopo averne appena distrutto un altro. Dovrei rinunciarci». Mi massaggiai la fronte, esausta da tutti quei discorsi.

Scosse la testa e mi sembrò quasi dispiaciuto, quasi... sul punto di dirmi tutto. Ma poi storse il naso, come se stesse sondando l'odore del luogo, e cambiò espressione. Tornò indifferente. «Come vuoi, tanto crederai solo a ciò che vedi, quindi non spreco il mio fiato».

Incrociai le braccia e lo vidi voltarsi per andarsene. «Dantalian».

Si fermò e aspettò. Io gli andai vicino, posando una mano sulla sua spalla e una sul fianco destro, tirandomi su leggermente per avvicinarmi al suo orecchio. Mi parve di vederlo rabbrividire.

«Lo specchio in camera mia non è un vero specchio. Ci osservano da dietro esso e non sono sicura che sia così in ogni camera...». Bisbigliai.

Mi osservò di sottecchi. «Lo so, Arya... lo so».

«Lo sai?!». Strillai, tirandomi indietro.

Lui annuì. «Lo so da... un po'».

«E perché cazzo non me l'hai detto? Perché non mi hai avvisato?». Spalancai la bocca. «Pensavo fossimo dalla stessa parte!».

Scosse la testa. «Non potevo o avrei dovuto dirti tutto il resto. Non ti saresti accontentata di una briciola, non ti accontenti, tu vuoi tutto!».

«Certo che voglio tutto! Siamo una-». Mi tappò la bocca con la mano prima di farmi finire la frase.

Strizzò gli occhi e mi intimò con lo sguardo di non farlo, di ascoltarlo almeno stavolta e di fidarmi. Scossi lentamente la testa e lui mi lasciò un piccolo dolce bacio sul naso. «Non è ancora tempo di sapere».

Indietreggiò e io sentii gli occhi farsi caldi. «Non è mai quel tempo, non sarà mai il nostro tempo, lo so io e lo sai tu».

Abbassò lo sguardo e fece un piccolo sorriso, continuando ad indietreggiare e a sparire nell'oscurità del lungo corridoio. «Vorrà dire che ne inventerò uno nuovo». Mormorò.

Scossi la testa. «Ti odio». Lo dissi all'oscurità, perché lui era già andato via.

Mi allontanai a passo lento, strisciando i piedi e uscendo sul retro per prendere una boccata d'aria. Il giardino era bellissimo, verde e ben curato, c'erano anche dei piccoli labirinti. Mi portò alla mente quello dell'Olimpo, anche se non c'era assolutamente nessun tipo di paragonare fra i due.

Mi piegai sulle ginocchia per accarezzare i petali di una rosa rossa, dai petali più scuri del normale e vellutata, sembrava quasi finta. Era perfetta, la forma perfetta di una rosa, piena e con poche spine. Un calore alla nuca mi fece girare verso sinistra.

C'era una bambina che mi osservava.

Una bambina di circa quattro anni, con i capelli biondissimi, lisci e lunghi, dall'aspetto lucido e quasi morbido. I suoi occhi grandi erano due pozze del mio stesso verde, un verde bottiglia e più scuro di quelli più comuni, ma nel suo c'era anche un po' di giallo. Era bellissima e pura come poche cose.

Non disse nulla, mi osservò con curiosità e basta. Poi si avvicinò e prese una lacrima che mi era sfuggita poco prima con il ditino grassoccio, sporcandosi del nero del mio mascara. Osservò la lacrima, la sfiorò e la fece dissolvere. Rialzò lo sguardo sul mio e il suo si riempì di disappunto, come se mi stesse rimproverando.

Scosse la testa e fece di no con il ditino.

Si portò due dita alle estremità della bocca e si tirò la pelle, formando un piccolo sorriso. Mi indicò e intesi di dover fare lo stesso, quindi le sorrisi con dolcezza.

«Grazie...». Mormorai commossa. «Come ti chiami, amore?».

Scosse la testa. Poco dopo si indicò il grambiulino, tutto rosa e bianco, con una piccola targhetta a sinistra. Mi avvicinai per leggere meglio.

AMAYA

Inspirai. Era quella bambina di cui mi aveva parlato Odelia. «Quanti anni hai?».

Sospirò, scuotendo di nuovo la testa. Poco dopo si illuminò e aprì il palmo, abbassando solo il pollice.

Quattro.

Annuii, pronta a chiederle altre cose, ma dietro di lei spuntò un bambino.

Rimase lontano, vicino alla porta da cui ero arrivata, e mi fissò con occhi inquisitori. Si mise a braccia conserte, come un piccolo soldatino, e mi stupii della sua immensa bellezza. Capelli neri, occhi scuri, pelle diafana, viso poco paffuto malgrado l'età e vestito con un piccolo smoking, ma senza la camicia.

«Amaya!». La chiamò a voce alta. «Andiamo!».

Lei tornò a fissarmi e poi fissò lui. Ripeté il movimento per un paio di secondi, come se fosse indecisa.

«Amaya». Addolcì il suo tono e le tese una mano. «Vieni da me».

Gli corse letteralmente incontro e si abbracciarono.

Sorrisi dolcemente, mentre li osservavo rientrare all'istituto manina con manina, con una consapevolezza orribile e un peso sul petto.

Amaya e Damian, gli unici bambini che forse, a differenza degli altri, avremmo potuto salvare. Gli unici che avrebbero potuto avere, forse, un'infanzia dalla parvenza normale.

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