Tecum

By azurahelianthus

428K 24.1K 12.1K

#2 VOLUME DELLA SERIE CROSSED PATHS "𝐿𝑒𝑖 π‘’π‘Ÿπ‘Ž π‘Žπ‘›π‘π‘œπ‘Ÿπ‘Ž π‘’π‘›π‘Ž π‘›π‘œπ‘‘π‘‘π‘’ π‘ π‘’π‘›π‘§π‘Ž 𝑠𝑑𝑒𝑙𝑙𝑒 𝑒... More

πƒπ„πƒπˆπ‚π€
π„π’π„π‘π†πŽ
ππ‘πŽπ‹πŽπ†πŽ
I.
II.
III.
IV.
V.
VI.
VII.
VIII.
IX
X.
XI.
XII.
XIII.
XIV.
XV.
XVI.
XVII.
XVIII
XIX.
XXI.
XXII.
XXIII.
XXIV.
XXV.
XXVI.
XXVII.
XXVIII.
XXIX.
XXX.
XXXI.
XXXII.
XXXIII.
XXXIV.
XXXV.
XXXVI.
XXXVII.
XXXVIII.
XXXIX.
XL.
XLI.
XLII.
XLIII.
XLIV.
XLV.
XLVI.
XLVII.
XLVIII.
XLIX.
L.
π„ππˆπ‹πŽπ†πŽ.
𝐔𝐍𝐀 𝐋𝐄𝐓𝐓𝐄𝐑𝐀 𝐏𝐄𝐑 𝐓𝐄
π‘πˆππ†π‘π€π™πˆπ€πŒπ„ππ“πˆ
πŒπ„π‘π‘π˜ π‚π‡π‘πˆπ’π“πŒπ€π’ β„οΈŽ ππŽππ”π’

XX.

8.2K 515 275
By azurahelianthus

Canzone consigliata:
Mum - Luke Hemmings


Del mio dolore sai niente perché
se tu sapessi, alla fine,
non mi odieresti.

Azura Helianthus

❄︎

Dantalian

La osservai da lontano, seduto a qualche banco di distanza da lei, con gli occhi puntati alla sua lucente massa di capelli scuri e i sensi in allerta, cercando di sondare le sue emozioni con il mio naso demoniaco.

Sentivo un odore aspro nell'aria, era nervosetta oggi, ma c'era anche un odore che in lei non avevo mai sentito prima, dolce come il cioccolato e delicato come la vaniglia. Non riuscivo a capire cosa fosse, ma non era molto presente, considerando la postura rigida della sua schiena.

Qualcosa la turbava e quel qualcosa ero io. Ero tornato ad ignorarla dopo San Valentino e l'unico motivo era la rabbia che mi tornava in mente quando pensavo al motivo per cui non potevamo stare insieme.

Si era già messo il destino contro di noi quattro anni prima, in un modo che nessuno dei due avrebbe mai potuto risolvere, e ora che avevamo dato tutto per essere dove eravamo, lei non voleva stare con me perché mi reputava un mostro. Un mostro crudele, che l'aveva tradita, mandata al patibolo, odiata e martoriata.

Non potevamo stare insieme perché lei credeva davvero che io fossi il crudele principe guerriero.

Scossi la testa e scarabocchiai qualcosa sul taccuino, ignorando totalmente il professore e qualunque cosa stesse blaterando. Finché il silenzio attorno a me non fu troppo silenzioso e non fui costretto ad alzare lo sguardo, incontrando quello del professore.

«Signorino Zolotas, se la lezione non è di suo interesse le indico quella, che è una porta, da cui può benissimo uscire e rimanere in corridoio». Si sistemò gli occhiali sul naso e a me venne voglia di spaccarglieli.

Avevo problemi ben più grandi di una lezione del cazzo.

Sbuffai. «Certo, ma ormai mancano pochi secondi al suono della campanella, quindi perché dovrei scomodarmi».

Vidi la testa di Arya scattare nella mia direzione, osservandomi con uno sguardo di rimprovero.

Il professore assottigliò lo sguardo. «In realtà mancano ben venti-».

Una carezza astratta alla campanella, che potevo osservare da qui, e lei scattò, iniziando a fare il solito rumore assordante, confermando le mie precedenti parole. Che dire, il potere di coercizione sapeva essere una gran figata.

1-1 palla al centro, caro prof.

Mi alzai di scatto con un ghigno soddisfatto e mi portai dietro il taccuino, sentendo dei passi leggeri alle mie spalle seguirmi. Non era Arya, lei non era così delicata, e i suoi stivaletti facevano più rumore.

«Dan...». Sussurrò una voce flebile.

Mi voltai e incontrai lo sguardo verde, così chiaro da sembrare quasi il colore verdognolo di certi fondali, di Rica, la partner di Amyas. Sapevo di lei ben poco, che fosse divertente, molto aggressiva e che odiasse ogni tipo di divieto. Voleva essere libera, il che era ironico considerando il luogo in cui si trovava dalla nascita.

«Dimmi, Rica». Le feci segno di spostarci più verso le pareti del corridoio, per non intralciare la strada degli altri.

Sospirò. «Sai se Amyas è ancora arrabbiato con me per la bravata che è successa il giorno prima di San Valentino? Abbiamo litigato furiosamente quel giorno, così tanto che per la giornata delle rose non mi ha neanche fatto trovare una rosa, e io... non so cosa fare, sono abituata a litigare con le persone di cui non me ne frega un fico secco».

Mi morsi le labbra per trattenere un sorriso e lei mi fulminò. «Smettila di prendermi in giro, per me è... umiliante».

«Provare qualcosa per qualcuno per te è umiliante?». Aprì la bocca ma la richiuse poco dopo e io sorrisi. «Vedi? Osservi la cosa dal lato sbagliato. Non sai cosa fare perché ti è sempre sembrato sbagliato e umiliante fare il primo passo dopo una litigata, come se fosse una debolezza, ma è come se stessi dicendo che provare amore quivale a essere deboli».

«Perché, non è così?». Si mosse a disagio.

Scossi la testa e lo puntai verso Arya, che mi stava osservando mentre usciva di tutta fretta dall'aula. Si fermò, sorpresa. «No, l'amore ti rende forte. Ci ho messo del tempo a ricordarlo, ma ce l'ho fatta».

«Sei davvero bravo come dice Myn allora e non come dice Nivek». Mi guardò con uno sguardo così riconoscente che mi scaldò e per questo le posai una mano sui capelli, accarezzandola con calma e affetto. Sorrise.

«E cosa dice il bucaneve su di me?». Indagai.

Rise. «Che sei un figo a cui pesa il culo e per questo non sistemi mai la camera e che Arya è l'unica donna al mondo a essere sfortunata e fortunata allo stesso tempo».

«Amo uno stronzo». Risi fragorosamente, ricordando tutte le volte in cui gli insulti di Nivek li avevo sentiti anche durante la notte, mentre raccoglieva la mia roba e la sistemava al suo posto.

Una cosa piccola e scura mi passò accanto come un fulmine e quasi mi colpì la spalla, se solo non mi fossi scostato in tempo. Mi guardai alle spalle e capii, dai capelli scuri a differenza delle altre, che fosse Arya.

«Scusa, Rica, devo andare. Ci vediamo!». Le sfrecciai dietro, senza neanche ascoltare la risposta della bionda rossiccia, e quando fui abbastanza vicino le attanagliai un polso.

«Che ti prende?». Mormorai.

Sbuffò rumorosamente e si scostò dalla mia presa. «Che ti prende a te, semmai! Sono stufa, okay? Ne ho fin sopra i dannati capelli!».

«Ma-».

«Niente "ma", sono così arrabbiata e delusa! Delusa di aver creduto di aver fatto qualcosa di sbagliato, di cercare di comprendere la tua rabbia così ingiustificata, e mi ripaghi aiutando tutti, tutti cazzo, tranne me! Non mi parli, non mi ascolti, non mi aiuti, cosa ci stai a fare qui? Vattene e lasciami in pace! Ma no, no...». Urlò in preda alla rabbia. «A te piace giocare al topo e al gatto, ti piace fare l'angioletto un secondo prima e il mostro il secondo dopo, ti piace rovinarmi la vita! E io sono stanca!».

Il botto della mia stessa esplosione potei sentirlo solo io, ma le conseguenze sarebbero state palpabili per tutti, per chiunque, ma lei... per lei di più.

E io esplosi. Quel giorno, in quel momento, esplosi.

Non sapevo neanche dire perché, forse avevo sopportato fin troppo il nomignolo "mostro", o forse perché, a furia di ascoltare e prendermi la rabbia di tutti, avevo bisogno di sfogare anch'io la mia. O forse perché lei era in grado di innescare la parte migliore di me, ma anche la peggiore e la più furiosa.

Non lo sapevo, ma successe.

«E io sono stanco di sentire uscire quella parola del cazzo dalla tua bocca». Ringhiai, prendendola per un polso e trascinandomela dietro con tutta la forza che ero in grado di usare, senza però farle male, attingendo alla mia furia. «Quindi ora vieni con me, zitta e senza discutere».

Mi fulminò, sapendo che avrebbe potuto divincolarsi. «Dove?».

«A farti capire quello che, se non te lo racconto, non capiresti mai. A farti sapere la vera storia e non quella che raccontano». Sputai acido.

La sentii inspirare sorpresa. «Ma di che stai parl-».

«Silenzio!». Tuonai fuori di me.

Il dolore mi accecava, silenziava il mio cervello in protesta e spezzava quel che rimaneva del mio cuore, lo tritava, pugnalava e bruciava. Vedevo rosso, rosso come il sangue scarlatto che avevo versato per anni, e la mia cassa toracica mi impediva di respirare a fondo, come se i miei polmoni fossero pieni di acqua, di lacrime che mai avrebbero potuto lasciare i miei occhi e che sarebbero rimaste per sempre lì. Mi avrebbero ucciso, facendomi annegare nel loro dolore.

Un botto, un rumore assordante, la fece sobbalzare e il vento iniziò a sibilare attorno a noi, entrato dalle finestre aperte.

Il suo pollice, inaspettatamente, andò ad accarezzarmi la mano. «Dan, devi calmarti! I miei, i tuoi poteri, sono fuori controllo! Riprendi il controllo o sarà un grosso problema arrestare Anemoi!».

Continuando a marciare verso la mia camera, salendo le scale a passo svelto con lei dietro di me, iniziai a respirare profondamente e a deglutire, cercando di placare le mie emozioni o almeno tentare di mettere un vetro in mezzo, fra loro e quei poteri. Quei poteri che non erano miei.

Piano piano il vento si stabilizzò, le finestre smisero di battere e il mio cuore si silenziò, imballato con del poliestere immaginario. Chiusi la porta dietro di noi e la osservai, mentre i suoi occhi vagavano curiosi in un luogo dove ancora non era mai stata.

«È... bella. Ordinata e bella, complimenti». Si mosse, ora a disagio.

Alzai un sopracciglio. «Ordinata grazie a Nivek».

Sorrise, come se l'avesse immaginato, ma poi tornò seria. «Perché sono qui Dantalian? Perché mi hai portato qui?».

«Perché devi sapere la verità». Fissai il pavimento senza vederlo davvero, parlando a bassa voce. «Perché non voglio più essere il crudele principe guerriero, non per te. Voglio che la maschera di ghiaccio cada, Tiam».

Aprì la bocca come se volesse dire qualcosa, ma scossi la testa. «Stavolta tocca a me parlare. Per favore, lasciami parlare».

Io, proprio io, che odiavo parlare troppo, che odiavo i discorsi seri e le spiegazioni, la pregavo di ascoltarmi. La pregavo di farlo perché quello che stavo per dire lo sapeva solo Erazm, l'unico che aveva capito, seppur dopo tanto tempo, che avevo preferito sempre non parlare di ciò per non riviverlo.

Mi avvicinai all'unica finestra della stanza, dove era posto un piccolo divano improvvisato, anche se era semplicemente il davanzale di essa con sopra una coperta e dei cuscini. Mi sedetti e poggiai la nuca al muro, senza trovare il coraggio di guardarla.

«Sai come mi ha cresciuto mio padre? Non lo ha fatto». Risi amareggiato. «Non mi ha insegnato nulla, non a farmi la doccia, non a cucinare, non ad amare. Mi lasciava da solo ore e ore, non gli importava se mangiavo o no, se ero in grado di prendermi cura di me stesso o se avessi un tetto sopra la testa. Ma ogni giorno, alle quattro del pomeriggio dovevo essere da lui, in uno scantinato sperduto in qualunque bosco della Malesia. Lì mi ha addestrato, mi ha insegnato a combattere con la forza, con i metodi più bruti, e sai che succedeva se non paravo il suo colpo alla perfezione? Mi frustava, venti frustrate per ogni colpo sbagliato. Non porto cicatrici perché la mia pelle guariva in fretta, ma il dolore era lo stesso di un umano. Ogni giorno per due anni, Arya, finché non ho imparato a difendermi alla perfezione, nessuno poteva più sopraffarmi, o peggio, uccidermi. Ero un mostro, ma non quello che voleva lui. Non riusciva a rendere la mia anima come la sua in nessun modo. Anche se ti è difficile crederlo, io ero come te, un buono che credeva ancora nella bontà del mondo. Rylan amava la spremuta d'arancia la mattina, i pancake con lo sciroppo d'acero, desiderava l'amore dei libri e ignorava le occhiate impaurite della gente che lo vedeva camminare per strada, a causa del suo fisico possente e intimidatorio. Ci stava anche male».

Mi tornarono in mente molti ricordi. La puzza di bruciato del mio primo uovo in padella, il primo mocio spezzato a metà mentre pulivo perché non ero in grado di dosare la mia forza, il primo sorriso che avevo ricevuto dopo aver aiutato una signora anziana ad attraversare. Ricordavo ancora le sue successive parole.

"Figliolo, dopo secoli di vita l'essere umano non ha ancora imparato a distinguere l'apparenza dalla realtà. Ripeteremo sempre gli stessi errori".

«Mio padre odiava Rylan e la sua anima buona. Perciò ha fatto l'unica cosa che poteva fare... mi ha reso un mostro agli occhi degli altri». Mormorai.

Potei sentire chiaramente il suo respiro spezzarsi come il mio cuore, forse anche come il suo. «Cosa ti ha fatto?».

«Stavo tornando da un incarico notturno quel giorno. Ero felice perché avevo ottenuto il mio primo meraki come forma di pagamento e sapevo che avrei reso orgoglioso mio padre, perché come uno stupido mi piaceva ancora farlo. Avevo imboccato una stradina buia per tornare a casa, visto che ero sporco di liquidi di dubbia provenienza, ed è lì che l'ho trovato. A terra, sull'asfalto gelido, c'era un bambino dall'aspetto di uno di un anno, non di più. Sentivo il suo odore, era un ibrido, e il suo cuore batteva con una lentezza estenuante. Prendendolo in braccio avevo notato la sua mano sinistra e mi era venuto da vomitare...». Venni scosso da un fremito al ricordo di quella notte. «Aveva tre dita mozzate, ancora con il sangue incrostato su di esse, e non sarebbero più ricresciute perché la sua parte demoniaca non era ancora stata sviluppata. A parte il suo odore per gli altri sarebbero stato un bambino normale e solo ai suoi vent'anni avrebbe sviluppato dei poteri demoniaci. Era come se fosse un esperimento andato male, abbandonato a sé stesso e con un riconoscimento addosso».

I suoi occhi nocciola mi tornarono in mente con prepotenza, grandi ed espressivi, con ciglia folte e scure malgrado i suoi capelli rossi. La mia stessa voce mi tornò nelle orecchie, mentre il ricordo di me che lo inseguivo nel bosco dietro casa e giocavo con lui mi colpì allo stomaco come un calcio ben piazzato.

"Carotina, lo sai che ti prendo! Sei troppo piccolo per scappare".

Sei troppo piccolo per scappare. Chiusi gli occhi e l'oceano nei miei polmoni aumentò di volume.

Lacrime, lacrime, lacrime.

«Mi sono preso cura di lui per settimane, anche se ancora stavo imparando a prendermi cura di me. Imparavamo insieme, mi faceva conoscere cose nuove di me e di lui, mi riempiva le giornate e il cuore. Era diventato il mio fratellino. Non sapevo il suo nome e allora gliene avevo dato uno nuovo: Agap, "amato" in greco antico. Lo chiamavo e gli dicevo che lo amavo, ma lui ancora non lo sapeva». Mormorai. «Mio padre era sparito, ma non per molto. Un giorno tornò e io fui chiamato da lui. Lasciai Agap a casa perché era meglio saperlo solo che portarlo con me. Mi propose un incaricato da dividere a metà, io lo svolgevo e avrei ottenuto un altro meraki, mentre lui si sarebbe preso i poteri della ragazza. Era una strega, figlia di un Anziana, e per questo avrei dovuto farla innamorare per avvicinarmi a lei. Dovevo solo ottenere la sua fiducia e prendere i suoi poteri per poi darli a lui, nient'altro. Sarebbe rimasta illesa, mi aveva giurato». Sorrisi amareggiato.

Annuii al cuore che mi doleva, quasi sussurrandogli "lo so, fa male dirlo, fa male ricordare, ma è peggio sapere che lei crede alle voci e non a me". «Io non ero stupido però. Sapevo che niente, nel nostro mondo, viene dato per niente, c'è sempre una conseguenza terribile. Lui non era in grado di mentire, ma solo eludere il problema, e ammise che la strega sarebbe morta. Mi rifiutai e allora mi minacciò». Strinsi i pungi. «Mi fece vedere la telecamera dei sotterranei. Li c'era Agap, imbavagliato e legato in un letto troppo grande per il suo corpicino tremante. I suoi capelli erano più scuri, come se fossero sudati, e Dio solo sapeva cosa lui gli avesse fatto. Giurai di ucciderlo se lo avesse toccato e lui rise, dicendo che non gli avrebbe tolto un solo capello alla mia carotina se avessi svolto l'incarico».

«Dan...». Sussurrò tremante.

Scossi la testa sovrappensiero. «lo feci, non avevo altra scelta, capisci? Era solo un bambino e io avevo la sua stessa età, avevo solo quattro anni di vita e poche esperienze malgrado il mio aspetto fisico. Ero troppo giovane per tutto quello. Lo era anche la strega ma dovevo decidere: o lei o Agap. Scelsi Agap e lo farei ancora, ogni giorno della mia vita». Mi si chiuse la gola, ma continuai a parlare. «Dopo settimane lei si fidò abbastanza di me da lasciarmi nella sua mente. Settimane in cui Agap rimaneva rinchiuso in quella cella, senza che io sapessi cosa gli facessero o come stesse. Non ci pensai due volte a prendere Vepo con i miei artigli mentali e i miei denti sul suo collo, ma poi tutto peggiorò in qualche secondo, il tempo di un battito di ciglia: non lo avevo mai fatto prima, non sapevo come essere delicato, e le feci male, un dolore che la spezzò. Vepo entrò dentro di me e il prezzo da pagare fu la morte della strega, prosciugata totalmente fra le mie braccia. Dalla porta entrò Baal qualche minuto dopo».

Risentii il sapore metallico in bocca e le sue urla doloranti, il freddo che Vepo aveva portato dentro di me e il pesante senso di colpa nel cuore.

«Mi disse di lanciargli contro Vepo, ma c'era qualcosa che bloccava il passaggio, era come un vetro trasparente attorno al potere. I miei artigli mentali riuscivano a sfiorare la sua mente, ma il potere non trapassava, era legato indissolubilmente a me. Controllai che ci fosse davvero, creando una piccola bolla d'acqua sul palmo della mano, e lì Baal capì il vero problema. Lo lessi nella sua mente: per poter passare il potere a qualcun altro si doveva essere sul punto di morire. Non avrei mai potuto dargli Vepo se non fossi morto». Mormorai. «In quello stesso secondo lui si smaterializzò e lì entrò l'Anziana, che mi colse in flagrante di qualcosa che non avevo compiuto di mia spontanea volontà. Ero una vittima, ma lei non mi credette ovviamente, e mi maledisse. Entrarono tutte le altre Anziane, così come i loro demoni di fiducia, e tante altre streghe. Tutti seppero quello che non avevo fatto, credendo però a ciò che i loro occhi vedevano e non alle mie urla disperate. Pensavano fosse una farsa».

La sentii singhiozzare, spezzata dal mio stesso dolore.

«Tornai a casa distrutto. Volevo solo lavarmi e cambiarmi, così sarei tornato a prendere Agap, non mi interessava neanche di essere appena stato maledetto o di essere diventato un mostro agli occhi degli altri. Io rivolevo solo la mia carotina, la compagnia per la mia solitudine e il mio dolore. Ma una volta rientrato a casa trovai una cazzo di sorpresa...».

Mi piegai per poggiare i gomiti sulle ginocchia e mi portai le mani ai capelli, tirandoli come tirava il mio cuore, poi sulla mia faccia, ricreando le lacrime invisibili che mi stavano scorrendo su di esso. «C'era un corpo sul tappetino del mio salotto. Un corpicino. Totalmente carbonizzato. Non avrei mai potuto riconoscerlo, nessuno avrebbe potuto, e per questo mi avvicinai, mentre un conato di vomito mi risaliva in gola. Quando il mio sguardo cadde sulle mani del bambino il mio cuore si fermò e un urlo disperato uscì dalla mia bocca, fece tremare tutto e mi spezzò, costringendo a finire in ginocchio e a piegarmi su me stesso...».

«No. No,no, no, non può aver-». Singhiozzò.

Annuii. «Aveva solo due dita nella mano sinistra. Quante probabilità c'erano che un altro bambino, il cui corpo era stato lasciato nel mio salotto, avesse tre dita mozzate nella mano sinistra?». Mi portai la mano alla bocca e tremai al ricordo del dolore, che sentivo ancora adesso, della puzza di cadavere e di vomito, del mio vomito.

«Perché lo ha fatto? Aveva detto...». Sussurrò.

Scossi la testa amareggiato. «Disse di averlo fatto per farmi imparare due lezioni essenziali nella vita di un demone. La prima, di non fidarsi mai della parola di nessuno, e la seconda, che l'amore è l'arma più potente da usare contro qualcuno. Che se mi fossi permesso di provare affetto per qualcuno, allora sarei diventato più mortale di un umano, che ero destinato a stare da solo. Mi aveva spianato la strada, a detta sua, facendo credere a tutti che fossi un mostro e togliendomi Agap. Nessuno più mi avrebbe voluto, sarei stato chiamato solo per incarichi di grande portata e sarei stato quasi immortale. Sarei diventato il più spietato principe demoniaco in circolazione e quello sarebbe stato il mio unico destino».

Alzò lo sguardo su di me, così come io su di lei. Aveva le labbra tremanti, gli occhi lucidi e le guance bagnate dalle lacrime. Era così bella, malgrado il dolore sul suo viso. Avrei voluto essere una gomma per poterlo cancellare, ma non era così facile. Il dolore era indelebile.

«Allora perché non hai detto la verità, perché non hai tentato di nuovo di farti credere, perché ti fai chiamare ancora il crudele principe guerriero? Non capisco...».

Sospirai. «I giorni seguenti furono anche peggio. I demoni all'inferno mi evitavano, quelli che erano i miei amici o colleghi mi sdegnavano, le donne mi guardavano impaurite e tutti mi parlavano dietro. Tornavo a casa e passavo le ore a chiamare mentalmente mia madre, come facevo ogni giorno da anni, cercando il suo aiuto per tutto quello che subivo. Lei era all'Olimpo e mai avrebbe potuto sentirmi, non ero ancora a conoscenza dei modi per evocare una dea. Volevo aiuto, avevo bisogno di aiuto, ma nessuno mi aiutava. Ero da solo, senza amici, senza famiglia». Mormorai. «Un giorno una bambina ibrida perse il suo pennello da pittura e io mi avvicinai per darglielo. Lei lo prese e mi sorrise, finché sua madre, una demonessa, non iniziò ad urlare e a tirarla via da me. Disse che doveva stare lontana dal crudele principe guerriero e la sentirono tutti, anche gli umani attorno a noi. Gli sguardi spaventati e schifati mi bruciavano la schiena come mille frustrate e fu così che decisi».

Mi guardò come se mi vedesse sul serio per la prima volta. «Che hai deciso?».

«Capii che quando tutti credono che tu sia un mostro, è più facile diventarlo che dimostrare loro di non esserlo. Un detto diceva che se fai novantanove cose buone e una brutta, la gente ti ricorderà sempre per la seconda. E io ero stanco di dare novantanove per ricevere il risultato di uno, così sono diventato quell'uno...». Sorrisi amareggiato. «I mostri di solito sono il risultato delle parole dette dalla gente considerata buona. Non fraintendermi, esiste davvero la pura cattiveria in certe persone, ma se ci fai caso sono sempre quelle emarginate, quelle che nessuno calcola. Forse, se chiedessimo più volte "perché" invece di additare, ci sarebbero meno mostri al mondo. Forse, i mostri vorrebbero solo essere ascoltati».

Qualcosa spezzò la diga che era sempre esistita fra di noi. L'acqua inondò entrambi, lei la fece scorrere sulle guance, io annegai in essa. Si alzò di scatto e corse da me, abbracciandomi forse per la seconda volta in tutti gli anni di conoscenza fra di noi. Dopo anni, mi abbracciò di nuovo, e fu come la prima volta. Colori, esplosioni e dolcezza che illuminarono il mio buio.

«Mi dispiace, mi dispiace così tanto». Mormorò tremando. La strinsi a me e posai il volto fra i suoi capelli scuri, sentendo il dolore dentro di me quasi zittirsi. «Davvero non ti hanno mai chiesto il perché?».

Era incredula della crudeltà del mondo. Lo ero stato anch'io.

Spostai lo sguardo sulla finestra, bagnata esternamente dalla pioggia, senza mai smettere di stringerla. Era la mia ancora. «Lo hanno fatto solo quando ho perso la voglia di dirlo. Quando ho capito che tanto non mi avrebbero mai creduto». Mormorai.

«Ho fatto quello che ho fatto dopo, nel corso della mia vita, perché ho pensato che se gli altri non mi capivano allora avrei dovuto mostrare loro come ci si sente a perdere tutto in pochi minuti. Solo così avevo un po' di pace. Poi sei arrivata tu e mi hai fatto capire che dare agli altri il dolore che abbiamo vissuto non ci restituisce ciò che abbiamo perso». Singhiozzò più forte e io la ringraziai mentalmente, perché stava facendo scorrere quelle lacrime di dolore che a me non erano concesse.

«Era questo a cui ti riferivi quando hai detto che solo una persona ti ha insegnato qualcosa?». Mi strinse più forte.

Sorrisi dolcemente. Era furba, la mia lucciola. «Tu mi hai insegnato tutto, Arya. Il resto della mia vita è solo contorno. Mi dispiace di averti spezzato solo perché anche io sono spezzato. Mi rendo conto di essere sbagliato».

Chiusi gli occhi con forza quando la vidi tirarsi indietro, non avevo il coraggio di guardarla negli occhi dopo tutto questo. «Non so se riuscirai mai a ripararmi, Tiam, voglio che tu lo sappia. Mi dispiace...».

Mi prese per le guance. «Apri i tuoi bellissimi occhi, Dantalian».

Non mi sfuggii la similitudine, il ricordo di quando glielo dissi io, nel bagno della nostra vecchia casa, e lo feci. Li aprii lentamente e il verde dei suoi occhi fu tutto ciò che fui in grado di vedere, mi riempì, mi ammorbidì e mi dimostrò che piegarsi non era una cosa brutta.

«Io non voglio ripararti, Dantalian Rylan Zikas. Perché tu non sei rotto, non sei in frantumi, non sei a cocci, non sei sbagliato, non hai nessun difetto di fabbrica. Sei solo incompreso». Mormorò.

La guardai e mi persi, ma solo per ritrovarmi poco dopo. Capii che avrei sopportato di nuovo tutto il dolore, il buio, la solitudine e gli anni difficili della mia vita se avessi saputo che un giorno mi sarei trovato qui, seduto in un posto qualsiasi, con lei al mio fianco. Il dolore ne valeva la pena, se solo lei fosse stata sempre la mia ricompensa.

"Mi domando se le stelle sono illuminate perché ognuno possa un giorno trovare la sua", aveva scritto Antoine de Saint-Exupéry.

Io le stelle non le avevo mai notate prima, per me esisteva solo il buio. Ma quel giorno, lei stessa, mi confermò che Arya Haven Eyesflame era la mia.

Continue Reading

You'll Also Like

483K 14.6K 65
{COMPLETA} Accetta. Dimentica. Ricomincia. Ricominciare, ecco cosa voleva Arthemsis. Voleva dare una possibilitΓ  a se stessa di essere felice dopo un...
885K 21.5K 40
~ 1 ~ π‹π¨π§πžπ₯𝐒𝐧𝐞𝐬𝐬 𝐬𝐞𝐫𝐒𝐞𝐬 Blaire Carter torna a Aroundsville per affrontare l'ultimo anno di liceo e il suo unico obbiettivo Γ¨ quello d...
1.6M 50.1K 72
"Moriremo tutti prima o poi, indipendentemente dalla malattia" La mia poteva sembrare una semplice scusa. Ma la veritΓ  era che non ero pronta per d...
1M 34.4K 61
~ 2 ~ π‹π¨π§πžπ₯𝐒𝐧𝐞𝐬𝐬 𝐬𝐞𝐫𝐒𝐞𝐬 Crystal Γ¨ la cattiva della storia. Quel tipo di ragazza che ti soffierebbe da sotto il naso il ragazzo e lo t...